Tre anni fa l’Fda, due anni fa l’Ema, e ora anche l’Aifa ha approvato dabigatran exetilato, concedendo la rimborsabilità all’anticoagulante orale di nuova generazione per la prevenzione dell’ictus cerebrale da fibrillazione atriale non valvolare. L’annuncio, ieri, in un incontro a Milano. «Per questa indicazione da tempo si dispone di una terapia molto efficace, il warfarin, che però è difficile da gestire: va infatti assunto in dosi variabili da aggiustare tramite frequenti prelievi di sangue per il test dell’Inr; inoltre il livello della coagulazione varia per l’interferenza di altri farmaci o alimenti» ricorda Giuseppe Di Pasquale, presidente dell’Italian stroke forum. «La conseguenza è che, in Italia, solo il 55% dei soggetti da trattare è effettivamente trattato e che il paziente si trova nel corretto range terapeutico solo nel 55% del tempo». Dunque c’era attesa per un’alternativa al warfarin. «Con lo studio Rely, condotto su 18mila pazienti trattati in 3 bracci con warfarin o dabigatran ai dosaggi 110 mg/bid o 150/bid, si è dimostrato che dabigatran, rispetto a warfarin, riduceva del 35% gli ictus e le embolie sistemiche, del 60% le emorragie cerebrali e del 10% la mortalità. A 4 anni di trattamento, nel trial Relyable, il favorevole profilo di efficacia e sicurezza è stato confermato». «Oltre che sui dati di letteratura» sottolinea Francesco Romeo, presidente della Federazione italiana di cardiologia (Fic) «possiamo contare sull’esperienza clinica consolidata nella pratica clinica quotidiana da oltre 2 anni dai nostri colleghi in più di 80 Paesi al mondo». «La disponibilità di due dosaggi» evidenzia Mauro Campanini, presidente eletto del Fadoi (Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti) «consente di usare quello minore quando vi sia un rischio emorragico più elevato», per esempio in pazienti anziani (>80 anni) con ridotta funzionalità renale. Importanti, per Campanini, anche «i benefici fisici e psicologici derivanti dal non dover più sottoporsi a monitoraggi frequenti di laboratorio». Poche le controindicazioni: insufficienza renale grave e interazione con antiretrovirali e antifungini. «Adesso» conclude Roberto Sterzi, del Comitato tecnico-scientifico di Alice (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale) «è fondamentale che ai pazienti in tutte le Regioni italiane sia garantito un accesso alla cura».
La ricerca condotta dal San Raffaele di Milano, che ha ricostruito nel midollo osseo una parte della funzione del pancreas rappresenta ‘una speranza reale per i malati di diabete’. Lo afferma Stefano Del Prato, presidente della Societa’ Italiana di Diabetologia.
”La strada scelta dai ricercatori milanesi e’ altamente promettente, perche’ i test sono stati condotti sull’uomo – spiega Del Prato – i pazienti trattati erano ‘particolari’, perche’ avevano dovuto subire l’asportazione del pancreas, ma questo studio mostra una strada nuova che si puo’ seguire, e credo proprio che al San raffaele ci stiano gia’ pensando”. La via per una applicazione piu’ ampia, non ristretta soltanto ai pazienti che hanno dovuto subire l’asportazione del pancreas, e’ ancora lunga, sottolinea Del Prato: ”I pazienti trattati hanno potuto fare un trapianto con le proprie cellule pancreatiche – spiega – per intervenire in chi non le ha piu’ bisogna utilizzare invece quelle di donatori. In questo caso pero’ c’e’ il problema del rigetto, e bisognera’ valutare se l’innesto nel midollo osseo e’ piu’ o meno pericoloso da questo punto di vista”. Per il momento e’ il trapianto delle isole pancreatiche l’opzione piu’ efficace per i pazienti diabetici, nonostante le ricerche in tutto il mondo stiano verificando diverse altre possibilita’ per sostituire il pancreas: ”Servono pero’ piu’ donazioni, con organi validi da cui sia possibile eestrarre un numero sufficiente di cellule – spiega Del Prato – tra le altre alternative a cui stanno lavorando i ricercatori di tutto il mondo direi che le staminali sono molto indietro, forse e’ piu’ vicino un pancreas sintetico in grado di svolgere almeno alcune funzioni. Se poi si trovera’ un modo per proteggere di piu’ le isole una volta trapiantate il metodo dei ricercatori milanesi potrebbe avere una grande applicazione”.
