Allergia alle uova: immunoterapia orale, strategia efficace

L’immunoterapia orale è efficace nel desensibilizzare una importante percentuale di bambini allergici alle uova e nell’indurre una duratura non-responsività in un sottoinsieme clinicamente significativo di pazienti. Lo afferma uno studio apparso sulNew England Journal of Medicine.

L’allergia alle uova è la seconda più diffusa dopo quella al latte tra quelle alimentari, e colpisce l’1-2% dei bambini. La storia naturale dell’allergia alle uova ci suggerisce che solo il 4% dei bambini riesce a superare la condizione a 4 anni, mentre il 37% deve attendere i 10 anni di età e il rimanente 59% addirittura i 16 anni. Un problema epidemiologico di non poco conto: evitare le uova è infatti complicato per le famiglie, perché sono presenti in numerosi alimenti anche ‘insospettabili’ e vengono utilizzate persino per produrre alcuni vaccini. Allo stato attuale del resto non c’è scelta: l’unico trattamento validato e approvato per l’allergia alle uova è la dieta di esclusione. Numerosi ricercatori in passato hanno proposto una strategia di immunoterapia orale mediante somministrazione di proteine di albume d’uovo per il trattamento dei bambini affetti da allergia alle uova (seguendo il modello sperimentato con successo per altre allergie alimentari), ma i dati finora raccolti sono stati contraddittori. Nel 2005 è stato costituito dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) un Consortium of Food Allergy Research (CoFAR) per condurre studi osservazionali e clinici sull’argomento. Ora il team del Department of Pediatrics del Duke University Medical Center di Durham, coordinato da A. Wesley Burks, in uno studio in doppio cieco vs. placebo ha randomizzato 55 bambini dai 5 agli 11 anni affetti da allergia alle uova a immunoterapia orale (n=40) o placebo (n=15).

Il protocollo della immunoterapia orale era declinato in tre fasi: all’aumento progressivo della dose sono seguite una fase di build-up e la fase di mantenimento con la somministrazione di 2 g di albume in polvere (l’equivalente di un terzo di uovo). Immediatamente dopo i pazienti sono stati sottoposti a test di provocazione (challenge) orale ‒ rispettivamente con 5 g e 10 g di albume in polvere ‒ a 10 e 22 mesi. I pazienti che hanno superato il challenge orale a 22 mesi (n=30, 75% del gruppo trattato con immunoterapia orale, 0% del gruppo placebo) hanno interrotto l’immunoterapia, poi hanno evitato accuratamente l’assunzione di uova per 4-6 settimane, a 24 mesi sono stati sottoposti ad un altro test di provocazione orale, stavolta non solo con 10 g di albume in polvere ma anche con 1 uovo cotto per verificare l’esistenza di una non-responsività duratura. I pazienti che hanno superato questo ulteriore challenge orale (n=11, 28% dei pazienti del gruppo trattato con immunoterapia orale) sono stati avviati a una dieta libera – uova comprese – e valutati infine a 30 e 36 mesi. Tutti i pazienti giunti a questa fase del percorso terapeutico ormai consumavano uova senza presentare alcun sintomo allergico. La misurazione di marker immunologici durante lo studio e il follow-up hanno evidenziato come i bambini sottoposti a immunoterapia orale, rispetto a quelli trattati con placebo, presentavano minore diametro dei pomfi durante il prick test (indice di soppressione dei mastociti), ridotta attivazione basofila uovo-indotta e aumento dei livelli di IgG4 alimento-specifici, mentre nessuna oscillazione nei livelli di anticorpi IgE alimento-specifici è stata registrata. Spiega A. Wesley Burks: “L’immunoterapia orale garantisce protezione a un gran numero di bambini affetti da allergia alle uova innalzando la soglia della reazione immunitaria, e quindi rappresenta una terapia molto promettente per le allergie alimentari. I meccanismi che determinano il successo o il fallimento dell’immunoterapia orale sono però ancora ignoti. Affinché l’immunoterapia orale diventi lo standard di trattamento però occorre definire più accuratamente i rischi che comporta rispetto alla semplice dieta di evitamento, definire i dosaggi che garantiscono gli outcome migliori, identificare i pazienti che possono beneficiare di più dell’immunoterapia orale e sviluppare strategie post-desensibilizzazione che consentano effetti duraturi”.

