Nei pazienti con steatosi epatica non alcolica si riscontra la presenza di particolari polimorfismi del gene codificante l’apolipoproteina C3 (ApoC3). La segnalazione, proveniente dai ricercatori della Yale University School of Medicine, si basa sull’analisi genotipica di ApoC3, gene gi? associato all’ipertrigliceridemia, in 95 uomini indiani senza apparenti problemi di salute. Questo gruppo etnico ? stato scelto perch? mostra un’elevata prevalenza di steatosi non alcolica. L’analisi ha dimostrato che la steatosi epatica si trova nel 38% dei soggetti portatori di due varianti alleliche del gene (C482T e T-455C) e in nessuna persona con omozigosi wild-type. Inoltre, i soggetti steatosici esaminati sono portatori anche di una marcata insulinoresistenza. Lo studio fornisce una prova sul campo a favore di una base genetica sottostante il frequente riscontro di insulinoresistenza e diabete mellito di tipo 2 nei pazienti con steatosi epatica non alcolica. Il risultato ha trovato conferma nell’analisi dei trigliceridi epatici e dei genotipi ApoC3 effettuata nel corso dello stesso studio su 163 individui non appartenenti al ceppo etnico indiano.
Disco verde della Food and drug administration (Fda) per la commercializzazione dell’antibiotico rifaximina nei pazienti adulti con encefalopatia epatica ricorrente. In contemporanea il New England Journal of Medicine pubblica il lavoro scientifico che ha convinto l’ente regolatorio statunitense. Si tratta di uno studio randomizzato in doppio cieco su 299 pazienti condotto da Nathan Bass, University of California San Francisco, e altri collaboratori di istituti di ricerca americani. I pazienti arruolati, affetti da encefalopatia epatica ricorrente sono stati trattati con 550 mg bid di rifaximina oppure placebo per sei mesi. Ne ? scaturito un solido risultato a favore dell’impiego del farmaco sperimentale: rispetto a placebo, rifaximina ha significativamente ridotto il rischio di un nuovo episodio della malattia (Hr rifaximina 0,42%). In totale l’evento si ? verificato nel 22,1% dei pazienti trattati con il farmaco contro il 45.9% osservato nel gruppo placebo. L’effetto si ? tradotto anche in una riduzione delle ospedalizzazioni a favore del gruppo rifaximina (13,6 vs 22,6%). L’incidenza di eventi avversi ? risultata invece sovrapponibile nei due gruppi. Si tratta del pi? ampio studio clinico di fase III sin qui condotto sulla terapia di mantenimento nei soggetti con encefalopatia epatica.
Sono stati utilizzati pi? di 180 differenti tipi di terapia nel trattamento e nel management della sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale, tuttavia le evidenze ottenute dagli studi clinici non sono conclusive.
Lo studio, coordinato da Ricercatori dell?Harvard Urological Diseases Research Center, ha avuto come obiettivo quello di valutare l?approccio farmacologico alla sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale, di quantificare le dimensioni dell?effetto degli studi randomizzati e di iniziare a creare un consenso clinico riguardo al trattamento della sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale.
Sono stati identificati studi clinici controllati e randomizzati per il trattamento farmacologico dei pazienti con sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale, diagnosticata secondo i criteri del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases ( NIDDKD ) o in base a criteri operativi.
I 21 studi clinici randomizzati e controllati hanno riguaradato un totale di 1.470 pazienti.
Solo gli studi con il Pentosano polisolfato sodico ( Elmiron ) avevano numeri sufficienti di pazienti per permettere un?analisi pooled degli effetti.
In accordo al modello ad effetti casuali, la terapia a base di Pentosano polisolfato sodico sembrerebbe produrre benefici, con un rischio relativo di 1,78 per il miglioramento, riportato dai pazienti, dei sintomi.
Recenti risultati suggeriscono anche l?efficacia della terapia con Dimetilsulfossido ( DMSO ) ed Amitriptilina ( Laroxyl ). L?Idrossizina ( Atarax ), il bacillo Calmette-Guerin per via intravescicale e la terapia con Resiniferatossina ( Rtx ) non si sono dimostrati efficaci, ma i dati non sono conclusivi a causa di limiti metodologici.
Dall?analisi ? emerso che il Pentosano polisolfato sodico potrebbe fornire modesti benefici per i sintomi di vescica dolorosa / cistite interstiziale. Non ci sono evidenze di efficacia per altri trattamenti farmacologici.
Dimitrakov J et al, Arch Intern Med 2007; 167: 1922-1929
I bifosfonati sono sotto inchiesta da parte dell?FDA ( Food and Drug Administration ) per la possibile associazione con la frattura del femore.
I bifosfonati sono impiegati per prevenire e trattare l?osteoporosi nelle donne in postmenopausa. Questi farmaci agiscono bloccando parzialmente il processo naturale di rimozione e di ricostruzione del tessuto osseo.
Nel corso dell?Annual Meeting dell?American Academy of Orthopaedic Surgeons sono stati presentati due studi clinici, che hanno mostrato che i bifosfonati possono influenzare negativamente la qualit? dell?osso e aumentare il rischio di fratture atipiche del femore, quando impiegati per 4 o pi? anni.