Ottimi risultati arrivano dalla nuova insulina degludec,che ha ricevuto l’approvazione dell’agenzia europea del farmaco EMA il 21 gennaio 2013. Il farmaco permette una significativa riduzione dell’incidenza di ipoglicemia, sia nei pazienti con diabete di tipo 1 che di tipo 2. La conferma arriva dai risultati di una metanalisi sugli studi clinici di fase 3 appartenenti al programma BEGIN® di sviluppo clinico, presentati al XIX congresso nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi AMD, che si è svolto settimana scorsa a Roma. “Il verificarsi di episodi di ipoglicemia ha un impatto negativo su molti aspetti della vita quotidiana, quali l’attività lavorativa, la vita sociale, la guida, la pratica sportiva, le attività del tempo libero, il sonno. Diversi studi hanno documentato che le persone che hanno avuto esperienza di ipoglicemie, specie se gravi, tendono a diminuire l’adesione alla terapia e agli stili di vita raccomandati, riportando una peggiore qualità di vita e maggiori preoccupazioni legate alla malattia”, ha detto Antonio Nicolucci, epidemiologo del Consorzio Mario Negri Sud, S. Maria Imbaro (CH). “Le ipoglicemie rappresentano inoltre una importante causa di costi diretti ed indiretti. Nel corso di un anno infatti, fino a un terzo delle persone con diabete di tipo 1 di lunga durata e un quinto di quelli con diabete di tipo 2 in terapia insulinica presentano almeno un episodio di ipoglicemia severa, che spesso richiede l’ospedalizzazione. Ai costi diretti vanno poi aggiunti i costi indiretti, legati alla perdita di produttività ed assenza dal posto di lavoro”. Gli studi inclusi nella metanalisi hanno coinvolto complessivamente 4.330 persone (di cui 2.899 trattati con la nuova insulina degludec e 1.431 con insulina glargine). Nel dettaglio i risultati dimostrano che: nelle persone con diabete tipo 2, il rischio di ipoglicemia scende del 17% [RR:0.83[0.74;0.94](95%) (CI)], e ben del 32% per quelle notturne [RR:0.68[0.57;0.82](95%) (CI)]; nel gruppo trattato con degludec; nel diabete tipo 1 la riduzione delle notturne, nel periodo di mantenimento è del 25% [(RR:0.75[0.60;0.94](95%)(CI)]. “Le ipoglicemie sono il principale effetto collaterale del trattamento con insulina”, ha spiegato Simon Heller, University of Sheffield, UK. “Le ipoglicemie aumentano la morbidità a forse la mortalità nelle persone più fragili come gli anziani, chi ha diabete tipo 1 e diabete tipo 2 di lunga durata. Oggi l’incidenza di ipoglicemie sintomatiche e notturne è diminuita grazie all’introduzione di insuline innovative, ma le ipoglicemie continuano a rappresentare una barriera all’ottimizzazione della terapia insulinica e spesso, direttamente o indirettamente, costituiscono un rischio per la salute dei pazienti”. “Le caratteristiche della formulazione di un’insulina basale ideale dovrebbero essere quelle di rilasciare una concentrazione di insulina costante, stabile, priva di picchi e continua per almeno 24 ore, con un rischio ridotto di ipoglicemia. Sia nei pazienti con diabete tipo 1 che in quelli con diabete tipo 2 è molto importante disporre di una insulina con queste caratteristiche”, ha commentato Edoardo Mannucci, AOUC Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze. “Degludec è un innovativo analogo basale dell’insulina caratterizzato da durata d’azione superiore alle 24 ore e con un effetto metabolico distribuito uniformemente nel corso della giornata. La sua ridotta variabilità di assorbimento assicura un profilo glicemico più stabile con un’importante riduzione del rischio di ipoglicemia rispetto all’insulina glargine. A parità di riduzione di emoglobina glicata, negli studi BEGIN®, degludec ha permesso una riduzione significativamente maggiore della glicemia a digiuno rispetto a glargine ed era associato ad una minore tasso di ipoglicemia notturna sia nel diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2. La disponibilità di questa nuova insulina potrebbe rappresentare un passo in avanti per la terapia insulinica”, ha concluso Mannucci.