▼ Burks AW, Jones SM, Wood RA et al for the Consortium of Food Allergy Research (CoFAR). Oral Immunotherapy for Treatment of Egg Allergy in Children. N Engl J Med 2012;367:233-243

CORP-1053355-0000-UNV-W-09/2014

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Uso statine e aumento disturbi muscolo-scheletrici

L’uso delle statine contro il colesterolo si associa a un lieve aumento di disturbi muscolo-scheletrici come lesioni e artropatie, secondo un articolo pubblicato online su Jama Internal Medicine. «I farmaci ipolipemizzanti come le statine sono comunemente usati per il trattamento dell’ipercolesterolemia» Dice Ishak Mansi, ricercatore del North Texas Veterans Administration  Health Care System di Dallas, Texas e coautore dello studio, sottolineando che tra gli effetti collaterali più comuni vi è la miopatia. «La miopatia da statine consiste in uno spettro di disturbi che vanno da una mialgia lieve alla rabdomiolisi addirittura fatale» riprende il ricercatore, puntualizzando che il meccanismo alla base dei disturbi muscolari non è noto. Un’ipotesi è che l’alterazione della sintesi di colesterolo porti a modifiche nelle membrane dei miociti, alterandone il comportamento biochimico. Un altro meccanismo potrebbe essere l’alterazione nella sintesi dei composti della via del colesterolo, in particolare un deficit di coenzima Q10, che determina alterazioni enzimatiche mitocondriali. Infine, in causa potrebbe esserci la deplezione degli isoprenoidi, lipidi prodotti della via dell’idrossi-metil-glutaril coenzima A reduttasi che prevengono l’apoptosi delle fibre muscolari. E per verificare la frequenza e il tipo di disturbi muscoloscheletrici associati alle statine Mansi e colleghi hanno utilizzato in modo retrospettivo i dati relativi all’anno fiscale 2005 del sistema di assistenza sanitaria dedicato ai veterani di guerra, dividendo i partecipanti selezionati in due gruppi: gli utilizzatori di statine per almeno 90 giorni e i non consumatori. Un totale di 46.249 soggetti ha soddisfatto i criteri di studio, e tra questi 6.967 che assumevano statine sono stati accoppiati ad altrettanti soggetti che non ne facevano uso, osservando una frequenza di disturbi assai elevata in entrambi i gruppi, con un mopdesto incremento tra i soggetti in terapia: «Disturbi muscolo-scheletrici, artropatie, lesioni e dolore muscolare sono più comuni tra gli utilizzatori di statine rispetto ai coetanei non consumatori. Il nostro approccio esplora la gamma completa di eventi avversi muscoloscheletrici da statine, ma ulteriori studi sono necessari in questo senso, specie nei soggetti fisicamente attivi» conclude Mansi.

Published online June 3, 2013. doi:10.1001/jamainternmed.2013.6184

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Alimentazione in tempi di crisi. Dai dietisti dell’Andid un decalogo ‘eco alimentare’

Buona alimentazione può voler dire anche risparmio in tempi di crisi. Per questo i dietisti dell’Andid in occasione del 25° Congresso Nazionale propongono dieci semplici regole per un alimentazione sana e sostenibile sia per il pianeta che per il portafoglio. 

16 MAG – Risparmio vuol dire saper scegliere con attenzione e competenza: la strategia vincente è giocare su frequenza di consumo e varietà, privilegiando i cibi salutari e limitando quelli superflui dal punto di vista nutrizionale, senza che peraltro questo significhi rinunce e sacrificio. E così in occasione del 25° Congresso Nazionale i dietisti Andid hanno presentato un nuovo decalogo ad hoc per i tempi di crisi.
 
 
“Una buona alimentazione – spiega la presidente Giovanna Cecchetto – si basa sulla preferenza di consumo di prodotti di origine vegetale (frutta, verdura, cereali e legumi) , sull’alternanza settimanale di prodotti di origine animale, utilizzando anche fonti di ottimo valore nutritivo e di costo limitato (latticini, formaggi, uova) e sulla scelta di acqua di rubinetto come fonte principale per l’idratazione. Inoltre la lotta allo spreco ottenuta attraverso la pianificazione del menù settimanale e della spesa, si traduce in ulteriore risparmio per la famiglia, consentendo saltuariamente la possibilità di concedersi qualche “sfizio” senza pericolose ricadute né sulla salute né sul portafoglio”.
 