Uno studio, compiuto da Ricercatori della Columbia University, ha confrontato la struttura ossea di 61 donne in postmenopausa affette da osteoporosi, che stavano assumendo i bifosfonati per un periodo minimo di 4 anni, con quella di 50 pazienti che stavano assumendo supplementi di Calcio e Vitamina-D. Le pazienti trattate con bifosfonati hanno presentato miglioramenti precoci dell?osteoporosi, ma dopo 4 anni di continua terapia ? emerso un declino dell?integrit? della struttura ossea.
Il secondo studio, condotto da Ricercatori dell?Hospital for Special Surgery di New York, ha preso in esame campioni di osso di 21 donne in postmenopausa, trattate per fratture al femore. Tra queste, dodici presentavano una storia di trattamento con bifosfonati per una media di 8.5 anni. Lo studio ha trovato che le persone che avevano assunto i bifosfonati presentavano una riduzione dell?eterogenicit? del tessuto osseo, rispetto alle donne che non avevano assunto questi farmaci.
Un?indagine dell?FDA ( Food and Drug Administration ) sui dati finora disponibili non ha evidenziato una chiara relazione tra rischio di fratture atipiche del femore e l?impiego di bifosfonati. L?FDA, pertanto, ha invitato i medici di continuare a seguire le raccomandazioni presenti nelle schede tecniche dei vari bifosfonati, avvertendo i pazienti di segnalare qualsiasi dolore all?anca o alla coscia. Fonte: American Academy of Orthopaedic Surgeons – Annual Meeting, 2010
Coloro che consumano caff? a ora di pranzo sono meno esposti al rischio di sviluppare diabete di tipo 2. Lo hanno stabilito alcuni ricercatori brasiliani prendendo in esame oltre 70mila donne francesi, d’et? compresa tra 41 e 72 anni, le cui abitudini alimentari sono state seguite per oltre 11 anni. In breve, nelle partecipanti che hanno consumato almeno una tazza di caff? durante la pausa pranzo ? stata riscontrata una riduzione del rischio di sviluppare la patologia diabetica di circa il 30% rispetto alle donne non consumatrici. Gli autori, per?, sottolineano che per osservare l’effetto protettivo del caff?, la bevanda deve essere consumata rigorosamente senza nessuna aggiunta di altre sostanze, nemmeno di latte. ?Non siamo ancora in grado di capire il meccanismo alla base della protezione offerta da questa bevanda nei confronti del diabete, ma il fatto che l’effetto si osservi solo se il caff? viene bevuto all’ora di pranzo lascia ipotizzare che ci sia qualche legame con il tipo di cibo consumato in questo momento della giornata? ha commentato Daniela S. Sartorelli, principale autore dell’indagine.
Il 12 Febbraio ? apparsa su Medscape – Internal Medicine la preliminare comunicazione preliminare di un abstract che sar? prossimamente presentato alla 62? Riunione Annuale dell’American Academy of Neurology riguardante i supposti benefici della cioccolata in termini di riduzione del rischio di stroke e della mortalit? ad esso correlata. Poich? il cioccolato oltre al burro di cacao, ai carboidrati e alle vitamine contiene una buona percentuale di flavonoidi che sono noti per il loro effetto protettivo sul sistema cardiovascolare, gi? in passato si era dibattuto sul suo ruolo positivo nelle malattie cardiovascolari, ma mai in modo esaustivo per ci? che riguarda lo stroke. Gli AA dell’abstract hanno condotto una revisione sistematica di studi pubblicati tra il 2001 e il 2009, utilizzando come termini di ricerca “flavonoidi”, “flavanoli”, “isoflavoni” e antociani, cos? come “ictus e mortalit?”. Fra le 88 pubblicazioni sull’argomento sono stati trovati 3 studi prospettici di coorte. Nel primo era segnalata una riduzione del 22% nel rischio di ictus per chi assumeva cioccolato almeno una volta la settimana. Nel secondo la riduzione della mortalit? per ictus risultava essere del 46% per coloro che assumevano un cioccolato “arricchito” con flavonoidi. Mentre il terzo non evidenziava tale positiva associazione. Le conclusioni degli AA, come spesso capita, non sono esaustive nel senso che occorrono ulteriori studi prospettici per valutare se il beneficio di un cioccolato arricchito con flavonoidi sia reale, oppure se il vantaggio sia influenzato da un diverso comportamento salutistico dei partecipanti”.
American Academy of Neurology 62nd Annual Meeting. Published online Feb 11, 2009.