L’esposizione prenatale al fumo può danneggiare il sistema uditivo degli adolescenti. Parola di Michael Weitzman, pediatra della New York University School of Medicine e primo autore di un articolo pubblicato suJama Otolaryngology Head Neck Surgery. «Negli Stati Uniti le gestanti fumatrici sono il 12% di tutte le gravidanze, anche se l’esposizione prenatale al fumo provoca complicanze come il distacco di placenta, la placenta previa e la rottura prematura delle membrane» dice il pediatra. Ma non basta: circa il 30% dei bambini piccoli per l’età gestazionale, il 10% dei neonati prematuri e il 5% dei decessi infantili sono attribuiti al fumo materno. E ancora: nei bambini esposti al fumo in utero il rischio di sindrome da morte improvvisa del neonato è da 2 a 3 volte più elevato e il rischio di asma infantile 1 o 2 volte maggiore che nei nati da non fumatrici. Le sigarette in gravidanza favoriscono l’obesità infantile e le sue complicanze metaboliche, così come i deficit cognitivi e comportamentali, la diminuzione del Qi e le difficoltà di apprendimento. «Recenti studi hanno anche suggerito che l’esposizione al fumo materno aumenta il rischio di ipoacusia nei figli» aggiungeWeitzman, spiegando che la causa potrebbe essere un danno precoce da fumo all’orecchio interno. Così i ricercatori hanno misurato l’udito neurosensoriale (SNHL) in 964 adolescenti tra 12 e 15 anni partecipanti al National Health and Nutrition Examination Survey 2005-2006. «L’esposizione al fumo in utero, riscontrata nel 16% dei ragazzi, alza la soglia uditiva ai toni puri e triplica le probabilità di una perdita di udito unilaterale alle basse frequenze» dice il pediatra, sottolineando che l’entità del danno sembra essere modesta, anche se un rischio di ipoacusia monolaterale tre volte più elevato negli adolescenti esposti al fumo in utero resta lo stesso preoccupante. «Servono ulteriori studi per verificare se l’ipoacusia dipende da un aumento dose-dipendente del fumo in utero, per identificarne i meccanismi e per chiarirne gli effetti sul rendimento scolastico, sociale e cognitivo di bambini e adolescenti» conclude il pediatra.
Cambio di direzione dei ministri della salute Ue sulla sigaretta elettronica. In principio, il Consiglio dei ministri della Salute europei riunito a Lussemburgo lo scorso venerdì si era detto favorevole alla vendita in farmacia.A seguito degli interventi di Italia e Francia, però,contrari alla commercializzazione delle e-cig nelle farmacie, alla fine si è deciso che la sigaretta elettronica non è un farmaco e non sarà venduta in farmacia. «L’idea prevalente con cui i ministri sono arrivati all’incontro» chiarisce il ministro della Salute Beatrice Lorenzin «era di considerare le sigarette elettroniche contenenti più di 1 mg di nicotina, pari a un medicinale, ma l’intervento dei due ministri ha fatto riflettere sul fatto che stando ai pareri del Consiglio superiore della sanità e dell’analogo francese, non ci sono evidenze scientifiche per poterlo affermare. Le istanze dei due ministri sono state quindi accolte e i colleghi europei hanno rimandato la discussione e si sono ripromessi di riparlarne in sede di Parlamento europeo». È attesa nelle prossime settimane, ha confermato il ministro a margine dell’incontro europeo, l’ordinanza con la quale si recepisce il parere del Consiglio superiore di sanità sia per le restrizioni d’uso sia per la parte in cui afferma che le e-cig non possono essere considerate un “farmaco per funzione”, escludendo di fatto la possibilità di venderle esclusivamente in farmacia come gli altri sostitutivi nicotinici, come i cerotti e chewing-gum.