 
 
Il decalogo:
 
-Consuma con regolarità almeno 3 pasti al giorno, cominciando dalla prima colazione.
 
-A tavola dai la preferenza ai prodotti di origine vegetale (frutta e verdura di stagione,legumi e cereali), possibilmente prodotti localmente (a filiera corta). Le verdure possono essere utilizzate anche per realizzare gustosi primi e secondi piatti. Ricorda: 5 porzioni al giorno tra frutta e verdura
 
-Ad ogni pasto principale inserisci almeno una porzione di cereali e derivati (pane, pasta, riso,mais, patate), privilegiando prodotti integrali e a ridotto contenuto in grassi; non dimenticare mai di aggiungere un piatto “generoso” di verdura cotta o cruda.
 
-Non eccedere nel consumo di prodotti di origine animale quali carne, salumi e insaccati, latticini e formaggi: durante la settimana, a pranzo e a cena, alterna la varietà privilegiando la carne bianca, inserisci il pesce (ottimo quello azzurro!) 1-2 volte a settimana, le uova 1-2 volte a settimana e limita i formaggi a 2-3 volte a settimana.
 
-I legumi secchi o freschi (ceci, fagioli, lenticchie, fave, piselli) – alimenti che appartengono da sempre alla tradizione gastronomica italiana – possono dar vita, combinati con i cereali, a saporiti ed invitanti piatti unici: introducili nella tua alimentazione almeno due volte a settimana
 
-Preferisci l’olio extravergine d’oliva sia per la cottura che come condimento a crudo; usa strumenti di cottura che permettono di limitarne la quantità.
 
-Pianifica, per quanto possibile, il menù settimanale e fai la spesa seguendo una lista degli acquisti preparata a casa. Non lasciarti suggestionare dalle campagne di marketing che invitano ad acquistare sottocosto prodotti alimentari non realmente necessari.
 
-Riduci, riusa, ricicla: così non sprecherai, potrai risparmiare e… guadagnare salute
 
-Ricordati di bere spesso: l’acqua di rubinetto va benissimo ma anche infusi o tisane non zuccherate.
 
-Vivi una vita attiva: utilizza ogni occasione della tua giornata per muoverti di più.

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Artrite idiopatica giovanile sistemica. Buoni risultati per Canakinumab

16 MAG – Canakinumab, farmaco per il trattamento dell’artrite idiopatica giovanile sistemica in forma attiva (SJIA) nei pazienti dai 2 anni di età, è stato approvato in questi giorni dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense. A darne annuncio è Novartis, casa farmaceutica che produce il farmaco, primo inibitore dell’interleuchina-1 beta approvato specificamente per la SJIA a richiedere una sola iniezione sottocutanea al mese.
 
La SJIA è il sottotipo più grave di artrite idiopatica giovanile e può colpire i bambini già da due anni di età e perdurare in età adulta. Sebbene la patologia possa avere conseguenze letali, le opzioni terapeutiche disponibili sono limitate. I corticosteroidi vengono spesso utilizzati per trattare i sintomi e il dolore, nonostante il loro utilizzo prolungato possa essere associato a eventi avversi potenzialmente gravi, come sindrome di Cushing, arresto della crescita e osteoporosi.
L’approvazione si è basata sui risultati di due studi di fase III, condotti su pazienti con SJIA – rara e invalidante forma di artrite infantile, caratterizzata da febbre intermittente, rash e artrite – di età compresa tra i 2 e i 19 anni, che hanno evidenziato significativi miglioramenti nella maggior parte dei pazienti trattati con Canakinumab. Lo studio 1 ha mostrato come, al giorno 15, l’84% dei pazienti trattati con una dose sottocutanea del farmaco avesse raggiunto l’endpoint primario della risposta pediatrica ACR30 (American College of Rheumatology 30), mentre tra i pazienti che hanno ricevuto il placebo la percentuale è stata del 10%. Nella parte open-label dello studio 2, 92 dei 128 pazienti hanno tentato di ridurre il dosaggio di corticosteroidi. Tra questi 92, il 62% è riuscito a ridurne drasticamente l’utilizzo e il 46% ne ha sospeso completamente l’assunzione. Nella parte di controllo dello studio 2, i pazienti del gruppo trattato con il farmaco hanno registrato, nel raffronto con il gruppo che ha ricevuto il placebo, una riduzione relativa del 64% nel rischio di ricorrenza (rapporto di rischio: 0,36; 95% CI: da 0,17 a 0,75). 

