Vitamina D non ottimale con poco sole

Esporsi al sole, durante l’estate, soltanto per brevi periodi pu? portare i livelli di vitamina D a valori sufficienti (20 ng/ml) ma non ottimali (pari o superiori a 32 ng/ml). ? quanto sottolineano alcuni ricercatori inglesi, in uno studio pubblicato su Journal of Investigative Dermatology, che hanno voluto determinare quanta di questa vitamina viene prodotta in seguito all’esposizione solare suggerita dalle attuali linee guida anglosassoni. Lesley E. Rhodes del Salford Royal NHS Foundation Hospital di Manchester, prendendo in considerazione 120 individui, con pelle di colore chiaro e d’et? compresa tra 20 e 60 anni, hanno simulato un’esposizione solare. In particolare, i partecipanti hanno dovuto indossare t-shirt e pantaloncini corti, cos? da esporre il 35% della superficie corporea ai raggi del sole estivo di mezzogiorno, per 13 minuti al giorno, tre volte la settimana, per sei settimane. Gli autori hanno osservato che i livelli basali invernali di vitamina D erano molto scarsi (inferiori a 5 ng/ml) per il 5% degli individui; insufficienti per il 62,5% e ottimali soltanto per il 2,9%. Al termine della simulazione, il 90% e il 26% dei partecipanti ha raggiunto livelli di vitamina D pari a 20 e 32 ng/ml, rispettivamente. (L.A.)

J Invest Dermatol. 2010 Jan 14. [Epub ahead of print]

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La crioterapia ? associata ad alto rischio di tumore invasivo nelle donne con neoplasia cervicale intraepiteliale

Le informazioni sul rischio nel lungo periodo di recidiva di neoplasia cervicale intraepiteliale ( CIN ) per le donne trattate per CIN sono limitate.

Ricercatori dell?University of California – Davis a Sacramento negli Stati Uniti, hanno identificato 37.142 donne trattate per CIN 1, 2 o 3 nel periodo 1986-2000 ( coorte CIN ) dal database citologia British Columbia Cancer Agency e hanno incrociato i dati con il registro del cancro e con i dati anagrafici.

I trattamenti comprendevano: crioterapia, procedura di escissione elettrochirurgica ad ansa, conizzazione e vaporizzazione o escissione laser.

La coorte di confronto era rappresentata da 71.213 donne con citologia normale e nessuna precedente diagnosi di CIN.

Il periodo di follow-up ? proseguito fino alla fine del 2004.

I tassi cumulativi osservati di CIN 2/3 nei primi 6 anni dopo il trattamento sono stati pari al 14% per le donne inizialmente trattate per CIN 3, 9.3% per quelle con CIN 2 e 5.6% per CIN 1.

I tassi annuali di CIN 2/3 sono risultati pi? bassi dell?1% dopo 6 anni.

La diagnosi iniziale, l?et? e il tipo di trattamento sono risultati associati alla diagnosi di CIN 2/3 dopo trattamento, con tassi aggiustati a 6 anni per le donne tra i 40 e i 49 anni compresi tra 2.6% per il trattamento di CIN 1 con procedura a escissione elettrochirurgica ad ansa, e 34% per il trattamento di CIN 3 con la crioterapia.

L?incidenza generale di cancro invasivo ( per 100.000 donne-anno ) ? risultata pi? alta nella coorte CIN ( 37 tumori invasivi ) che nella coorte di confronto ( 6 tumori ).

La crioterapia, rispetto ad altri trattamenti, ? risultata associata al pi? alto tasso di malattia successiva ( odds ratio aggiustato per il tumore invasivo = 2.98 ).

In conclusione, il rischio di CIN 2/3 dopo trattamento ? risultato associato al grado iniziale di CIN, al tipo di trattamento e all?et?.
Il rischio a lungo termine di cancro invasivo ? rimasto pi? alto tra le donne trattate con CIN, in particolare in quelle sottoposte a crioterapia.