L’osteoporosi si pu? prevenire a partire dall’infanzia, eppure non sono in molti a saperlo. Il dato emerge da una ricerca svolta dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda), secondo il quale solo al nord una esigua minoranza di donne (18%) sa che l’osteoporosi si previene fin da bambini e che l’accumulo di calcio e vitamina D insieme all’attivit? fisica regolare a questa et? ? fondamentale per costruire ossa forti. L’Osservatorio ha deciso di affrontare la questione da una duplice prospettiva che concerne sia l’et? giovanile sia l’et? adulta. ?Per cominciare – spiega Francesca Merzagora, presidente Onda – ? necessario puntare di pi? sul ruolo del pediatra, finora quasi sempre escluso, per sensibilizzare alla prevenzione e a una educazione agli stili di vita sani le future donne?. Ma oltre a un maggiore coinvolgimento dei pediatri, un ruolo chiave deve essere giocato dalle istituzioni. ?? necessario? continua Merzagora ?migliorare la prevenzione primaria delle fratture cercando di consentire la prescrizione dei farmaci antifratturativi nei casi pi? esposti?. Una richiesta per quali pazienti? ?In un documento che abbiamo intenzione di proporre a Governo e Parlamento si parla di donne sopra i 70 anni considerate a rischio elevato. Nel 2008, del resto, ? stata approvata in Senato una mozione promossa da Onda che ha portato all’istituzione di un registro nazionale delle fratture da fragilit??. Il prossimo passaggio, almeno nei nostri auspici, sar? la revisione dei criteri dei pazienti da trattare.
La prevalenza del diabete di tipo 2 ? attesa che aumenti con l’epidemia dell’obesit?. Sebbene molte terapie antidiabetiche siano state approvate dall’Fda, nuovi trattamenti sono considerati necessari per conseguire gli obiettivi glicemici, in quanto la funzione beta-cellulare diminuisce con ll tempo nei pazienti affetti da diabete. Il 25 gennaio 2010, l’Fda ha approvato liraglutide, un Glp-1 (peptide-1-simil-glucagone) agonista recettoriale che pu? essere assunto una volta al giorno per migliorare il controllo glicemico in adulti con diabete di tipo 2. L’approvazione ? stata garantita sulla base di considerazioni attente sui benefici del farmaco. Nei trial clinici, quando impiegato in aggiunta ad altri antidiabetici, liraglutide ha portato alla riduzione della concentrazione media di emoglobina glicata da 0,8 a 1,4% rispetto al placebo. Quando paragonato a una monoterapia con una sulfonilurea, liraglutide era associata a un ridotto rischio di ipoglicemia. D’altra parte, vi sono potenziali gravi pericoli. Innanzitutto, dati da roditori suggeriscono che liraglutide ? associata con un rischio accresciuto di iperplasia focale tiroidea a cellule C e a tumori di cellule C, valori la cui rilevanza negli umani ? sconosciuta. L’Fda conclude che l’aumento di carcinoma nei roditori si trasla in un basso rischio per gli umani. Un altro possible rischio ? un accresciuto pericolo di pancreatite dovuto al farmaco; un dato che emerge da rapporti postmarketing comuni a exenatide e sitagliptin, entrambi che agiscono sulla via Glp-1. Una domanda finale ? se sia possibile aumentare il rischio di eventi cardiovascolari da terapie antidiabetiche (un allerta, in tal senso, era stato lanciato dall’Fda nel dicembre 2008): il programma di sviluppo di fase 2 e 3 non ha soddisfatto tale criterio. In ogni caso, l’Fda sostiene che tutti i prodotti sviluppati per il trattamento del diabete, comportano rischi e potenziali problemi richiedono ulteriori studi.
La finasteride, ai fini della prevenzione del cancro della prostata, deve essere somministrata a tutti gli uomini o soltanto a un sottogruppo ad alto rischio? ? questa la domanda di fondo con cui ? stato effettuato uno studio al dipartimento di Epidemiologia e Biostatistica del Memorial Sloan-Kettering cancer center di New York. In effetti, l’incidenza del cancro prostatico durante il trattamento con finasteride resta basso, probabilmente anche per il rischio di eventi avversi. Scopo dello studio ? consistito nel determinare se livelli di antigene prostatico specifico (Psa) possano identificare un sottogruppo ad alto rischio per i quali i benefici della finasteride superino i potenziali rischi. A tale scopo, sono stati utilizzati dati dal Prostate cancer prevention trial per definire modelli chemiopreventivi: trattare tutti gli uomini, non trattare nessun uomo, trattare in base al livello del Psa. Su 9.058 uomini, 1.957 sono stati diagnosticati di cancro prostatico nel corso di 7 anni. Con l’endpoint di tutti i tumori, la strategia ottimale ? risultata quella di trattare tutti gli uomini o quasi tutti gli uomini. Per ridurre il rischio di cancro diagnosticato durante l’assistenza routinaria, il trattamento, risulta ottimale trattare soggetti con Psa >1,3 o 2,0 ng/mL. Per esempio, trattare solo gli uomini con Psa > 2,0 ng/ml ha ridotto il tasso di trattamento dell’83% ed ? risultato in un tasso di neoplasia di solo 1,1% maggiore che trattando tutti gli uomini. In conclusione: i medici che sperano di ridurre il rischio di ogni cancro prostatico identificabile mediante biopsia dovrebbero raccomandare la finasteride a tutti gli uomini. I clinici che credono che ci? non sia indispensabile per prevenire tutti i cancri, ma che l’identificazione mediante screening sarebbe desiderabile, farebbero meglio a raccomandare la finasteride solo a un gruppo ad alto rischio.
Journal of Clinical Oncology, 10.1200/JCO.2009.23.5572