 
Canakinumab è stato oggetto di ricerche in numerose condizioni autoinfiammatorie rare, come la sindrome periodica associata al recettore del fattore di necrosi tumorale (TRAPS), la febbre mediterranea familiare resistente alla colchicina (FMF) e la sindrome da iper-Ig (HIDS). Allo stato attuale, il farmaco è considerato un agente investigazionale per queste condizioni. Come tale, il ruolo che il farmaco potrebbe svolgere nel trattamento di queste condizioni e i potenziali benefici legati al suo utilizzo sono ancora oggetto di valutazioni. “Questa approvazione segna, negli USA, la seconda indicazione di Canakinumab per i pazienti affetti da condizioni autoinfiammatorie rare,” ha sottolineato Timothy Wright, Global Head of Development di Novartis Farma. “Siamo impegnati nel valutare l’utilizzo del medicinale in altre patologie infiammatorie mediate dall’interleuchina-1 beta, tra cui numerose malattie rare per le quali attualmente non esistono 

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Distrofia dei cingoli. Uno studio italiano svela la causa genetica di una delle forme più rare

16 MAG – La distrofia muscolare dei cingoli è un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate da debolezza muscolare, che interessa in particolare i muscoli del cingolo pelvico e del cingolo scapolare, per il quale non esiste una terapia risolutiva e che spesso risulta difficile da diagnosticare. Quest’ultimo problema potrebbe essere stato risolto in una delle manifestazioni della classe di patologie, quella di tipo 1F, da una ricerca italiana dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli: alla base di questa rara forma ci sarebbe un difetto genetico in un gene localizzato sul cromosoma 7, quello di una proteina chiamata Transportina 3.
 
Il risultato, pubblicato in uno studio su PLoS One, è stato ottenuto tramite l’analisi del patrimonio genetico di 64 individui di una famiglia italo-spagnola affetti da una forma di distrofia dei cingoli dalle basi genetiche ancora sconosciute. “Come suggerisce anche il nome, questa malattia porta a una progressiva debolezza dei muscoli dei cingoli pelvico e scapolare, compromettendo così la capacità di sollevare pesi e camminare”, ha commentato Vincenzo Nigro, a capo del team che ha effettuato lo studio. I pazienti con questa mutazione presentano, oltre ai segni tipici della distrofia dei cingoli, debolezza facciale, disfagia, disartria, atrofia e contrattura dei muscoli delle mani. “Riconoscerla e diagnosticarla correttamente, però, non è facile – ha aggiunto Nigro – perché è molto eterogenea sia nella sua manifestazione clinica, età di insorgenza e gravità variano molto da un paziente all’altro, sia dal punto di vista genetico. Ancora oggi, nel 40 per cento dei casi non è possibile identificare lo specifico gene alterato nel paziente: questo non è velleitario, perché una precisa diagnosi molecolare innanzitutto conferma il tipo di patologia, poi dà informazioni su come evolverà nel tempo e permette di effettuare la consulenza genetica agli altri componenti della famiglia”.
 
L’analisi genetica è stata possibile grazie alle apparecchiature all’avanguardia disponibili presso l’Istituto Telethon di Napoli, quelle per il cosiddetto “next-generation sequencing”. “Grazie a questi approcci di straordinaria potenza oggi possiamo analizzare grandi quantitativi di Dna in tempi relativamente rapidi”, ha continuato il ricercatore. “Basti pensare che lo storico Progetto genoma umano ha richiesto ben 10 anni e 3 miliardi di dollari per arrivare al sequenziamento del patrimonio genetico dell’uomo. Oggi con i nostri macchinari possiamo analizzare in soli dieci giorni la parte codificante del genoma di 48 individui contemporaneamente, per un costo dei reagenti che non supera i 38 mila euro. In pratica, il Dna viene spezzettato, selezionato, sequenziato e poi “ricomposto” al computer per determinare la completa sequenza di lettere”.
Questo lavoro di analisi è molto delicato e richiede alte competenze di bioinformatica per leggere i dati e trarne delle conclusioni corrette: al Tigem di Napoli ci sono ricercatori specializzati proprio in questo, come Margherita Mutarelli, tra gli autori dello studio. “Il risultato di questo lavoro è importante innanzitutto per le famiglie, cui possiamo finalmente fornire una diagnosi molecolare corretta, ma anche per la ricerca: quello messo in luce è un meccanismo patologico del tutto nuovo, che potrebbe spiegare anche altre malattie simili che colpiscono i muscoli”, ha poi concluso Nigro. “Il nostro lavoro, grazie anche al supporto di Telethon, continuerà quindi lungo due binari: da un lato chiarire il ruolo della proteina che abbiamo identificato come responsabile della forma 1F di distrofia dei cingoli, dall’altra utilizzare questa stessa tecnologia per andare alla ricerca dei geni responsabili delle forme ancora “orfane” di questa malattia. Ricordiamoci infatti che anche tra le malattie rare ce ne sono alcune più trascurate di altre, per le quali cioè non manca soltanto una cura efficace, ma anche una conoscenza minima di base”.