Melnikow J et al, J Natl Cancer Inst 2009;101:721-728

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Formazione neonatale, scarsi risultati nei Paesi poveri

L’introduzione di speciali programmi educativi per migliorare l’assistenza neonatale nei Paesi in via di sviluppo, non ha ridotto l’incidenza di decessi dei neonati, alcuni giorni dopo la nascita. ? quanto pubblicato su New England Journal of Medicine, in uno studio che ha riguardato alcune comunit? rurali di sei Stati (Argentina, Repubblica Democratica del congo, Guatemala, India, Pakistan e Zambia). In particolare, due differenti tipi di interventi (Essential newborn care e Neonatal resuscitation program) sono messi in atto in queste regioni per preparare il personale addetto al parto alla cura standard dei neonati, alle tecniche di rianimazione e termoregolazione, all’assistenza dei bimbi sottopeso e alla risoluzione delle comuni malattie neonatali. L’indagine ha permesso di evidenziare che il primo programma educativo non ha diminuito il numero di decessi dei bimbi che si sono verificati, per qualsiasi causa, sette giorni dalla nascita (rischio relativo = 0,99) o subito dopo il parto. Sono stati, tuttavia, registrati minori casi di feti nati senza vita (rischio relativo = 0,69). Il Neonatal resuscitation program, invece, non ha abbassato n? la mortalit? neonatale n? il numero dei feti nati morti (L.A.).

N Engl J Med. 2010 Feb 18;362(7):614-623.

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Appendicite, rischio ascessi postchirurgici con antiacidi

In pazienti con appendicite perforante, l’impiego di antagonisti dei recettori H2 dell’istamina pu? aumentare il rischio di ascessi postchirurgici. Lo stabilisce uno studio prospettico pubblicato su Archives of Surgery. Alcuni ricercatori del Center for Prospective Clinical Trials, Department of Surgery, The Children’s Mercy Hospital, Kansas City, Missouri, hanno condotto un’analisi multivariata per verificare gli effetti di questi antiacidi in circa 100 ragazzi (et? media = 8,6 anni) sottoposti a chirurgia per appendicite perforante, nel periodo compreso tra aprile 2005 e novembre 2006. In breve, gli autori hanno riscontrato una significativa correlazione tra la somministrazione di ranitidina oppure difenidramina e lo sviluppo di ascessi in questi giovani pazienti. In particolare, la percentuale di ascessi, pari al 10% nei ragazzi non sottoposti ad alcuna terapia, ha raggiunto un valore del 17% e 18%, con ranitidina e difenidramina, rispettivamente. Con la combinazione dei due farmaci, si ?, invece, registrata una percentuale del 44% (p = 0,03). ?I nostri risultati suggeriscono che il ricorso a questi farmaci, in pazienti che devono essere operati per appendicite, deve essere valutato molto attentamente? ha commentato Shawn D. St. Peter, principale autore dello studio (L.A.).

Arch Surg. 2010 Feb;145(2):143-6.

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Ca vescicale non muscolo-invasivo: opzioni di cura

Con la terza edizione del World congress on controversies in urology tenutasi a fine febbraio a Barcellona, si ? avuta l’occasione per discutere delle diverse opzioni di trattamento del tumore non muscolo invasivo della vescica. In particolare le linee guida della Societ? europea di urologia (Eau) prevedono, in caso di basso stadio e grado (TaT1), un’instillazione immediata di chemioterapico (Mmc o antracicline) post-TUR. Nel rischio intermedio, oltre a questa (early instillation) ne seguono altre di mantenimento con chemioterapico o Bcg, per almeno 12 mesi. ?L’instillazione immediata post-operatoria di chemioterapico ? indicata in caso di tumore della vescica primario, singolo, papillare con citologia negativa, dove sono dimostrate una sinergia terapeutica con la TUR e una riduzione del 40% del tasso di recidiva? afferma Joan Palou, direttore dell’Urologia oncologica all’Universit? Autonoma di Barcellona. ?Nel caso di tumori multipli, invece, l’instillazione immediata post-operatoria pu? diminuire il numero di instillazioni successive e prevenire l’impianto di microscopiche lesioni resecate. Una sola instillazione non ? efficace nel prevenire le recidive, e solo una chemioterapia di mantenimento consente la riduzione del tasso di recidiva. Un protocollo di mantenimento breve e intensivo di instillazioni nei primi 3-4 mesi ha la stessa efficacia di trattamenti pi? lunghi e meno frequenti. Il protocollo suggerito prevede 4 instillazioni settimanali di mitomicina 40 mg seguite da 5 mensili. In conclusione, secondo quanto emerge da validi studi clinici internazionali, l’instillazione immediata di chemioterapico ? indicata nei tumori singoli mentre in quelli multipli, per ridurre il tasso di recidiva, deve essere effettuata una terapia di mantenimento?.