Positivi i primi test di trapianto di cellule staminali cerebrali su sei pazienti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Lo ha annunciato il professor Angelo Vescovi, coordinatore degli studi, in un convegno a Roma. La ricerca è stata autorizzata dall’Istituto Superiore di Sanità e concepita dall’associazione Neurothon. La prima parte della sperimentazione, iniziata il 25 giugno dello scorso anno con il primo trapianto al mondo di cellule staminali cerebrali umane, scevre da qualunque problematica etica e morale, è terminata con successo a fine marzo di quest’anno. Non sono stati rilevati eventi avversi legati alle procedure mediche con risultati migliori della sperimentazione parallela in corso in Usa. «Siamo soddisfatti e orgogliosi di aver mantenuto la promessa fatta ai nostri sostenitori, ai malati e alle loro famiglie, di avviare una sperimentazione di terapia cellulare sulla Sla» ha detto Vescovi, coordinatore dei test preliminari con le cellule staminali sulla Sla. «Il nostro è uno studio sperimentale condotto secondo i più rigorosi criteri scientifici ed etici, per una malattia neurologica mortale». La sperimentazione, ha precisato il biologo, viene svolta secondo la normativa internazionale in accordo alle regole dell’European Medicine Agency e con le cellule prodotte in stretto regime di norme di buona fabbricazione, vale a dire riconosciute dalle commissioni sanitarie nazionali come idonee all’utilizzo di studi clinici, con certificazione dell’Aifa, confermando l’Italia fra i paesi che fanno test di avanguardia nell’ambito delle staminali. «L’uso di cellule staminali cerebrali è un grande progresso per la scienza che potrebbe aiutare la cura per malattie oggi non curabili» ha commentato il ministro Beatrice Lorenzin. «Probabilmente – ha aggiunto – la sperimentazione ci darà risultati significativi ma fino a che non ci saranno evidenze è bene non dare false speranze». Alla luce dei dati preliminari dei primi test, l’Istituto superiore e l’Aifa hanno autorizzato l’avvio della seconda parte della sperimentazione che prevede il trapianto in zone più alte del midollo spinale, cioè nella regione cervicale.
Realizzate dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l’Associazione dei Dermatologi Ospedalieri Italiani le linee guida sulla psoriasi contengono indicazioni per la pratica clinica di una malattia che riguarda il 3% degli italiani e che comporta in alcuni casi notevoli disagi individuali e oneri economici.
Per affrontare in modo omogeneo una patologia che è considerata sempre di più una malattia sistemica che ha un forte impatto sociale ed economico, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) in collaborazione con l’Associazione dermatologi ospedalieri italiani (ADOI) ha elaborato le nuove Linee Guida per “Il trattamento della psoriasi nell’adulto” che saranno valide fino al 2016. La psoriasi, di cui sono affetti circa 2 milioni di italiani, è tradizionalmente definita come una malattia infiammatoria della pelle ad andamento cronico-recidivante che, nella sua forma più comune, si manifesta con placche eritemato-squamose localizzate sulle superfici estensorie del corpo. Dal concetto di psoriasi intesa come patologia a esclusivo interessamento cutaneo, si stia rapidamente passando a quello di psoriasi intesa come malattia sistemica. Un ampio ventaglio di comorbilità può infatti associarsi alla psoriasi, fra le quali, oltre alla ben nota artropatia, sono comprese malattie infiammatorie croniche intestinali, patologie oculari, cardiovascolari, ipertensione, diabete, disturbi psicologici. Le linee guida rappresentano uno strumento utile a garantire il rapido trasferimento delle conoscenze elaborate dalla ricerca biomedica nella condotta clinica quotidiana, ancora molto eterogenea a livello nazionale. “Si tratta di raccomandazioni di buona pratica, formulate da panel multidisciplinari di professionisti, in cui trovano opportuna sintesi le migliori prove disponibili in letteratura e le opinioni degli esperti – afferma Ornella De Pità, dell’Istituto dermopatico dell’Immacolata di Roma e past president ADOI – a beneficio degli operatori sanitari e degli amministratori, per una migliore qualità e appropriatezza dell’assistenza resa al paziente. Oggi è più indicato parlare di psoriasi al plurale, dal momento che sono o sempre maggiori le modalità in cui si esprime la malattia”. Diagnosticata prevalentemente dal dermatologo comporta, non solo nei casi piu gravi, forti disagi. Il 90% dei pazienti tra i 18 e i 40 anni ha problemi dalla scelta dei