 

L’84% dei pazienti trattati con una dose sottocutanea del farmaco ha raggiunto la risposta pediatrica ACR30 (American College of Rheumatology 30), mentre tra i pazienti che hanno ricevuto il placebo la percentuale è stata solo del 10%. Canakinumab ha anche dimostrato di essere efficace per ridurre l’uso di corticosteroidi.

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I batteri intestinali firmano il diabete

Nei microbi intestinali ci sono firme genetiche che forniscono indizi sul rischio di sviluppare diabete di tipo 2, e tali firme sono popolazione-specifiche. Ecco le conclusioni di uno studio pubblicato su Nature e coordinato da Frederik Bäckhed, professore di microbiologia cellulare e direttore del Wallenberg Laboratory all’Università di Göteborg in Svezia. «Questi risultati contribuiscono a rafforzare l’ipotesi che il diabete e le alterazioni della flora intestinale siano legate a doppio filo» spiega il ricercatore, che da anni studia il ruolo del microbiota intestinale nelle malattie metaboliche.

Strumenti per predire l’incidenza
«Il microbiota è un termine che ha ormai rimpiazzato quello di microflora, e indica l’ecosistema che ospita numerose specie di batteri in stretto contatto con la mucosa intestinale» spiega il microbiologo, che assieme ai colleghi descrive la caratterizzazione metagenomica del microbiota intestinale in una coorte di 145 donne europee settantenni  con glicemia normale, intolleranza glucidica o diabete conclamato. «La metagenomica è l’uso della genomica nello studio di ecosistemi batterici nel loro ambiente naturale, senza doverli prelevare e coltivare in laboratorio» dice Bäckhed. E aggiunge: «Confrontando i nostri risultati con quelli ottenuti da una coorte cinese di 345 uomini e donne di età miste, si colgono differenze tra le popolazioni nei marcatori metagenomici per il diabete di tipo 2». Questi risultati suggeriscono che gli strumenti per predire l’incidenza di questo tipo di malattia metabolica o il rischio di svilupparla con lo studio del metagenoma devono essere specifici non solo per età, ma anche per area geografica. «Stabilire e mantenere interazioni vantaggiose tra microbiota e ospite sono requisiti fondamentali per la salute di quest’ultimo» continua Bäckhed, autore, tra l’altro, di un articolo di revisione pubblicato in febbraio su Nature Reviews in Microbiology. Sebbene i batteri intestinali siano stati studiati nel contesto delle malattie infiammatorie, è ormai chiaro che questa comunità microbica modula il sistema immunitario dell’ospite influenzandone il metabolismo.

Sconosciuti i meccanismi molecolari
«I meccanismi molecolari alla base di queste interazioni restano in gran parte sconosciuti, ma studi recenti hanno cominciato a individuare le principali vie di segnalazione della regolazione omeostatica tra microbiota e organismo ospite» sottolinea il microbiologo. Per esempio, un collegamento tra microbiota intestinale e metabolismo è stato dimostrato nei topi germ-free, non colonizzati da batteri. Questi roditori hanno un’adiposità minore e richiedono un apporto calorico maggiore per ottenere lo stesso peso di topi con microbiota. Un’ipotesi è che i batteri intestinali influenzano l’adiposità e il metabolismo del glucosio stimolando l’infiammazione e l’accumulo di macrofagi nel tessuto adiposo. In particolare, esiste la dimostrazione che i lipopolisaccaridi provenienti da batteri intestinali Gram-negativi possono indurre obesità e insulino-resistenza. «Immensi progressi sono stati fatti non solo nell’identificazione dei ceppi del microbiota intestinale, ma anche nello sviluppo di strumenti genetici, come le metagenomica, capaci di analizzare l’interazione tra microbioma e malattie metaboliche. L’uso di questi strumenti permetterà nei prossimi anni di approfondire la comprensione dei bersagli molecolari nell’interazione tra microbiota e ospite, rivelando nuove strategie di trattamento» conclude Bäckhed.