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Rapporto del Senato degli Stati Uniti: l?uso di Avandia associato a 500 casi di

23 Febbraio 2010 – Nel maggio 2007, una meta-analisi pubblicata sul The New England Journal of Medicine gener? preoccupazione sull?impiego di Avandia ( Rosiglitazone ), un farmaco per il diabete mellito di tipo 2.
La meta-analisi, compiuta da Steven Nissen della Cleveland Clinic dimostr? un aumentato rischio di infarto miocardico tra i pazienti trattati con Avandia.

Nel luglio 2007, un Panel di Esperti dell?FDA, l?Agenzia statunitense per il controllo dei farmaci, conven? nel ritenere che Avandia aumentasse il rischio di eventi ischemici, ma raccomand? di non ritirare il farmaco dal mercato.
L?FDA segu? il consiglio del Panel, non fece ritirare il farmaco, ma inser? un boxed warning nella scheda tecnica di Avandia in cui si sottolineava il possibile rischio di scompenso cardiaco associato al farmaco, un evento questo noto; inoltre fece riportare la descrizione della meta-analisi di Nissen, ma senza esprimere un giudizio.

Il caso Avandia ? stato riaperto a met? febbraio 2010 da una rapporto del Finance Committee del Senato degli Stati Uniti, dopo 2 anni di indagini.
Il rapporto si conclude accusando la societ? produttrice di Avandia, GlaxoSmithKline ( GSK ), di essere stata a conoscenza gi? diversi anni prima della pubblicazione dell?analisi di Nissen, dei rischi cardiaci di Avandia.

Nel rapporto si legge che GSK aveva il dovere di informare i pazienti e l?FDA dei rischi associati ad Avandia; i manager della societ? farmaceutica invece tentarono di intimidire i medici indipendenti, elaborarono strategie atte a minimizzare i dati riguardo al rischio cardiaco di Avandia, a falsificare i dati sostenendo la sicurezza cardiaca del proprio farmaco, ed infine di minimizzare i risultati di riduzione del rischio cardiovascolare di un farmaco concorrente.

Nel report del Senato Usa si accusa anche l?FDA di non aver preso decisioni a salvaguardia della salute dei pazienti e di aver concesso l?autorizzazione all?effettuazione di uno studio con Rosiglitazone ( studio TIDE ), ben sapendo i pericoli che avrebbero affrontato i pazienti.

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Finance Committee del Senato degli Stati Uniti: il farmaco per il diabete Avandi

Il Senate Committee on Finance degli Stati Uniti inizi? le indagini dopo che uno studio, pubblicato sul The New England Journal of Medicine ( NEJM ) nel maggio 2007 a firma di Steven Nissen della Cleveland Clinic, aveva mostrato un?associazione tra l?infarto miocardico e il farmaco per il diabete Avandia ( Rosiglitazone ) di GlaxoSmithKline ( GSK ).