vestiti alle attività sportive, al sonno alle attività scolastico/lavorative fino a disagi relazionali e sessuali. “Il paziente deve rivolgersi tempestivamente a un dermatologo per non lasciar suonare a vuoto eventuali campanelli d’allarme come l’interessamento ungueale o lesioni difficilmente rilevabili da parte di un occhio inesperto e per evitare di arrivare a comorbilità importanti come l’artrite psoriasica”, conclude Ornella De Pità “la quasi totalità delle psoriasi si può trattare efficacemente: a seconda della gravità sono disponibili prodotti topici, per le forme lievi-moderate, e farmaci sistemici, per le forme più gravi, in grado di tenere sotto controllo la patologia e assicurare una buona qualità della vita”. Il documento è stato realizzato con il finanziamento della Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero della salute, nell’ambito delle attività del Sistema nazionale di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria (SiVeAS) ed è stato elaborato da un ampio gruppo di lavoro costituito dai più autorevoli esperti in materia esteso, per la prima volta, a tutte le figure professionali coinvolte nel trattamento della malattia e dai rappresentanti di pazienti: cinque dermatologi; un farmacologo; un oncologo-epidemiologo; due medici di medicina generale; un diabetologo; due reumatologi; un epidemiologo; un infermiere professionale e un rappresentante dei pazienti. In un momento delicato per il Servizio Sanitario Nazionale a causa delle limitazioni delle risorse disponibili è importante offrire alle regioni e alle Aziende sanitarie elementi di valutazione per fornire le migliori cure eliminando gli sprechi. Negli ultimi anni i progressi registrati nella comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della psoriasi hanno promosso lo sviluppo di nuovi farmaci che si sono aggiunti alle terapie topiche e sistemiche già tradizionalmente utilizzate. A oggi, quindi, le opzioni terapeutiche per il paziente psoriasico sono molteplici e il conseguimento di traguardi sempre più avanzati nel campo della ricerca lascia presagire che tali opzioni siano destinate a crescere rapidamente nel prossimo futuro. Un importante contributo all’arricchimento delle conoscenze in tale ambito è stato fornito dal progetto PsoCare avviato dall’Agenzia italiana del farmaco nel 2005, il quale ha valutato fin dalle prime fasi della loro commercializzazione i profili di efficacia/sicurezza dei nuovi farmaci registrati per il trattamento della psoriasi.
Nel mondo la prevalenza dei soggetti con una storia di neoplasia è in costante aumento e in Italia, secondo le stime del “Rapporto 2012 sulla condizione assistenziale del malato oncologico”, rappresenta il 4% della popolazione generale e il 15% della popolazione con più di 65 anni. Oggi la metà di questi pazienti ha una diagnosi di neoplasia da più di 5 anni e questa percentuale sale al 90% nei casi di tumore della mammella e della prostata. In questi soggetti la gestione del follow up, intesa come semplice sorveglianza di routine di eventuali recidive, è oggetto di una revisione critica nella prospettiva di cure proattive centrate sul paziente che comprendono la pianificazione sistematica di controlli basati sul rischio individuale, le terapie oncologiche eseguite, lo stile di vita e la presenza di comorbidità, condizione che caratterizza circa il 70% di questi pazienti1.
Per un Medico di Medicina Generale (MMG) questo significa che tra i suoi pazienti di età > 65 anni 1 su6 hauna storia positiva per neoplasia contratta in età adulta in cui è necessario:
programmare una visita periodica di routine associata a dei test con l’obiettivo di scoprire un’eventuale recidiva,
monitorizzare gli effetti ritardati del trattamento,
effettuare uno screening dell’insorgenza di nuovi secondi tumori primitivi e
fornire un adeguato supporto psicologico1
Storicamente la struttura del follow up è nata da quella degli studi clinici controllati che prevedevano contatti periodici e sistematici con schemi da protocollo e con priorità orientate ai risultati “generali” dello studio piuttosto che agli interessi “limitati” del paziente. La domanda che spesso i MMG si sono posti di fronte alle richieste di esami provenienti dal centro oncologico è quanto queste fossero adeguate ai bisogni del loro singolo paziente. Oggi anche i medici specialisti, per gli stessi motivi e per il crescente numero di studi che documentano l’importanza delle cure primarie2,3 nella gestione di un follow up oncologico centrato sul singolo paziente e condiviso con il MMG.