Nature. Published online 29 May 2013

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La psoriasi si cura con la dieta

Una dieta dimagrante a basso contenuto calorico può migliorare i sintomi della psoriasi nei pazienti sovrappeso, almeno secondo uno studio pubblicato su Jama Dermatology da un gruppo di ricerca danese. «La psoriasi è una malattia cronica infiammatoria della pelle che ha una prevalenza di circa il 2% in Nord Europa e Nord America» esordiscePeter Jensen, dermatologo del Copenhagen university hospital Gentofte di Hellerup, Danimarca, e primo firmatario dell’articolo. Alla malattia cutanea si associa un aumento dei tradizionali fattori di rischio cardiovascolare, come il diabete, l’ipertensione e l’iperlipidemia, nonché un aumento del rischio di infarto. Ma non basta: la psoriasi si associa all’obesità e l’incremento ponderale ne aumenta il rischio. Ecco perché la perdita di peso ha un ruolo benefico nel trattamento della psoriasi negli obesi: l’ipotesi è che la malattia della pelle migliora perché il calo ponderale riduce l’infiammazione indotta dall’obesità» spiega il dermatologo danese che assieme ai colleghi ha svolto uno studio clinico randomizzato su 60 pazienti obesi con psoriasi. I pazienti sono stati randomizzati in due gruppi: uno seguiva una dieta ipocalorica di 800-1000 chilocalorie al giorno e l’altro continuava a mangiare in modo ordinario. Per verificare l’eventuale miglioramento della malattia cutanea sono stati usati il Pasi, Psoriasis area and severity index misurato  dopo 16 settimane di follow up e il Dermatology life quality index (Dlqi). «Il trattamento dietetico ha mostrato un importante miglioramento clinico, verificato con il Pasi, e una significativa riduzione del Dlqi, con relativo aumento della qualità di vita nel gruppo di studio rispetto a quello di controllo» dice Jensen, e conclude: «Dato che psoriasi e obesità sono sempre più frequenti nei paesi sviluppati, è opportuno che i medici abbiano familiarità con le opzioni di trattamento di entrambe le patologie». E i risultati dello studio danese sottolineano l’importanza della perdita di peso come parte di un approccio terapeutico multimodale per trattare efficacemente sia la malattia cutanea sia le comorbidità associate al sovrappeso.

JAMA Dermatol May 29, 2013. doi:10.1001/jamadermatol.2013.722

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Sclerosi multipla, parere positivo Chmp su nuovo farmaco

Il Comitato per i prodotti medicinali per uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) ha dato il proprio consenso all’approvazione alemtuzumab per il trattamento dei pazienti adulti con sclerosi multipla recidivante remittente (Rrms) con malattia attiva definita clinicamente o attraverso le immagini di risonanza magnetica. Inoltre, sempre nell’ambito della terapia per la sclerosi multipla, ha espresso parere positivo sulla designazione di Nuova sostanza attiva (Nas) per teriflunomide, che segue quello espresso all’inizio dell’anno con cui raccomandava l’approvazione per il trattamento dei pazienti adulti con forma recidivante remittente. Una decisione definitiva della Commissione Europea sull’autorizzazione all’immissione in commercio in Europa delle due molecole, è attesa nei prossimi mesi. A darne notizia è una nota di Genzyme, società del Gruppo Sanofi, in cui si sottolinea che il parere positivo su alemtuzumab «si basa sui dati raccolti negli studi clinici Care-Ms I e Care-Ms II, nei quali il prodotto ha mostrato di essere significativamente più efficace rispetto a interferone beta-1a nel ridurre i tassi di recidiva. Nello studio Care-Ms II» aggiunge la nota «anche l’accumulo di disabilità è risultato significativamente rallentato nei pazienti trattati con alemtuzumab rispetto ai pazienti trattati con interferone beta-1a e, dato estremamente importante, i pazienti trattati con alemtuzumab hanno sperimentato più frequentemente  un miglioramento della disabilità preesistente». Secondo Alastair Compston, direttore del Dipartimento di neuroscienze cliniche dell’Università di Cambridge, la superiorità di alemtuzumab «mantenuta nel tempo nonostante la bassa frequenza delle somministrazioni, rappresenta un approccio al trattamento che promette di riuscire a modificare il futuro di molte persone che vivono con Sm recidivante remittente».