Dall?analisi di pi? di 250.000 pagine di documenti ? emerso che la societ? farmaceutica GlaxoSmithKline era a conoscenza gi? da alcuni anni, prima che lo studio fosse pubblicato, del rischio cardiaco associato al proprio antidiabetico. Tuttavia anzich? informare i pazienti e l?Agenzia regolatoria FDA ( Food and Drug Administration ), i manager di GSK seguirono un?altra strategia con l’intenzione di intimidire medici medici indipendenti, di minimizzare o di alterare i risultati che dimostravano come Avandia potesse aumentare il rischio cardiovascolare; inoltre cercarono di confutare i risultati di un farmaco concorrente, Actos ( Pioglitazone ).

Dopo la pubblicazione del lavoro di Nissen, l?FDA, nel luglio 2007, organizz? un incontro con un gruppo di Esperti per discutere sulla sicurezza di Avandia, In questa occasione fu presentata un?analisi che stimava che l?uso di Avandia era associato a un eccesso di 83.000 casi di infarto miocardico a partire dal 1999, anno in cui il farmaco ha ricevuto l’approvazione.
Nel suo rapporto il Finance Committee del Senato statunitense riporta che, gi? nel marzo 2007, in una discussione interna, i Consulenti scientifici di GSK avevano concluso che gli studi riguardanti Avandia ( ADOPT, DREAM, CV Clinical Trials ) mostravano un segnale di rischio per lo scompenso cardiaco e per gli eventi ischemici.

Il 2 di maggio 2007, Nissen della Cleveland Clinic invi? la sua meta-analisi per la pubblicazione al NEJM. Il giornale invi? copie riservate ai propri Esperti per la revisione del materiale ( peer review ).
Di norma queste copie devono rimanere confidenziali e non possono essere divulgate, ma uno di questi revisori, Steve Haffner, invi? il testo del lavoro di Nissen a un dirigente di GlaxoSmithKline.
GSK esamin? la meta-analisi, ma lo statistico incaricato della verifica concluse che i risultati da lui ottenuti erano simili alle conclusioni di Nissen.

Moncef Slaoui, responsabile del settore ricerca di GSK, comunic? ad altri dirigenti di GSK che le meta-analisi condotte sia dall?FDA sia da Nissen nonch? dalla stessa GSK erano giunte alla medesima conclusione riguardo all?aumentato rischio di eventi ischemici, che oscillava tra il 30 e il 43%. Inoltre le analisi di mortalit? effettuate da FDA e da Nissen coincidevano: il rischio ( hazard ratio ) di mortalit? sia per scompenso cardiaco che per eventi ischemici, era, rispettivamente, aumentato del 72% e del 75%.
Questi risultati penalizzavano il prodotto di GSK rispetto ad un altro glitazone, il concorrente diretto del Rosiglitazone, il Pioglitazone che invece nello studio PROactive mostrava benefici cardiovascolari del 6-16% nei pazienti ad alto rischio.

Il 21 maggio 2007, il NEJM pubblic? online la meta-analisi di Steven Nissen, che aveva individuato un legame tra Avandia e l?insorgenza di infarto miocardico.
Nello stesso giorno GlaxoSmithKline emise un comunicato dichiarandosi fortemente in disaccordo con le conclusioni raggiunte da Nissen. Lo studio del cardiologo della Cleveland Clinic era ritenuto basato su un?incompleta evidenza e su una metodologia che anche lo stesso Autore definitiva con limitazioni.

Il timore di pesanti conseguenze prescrittive, indusse i manager di GSK ad imporre la pubblicazione immediata dei risultati preliminari dello studio sponsorizzato dalla stessa GlaxoSmithKline, denominato RECORD, nonostante la riluttanza del RECORD Steering Committee.
Il 5 luglio 2007, nonostante le critiche dei revisori, NEJM pubblic? lo studio RECORD.
Nelle conclusioni, gli Autori dello studio sponsorizzato affermavano che i dati erano insufficienti per provare un legame tra Avandia e infarto del miocardio.

L?obiettivo dei manager di GSK era quello di integrare i dati dello studio RECORD con quelli della meta-analisi di Nissen, in modo da ridurre l?incidenza di eventi ischemici totali dovuti ad Avandia.