Nel caso del tumore della mammella, neoplasia che può recidivare anche dopo 15 anni dalla diagnosi iniziale, la sorveglianza rappresenta, pur con diversa intensità, un processo lungo tutta la vita della paziente. L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ha pubblicato un aggiornamento delle linee guida sul follow up che confermano come elementi chiave:
L’anamnesi accurata
L’esame obiettivo della paziente che dovrebbe essere fatto ogni 3 – 6 mesi per i primi 3 anni, e ogni 6 – 12 mesi nel 4° e 5° anno, in seguito annualmente.
L’educazione della paziente al riconoscimento dei sintomi sospetti (comparsa di nuovi noduli, dolori ossei, dolori toracici, dispnea, dolori addominali o cefalea persistente)
Quindi si raccomanda per il tumore della mammella un follow up che non necessita di interventi ad elevata tecnologia, ma di una sorveglianza in cui è prioritario il coordinamento delle cure per adeguare, in casi selezionati, ulteriori accertamenti e la condivisione con paziente e MMG di alcune raccomandazioni.
Il counseling genetico è opportuno nelle pazienti ad alto rischio, che include le donne con predisposizione razziale (Ebrei Ashkenazi), con una storia familiare di tumore della mammella o dell’ovaio e coloro che hanno una diagnosi personale o parentale di tumore mammario bilaterale.
L’autoesame del seno è utile per tutte le pazienti e andrebbe effettuato con frequenza mensile.
Le donne che hanno subito un trattamento conservativo (x es. quadrantectomia) dovrebbero eseguire una mammografia entro 1 anno dalla diagnosi, ma non prima di 6 mesi dalla fine della radioterapia.
Un esame ginecologico periodico è sempre consigliabile, in particolare in coloro che assumono tamoxifene, dove qualsiasi sanguinamento vaginale deve essere indagato in maniera approfondita.
Il follow up può essere trasferito alle competenze del MMG, dopo un anno, in donne con uno stadio di malattia iniziale (tumore < 5 cme < 4 linfonodi positivi), previa adeguata informazione da parte dello specialista oncologo del MMG e della paziente sulle modalità di una sorveglianza appropriata. Questa raccomandazione del trasferimento di “setting” del coordinamento delle cure è basata su evidenze che dimostrano come il follow up gestito dal MMG raggiunge gli stessi esiti di quello gestito dallo specialista e con una miglior soddisfazione da parte delle pazienti3. Infatti un follow up intensivo non determina un vantaggio per la sopravvivenza o un miglioramento della qualità di vita rispetto a un programma di sorveglianza normale e gestito nell’ambito delle cure primarie. In particolare per una prassi routinaria di follow up del tumore della mammella attualmente non sono raccomandabili: esami del sangue, studi di immagine (ecografia dell’addome, rx del torace, scintigrafia ossea), markers tumorali. L’utilità dei marcatori andrà valutata in studi ulteriori e nuove raccomandazione utili per una diagnosi di recidiva di tumore mammario saranno prodotte per linee guida basate sulla valutazione del rischio specifico da utilizzare incasi particolari (tumori triplo negativi) e anche per identificare subset di pazienti in cui andrà valutato attentamente che modello di cure offrire. Infatti rimane prioritario migliorare l’efficacia delle procedure di sorveglianza perchè, sfortunatamente per le pazienti, il 69% delle recidive si manifesta ancora nell’intervallo tra gli esami programmati.