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Allattamento al seno aumenta successo nella vita

L’allattamento al seno aumenta le probabilità di salire la scala sociale e diminuisce quelle di scenderla. L’effetto positivo sulla mobilità sociale è mediato in parte da meccanismi neurologici e di stress. Ecco le interessanti conclusioni di un ampio studio pubblicato sugli Archives of Disease in Childhood, i cui risultati si basano sui cambiamenti nella classe sociale osservati in 17.419 individui nati nel 1958 e 16.771 soggetti nati nel 1970. Spiega Amanda Sacker, ricercatrice al Department of Epidemiology and Public Health, University College di Londra e primo autore dell’articolo: «Grazie ai suoi costituenti e al contatto stretto tra madre e figlio, l’allattamento materno fornisce molti vantaggi al bambino in via di sviluppo. Tra i composti che offrono vantaggi evolutivi ci sono gli acidi grassi polinsaturi, le immunoglobuline e i fattori di crescita». D’altro canto, il particolare contatto pelle a pelle tra madre e neonato durante l’atto dell’allattamento al seno potrebbe influenzare lo sviluppo della risposta del bambino allo stress attraverso cambiamenti nel funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi. «La strategia del governo britannico sulla mobilità sociale intergenerazionale mira a garantire che tutti abbiano la possibilità di ottenere un lavoro migliore dei loro genitori, e se l’allattamento al seno migliora lo sviluppo cognitivo durante l’infanzia, allora è il caso di chiedersi se allattare al seno ha un impatto sulla mobilità sociale» riprende la ricercatrice. Per chiarire la questione i ricercatori hanno chiesto alle mamme dei due gruppi di persone se avevano allattato al seno, confrontando successivamente la classe sociale dei figli, ormai adulti, che partecipavano allo studio con quella dei padri secondo una scala a quattro punti: lavoro non qualificato, manuale, semi-qualificati, professionista. Dai risultati emerge che rispetto ai bambini nutriti con latte vaccino, quelli allattati al seno avevano maggiori probabilità di salire la scala sociale sia nel 1958 sia nel 1970. «I dati suggeriscono che l’allattamento al seno offre ai bambini benefici non solo fisici ma anche cognitivi e comportamentali che persistono in età adulta» conclude Sacker.

Arch Dis Child 2013

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Aifa: nota importante su Avastin (bevacizumab)

L’agenzia italiana del farmaco ha diramato una nota informativa importante, concordata con le autorità regolatorie europeee sull’uso di bevacizumab (Avastin di F. Hoffmann-La Roche Ltd). In sintesi: In pazienti trattati con Avastin, sia nell’ambito di studi clinici, sia nel contesto di valutazioni post-marketing, sono stati segnalati casi di fascite necrotizzante, anche letali. In caso di diagnosi di fascite necrotizzante, si raccomanda di interrompere la somministrazione di Avastine di istituire tempestivamente una terapia adeguata. I casi di fascite necrotizzante, segnalati nell’ambito di studi clinici condotti da Roche e all’interno del database globale di sicurezza di quest’ultima, si sono verificati in pazienti affetti da diverse forme tumorali. In merito alle condizioni mediche correlate, la maggior parte dei pazienti ha manifestato perforazioni gastrointestinali, formazione di fistole o complicanze nella guarigione delle ferite antecedenti lo sviluppo di fascite necrotizzante. Alcuni di questi pazienti sono deceduti a seguito di complicanze della fascite necrotizzante. Sulla base delle evidenze è stato aggiornato il Riassunto delle caratteristiche del prodotto del medicinale in questione sia nella sezione Avvertenze speciali e precauzioni di impiego che in quella Effetti indesiderati.

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