Un editoriale, pubblicato sempre su NEJM, non solo critic? lo studio RECORD, ma anche gli studi precedenti, DREAM e ADOPT, sponsorizzati sempre da GlaxoSmithKline.
Secondo gli editorialisti, gli studi DREAM e ADOPT erano incentrati su obiettivi di marketing e non avevano invece valutato i rischi o i benefici correlati all?infarto miocardico.
Inoltre, lo studio RECORD presentava diverse debolezze nel disegno e nella conduzione, tra cui la mancanza del cieco quando il trattamento era assegnato; inoltre, cosa assai grave, lo studio non aveva peso statistico per individuare l?infarto miocardico come endpoint.

Secondo il rapporto del Finance Committee, GlaxoSmithKlines sarebbe stata a conoscenza del rischio cardiaco del Rosiglitazone gi? a partire dalla fine del 2004 o all?inizio del 2005.
Alla fine del 2005, GSK pubblic?, in bozza, un?analisi retrospettiva di eventi cardiovascolari sui dati degli studi clinici riguardanti Avandia. Fu allora ipotizzato che la ritenzione idrica potesse contribuire al peggioramento dell?ischemia miocardica nei pazienti ad alto rischio.

Nel 2005, GSK commission? uno studio osservazionale che fu condotto in due fasi: la prima parte nel 2005 e la seconda nel 2006.
Il primo studio interess? 11.586 soggetti; l?hazard ratio per ischemia miocardica fu pari a 1.29, indicando che il Rosiglitazone aumentava il rischio di ischemia cardiaca del 29%, un valore questo statisticamente significativo.
Il secondo studio analizz? 14.237 pazienti; l?hazard ratio fu di 1.31, cio? Avandia aumentava il rischio di ischemia miocardica del 31%.

Conclusioni

Il rapporto del Finance Committee del Senato degli Stati Uniti ha indicato che la societ? produttrice del farmaco antidiabetico Avandia, GlaxoSmithKline, era a conoscenza del rischio cardiaco associato al Rosiglitazone anni prima che tale evidenza diventasse di dominio pubblico.
GSK aveva il dovere di informare i pazienti e l?Agenzia regolatoria FDA, invece i manager di GSK agirono in modo diverso, intimidendo i medici indipendenti, e cercando di minimizzare il fatto che Avandia fosse associato a rischio cardiaco.

Fonte: US Senate Committee on Finance, 2010

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Tumore al seno in fase avanzata positivo per il recettore e resistente all?inibi

? stato ipotizzato che la terapia di deprivazione estrogenica con inibitori dell?aromatasi possa sensibilizzare le cellule del tumore alla mammella positivo per il recettore degli ormoni ( HR ) a basse dosi di terapia a base di Estradiolo.

Ricercatori dell?Washington University School of Medicine, a St Louis negli Stati Uniti, hanno condotto uno studio per determinare se 6 mg al giorno di Estradiolo rappresentassero una terapia valida per le donne in postmenopausa con cancro al seno in fase avanzata, recettore-positivo, e resistente agli inibitori dell?aromatasi.

Lo studio randomizzato di fase 2 ? stato condotto nel periodo 2004-2008, e ha messo a confronto 6 mg vs 30 mg/die di Estradiolo per os.

Le pazienti eleggibili per lo studio avevano tumore mammario metastatico trattato con un inibitore dell?aromatasi con sopravvivenza libera da progressione ( magggiore o uguale a 24 settimane ) o recidiva ( dopo 2 o pi? anni ) di uso adiuvante dell?inibitore dell?aromatasi.

Sono state escluse le pazienti ad alto rischio di eventi avversi legati all?Estradiolo.

Le pazienti sono state esaminate dopo 1 e 2 settimane per valutare la tossicit? clinica e di laboratorio e flare reaction, e in seguito ogni 4 settimane.
Ogni 12 settimane ? stata effettuata una valutazione radiologica del tumore.

Per la risposta del tumore ? stata valutata almeno ua lesione misurabile o 4 lesioni misurabili ( malattia solo ossea ).

Le pazienti sono state randomizzate a ricevere 1 compressa per via orale di 2 mg di Estradiolo 3 volte al giorno o 5 compresse da 2 mg 3 volte al giorno.

L?endpoint primario era rappresentato dal tasso di beneficio clinico ( risposta pi? malattia stabile a 24 settimane ).
Gli esiti secondari includevano tossicit?, sopravvivenza libera da progressione, tempo al fallimento del trattamento, qualit? di vita e propriet? predittive di flare reaction metaboliche rilevate con PET/TC [ tomografia a emissione di positroni / tomografia computerizzata ] con 18F-Fluorodeossiglucosio.

Il tasso di eventi avversi ( maggiore o uguale a grado 3 ) nel gruppo 30 mg ( 34% ) ? risultato pi? alto che nel gruppo 6 mg ( 18%; P=0.03 ).

I tassi di beneficio clinico erano pari al 28% nel gruppo 30 mg e al 29% in quello 6 mg.

Un aumento stimolato dall?Estradiolo dell?assorbimento di 18F-Fluorodeossiglucosio ( maggiore o uguale al 12%, definito in modo prospettico ) ? risultato predittivo di risposta ( valore predittivo positivo: 80% ).

Sette pazienti con malattia sensibile all?Estradiolo sono state trattate nuovamente con inibitori dell?aromatasi alla progressione dell?Estradiolo e 2 di loro hanno mostrato risposta parziale, mentre 1 ha mostrato malattia stabile, facendo pensare a una nuova sensibilizzazione da deprivazione estrogenica.

In conclusione, nelle donne con cancro al seno in fase avanzata e resistenza acquisita agli inibitori dell?aromatasi, una dose giornaliera di 6 mg di Estradiolo fornisce un tasso di beneficio simile a quello ottenuto con dosi di 30 mg, limitando gli eventi avversi gravi.
L?efficacia del trattamento con dosaggi pi? bassi deve comunque essere ulteriormente esaminato in studi clinici di fase 3.

Ellis MJ et al, JAMA 2009; 302: 774-780

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Gli inibitori della pompa protonica associati a rischio di fratture

Tre studi di ampie dimensioni, retrospettivi, hanno mostrato un?associazione tra inibitori della pompa protonica ed un?aumentata incidenza di fratture.

Uno studio di revisione, canadese, che ha preso in esame il periodo 1996-2004 ha mostrato un aumentato rischio di fratture dell?anca per le persone esposte agli inibitori della pompa protonica per 5 anni o pi?.
Dopo 7 anni o pi? di esposizione agli inibitori della pompa protonica il rischio di fratture dell?anca ? aumentato ulteriormente ( OR=4.55; p=0.002 ).

Una revisione dei dati a partire dall?anno 2000, contenuti nel Danish National Hospital Discharge Registry, ha mostrato che l?esposizione, entro l?anno precedente, agli inibitori della pompa protonica era associato ad un aumentato rischio di fratture ed anche a un pi? grande rischio di frattura dell?anca ( OR=1.45 ).

In modo simile, uno studio statunitense che ha esaminato i dati, dal 1987 al 2003, dell?UK General Practice Database, ha identificato un aumento, statisticamente significativo, delle fratture dell?anca con l?esposizione agli inibitori della pompa protonica per pi? di 1 anno, ed ha anche trovato che il rischio aumenta con l?aumentare della durata della terapia e con la terapia ad alto dosaggio.

Questi studi sono osservazionali e sono pertanto soggetti a confondimento.
Ulteriori studi sono necessari per verificare e per meglio definire l?associazione.

Il meccanismo biologico sottostante a questa associazione non ? noto. Una spiegazione potrebbe essere che l?assorbimento del calcio con la dieta dipende da un basso valore di pH nello stomaco, e poich? gli inibitori della pompa protonica sono potenti inibitori della secrezione acida da parte delle cellule parietali gastriche, la conseguenza ? un innalzamento del pH.
E?anche possibile che altri fattori possano contribuire all?aumento del rischio di fratture.

Il TGA ( Therapeutic Goods Administration ) ha ricevuto solo due segnalazioni di associazione tra una frattura patologica e/o osteoporosi e l?esposizione a un inibitore della pompa protonica; in 1 caso l?inibitore della pompa protonica era il solo farmaco sospettato.
Questa bassa percentuale di segnalazione pu? riflettere un basso indice di sospetto clinico data l?alta prevalenza di fratture dell?anca in Australia e la comune prescrizione degli inibitori della pompa protonica.

Secondo l?ADRAC ( Adverse Drug Reactions Advisory Committee ) i medici dovrebbero prescrivere la pi? bassa dose efficace per le indicazioni riconosciute e periodicamente rivalutare i singoli casi per determinare la necessit? di continuare la terapia con inibitori della pompa protonica.
Inoltre, i prescrittori dovrebbero essere consci del potenziale rischio cumulativo per i pazienti che assumono pi? di un medicinale noto aumentare il rischio di fratture. Questo rischio dovrebbe essere considerato anche quando si prescrivono farmaci concomitanti noti per aumentare il rischio di cadute.

Fonte: Australian Adverse Drug Reactions Bulletin, 2009

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Inibitori della pompa protonica: l?uso per lunghi periodi pu? causare dipendenza

Ricercatori della Copenhagen University hanno trovato che soggetti adulti sani senza sintomi di reflusso acido, trattati con gli inibitori della pompa protonica, hanno sviluppato sintomi di dipendenza quando hanno interrotto l?assunzione dei farmaci dopo 8 settimane.

Lo studio ha coinvolto 120 adulti sani, che sono stati assegnati ad assumere Esomeprazolo ( Nexium ) 40 mg per 8 settimane e placebo per le ultime 4 settimane, oppure placebo per l?intero periodo di 12 settimane.

All?inizio dello studio, i partecipanti di entrambi i gruppi avevano riportato sintomi gastrointestinali simili, ma tra la 9.a e la 12.a settimana, il 44% di quelli che stavano assumendo Esomeprazolo hanno riferito un aumento dei sintomi, mentre nel gruppo placebo solo il 15% ha riportato un incremento della sintomatologia.
Alla fine dello studio, il 22% dei soggetti assegnati ad Esomeprazolo ha riportato ancora i sintomi, nonostante non venisse pi? assunto l?inibitore della pompa protonica da 4 settimane, contro solo il 2% degli individui assegnati al trattamento con placebo.
I sintomi sono scomparsi dopo 3 mesi dall?interruzione di Nexium.

I Ricercatori hanno ipotizzato che questo effetto rebound fosse con buona probabilit? una risposta alla soppressione acida causata dall?Esomeprazolo, con iperproduzione della gastrina, un ormone che stimola il rilascio acido nello stomaco.

Recentemente diversi studi hanno messo in dubbio la sicurezza degli inibitori della pompa protonica.
Uno studio canadese ha evidenziato un legame tra l?uso nel lungo periodo degli inibitori della pompa protonica e l?aumentato rischio di fratture all?anca, polso o alla colonna vertebrale.

La Society for Cardiovascular Angiography and Interventions ( SCAI ) ha raccomandato ai pazienti che assumono Clopidogrel ( Plavix ) di evitare gli inibitori della pompa protonica dopo l?impianto di uno stent, perch? la combinazione aumenta il rischio di infarto miocardico ( 70% ), di ictus ( 48% ) e di ripetizione della procedura di rivascolarizzazione del 35%.

Inoltre, uno studio canadese ha trovato una connessione tra prescrizione di routine degli inibitori della pompa protonica durante l?ospedalizzazione ed un aumento del rischio ( 30% ) di acquisire polmonite.

Fonte: Gastroenterology, 2009

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