Bibliografia
HudsonSV et al.Adult Cancer Survivors Discuss Follow-up in Primary Care: ‘Not What I Want, But Maybe What I Need’Ann Fam Med 2012;10:418:27
Grunfeld ECancer survivorship: a challenge for primary care physiciansBr J Gen Pract 2005; 96:741-2
Grunfeld E,LevineMN, Julian JA, et al.Randomized trial of long-term follow-up for early-stage breast cancer: a comparison of family physician versus specialist care.J Clin Oncol. 2006;24(6):848–855
Khatcheressian JL et al, for American Society of Clinical Oncology.Breast Cancer Follow-up and Management after Primary Treatment: American Sociaty of Clinical Oncology Update.J Clin Oncol 20126 Nov 5;30:5091-7
Ipertrigliceridemia, nuove linee-guida della Endocrine Society
Realizzate le nuove linee-guida sull’ipertrigliceridemia a cura della Endocrine Society, pubblicate dal Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism ma a disposizione per il download gratuito sul sito internet della Endocrine Society.
La Task Forceche le ha stilate comprende un chairman scelto dall’Endocrine Society Clinical Guidelines Subcommittee (CGS), cinque esperti e un metodologo: nessuno ha ricevuto pagamenti o finanziamenti di alcun genere. Il consenso sulle linee-guida è stato raggiunto mediante la revisione sistematica dell’evidenza e la discussione tra i membri della Task Force. Le linee-guida sono state successivamente revisionate e approvate dall’Endocrine Society Clinical Guidelines Subcommittee (CGS), dal Clinical Affairs Core Committee, dai soci della Endocrine Society via mail e infine dall’Endocrine Society Council.
I punti salienti delle linee-guida?La Task Forcericorda che una ipertrigliceridemia lieve o moderata (150–999 mg/dl) è un importante fattore di rischio cardiovascolare e una ipertrigliceridemia grave (> 1000 mg/dl) è un fattore di rischio per la pancreatite. Raccomanda poi che la diagnosi di ipertrigliceridemia avvenga mediante la misurazione dei livelli di trigliceridi a digiuno e che gli adulti vadano obbligatoriamente screenati al massimo ogni 5 anni. Nei pazienti con diagnosi di ipertrigliceridemia i successivi controlli devono comprendere la misurazione dei livelli di apolipoproteina B – apoB e lipoproteina (a) – Lp(a). Si sottolinea inoltre che nei pazienti con diagnosi di ipertrigliceridemia debbano essere prese in considerazione cause secondarie di ipertrigliceridemia (comprese disfunzioni endocrine e trattamenti farmacologici), storia familiare di dislipidemia e patologie cardiovascolari. Altri fattori di rischio cardiovascolare eventualmente presenti in tali pazienti andranno valutati con la massima attenzione.
Il trattamento iniziale raccomandato dalla Task Force si limita alle modifiche degli stili di vita, quindi il clinico dovrà effettuare un counseling dietetico, mirare a una significativa riduzione del peso corporeo nel caso di pazienti sovrappeso, e avviare il paziente ad una corretta attività fisica.
Nei pazienti a rischio di pancreatite va aggiunto anche un trattamento farmacologico di prima linea a base di fibrati. Nei pazienti con ipertrigliceridemia da moderata a grave le opzioni di trattamento da considerare sono fibrati, niacina e acidi grassi n-3 da soli o in combinazione con statine. Le statine non vanno prescritte in monoterapia nei pazienti con ipertrigliceridemia grave e molto grave, anche se possono essere molto utili nel trattamento dell’ipertrigliceridemia moderata per modificare il rischio cardiovascolare.
▼ Berglund L, Brunzell JD, Goldberg AC, Stalenhoef AFH et al. Evaluation and Treatment of Hypertriglyceridemia: An Endocrine Society Clinical Practice Guideline. The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism 2012;97(9):2969-2989 doi: 10.1210/jc.2011-3213
CARD-1057338-0000-UNV-W-10/2014
Malattia renale cronica e controllo della pressione arteriosa
Evidenze scientifiche per la gestione dei pazienti adulti e pediatrici
15.La Malattia RenaleCronica (MRC) è una patologia estremamente comune negli adulti e colpisce circa il 10% della popolazione anziana. Le cause più comuni di MRC sono il Diabete Mellito tipo 2 e l’Ipertensione Arteriosa, alle quali seguonola Nefropatiaad IgA,la Glomerulosclerosi Focale,la Malattiadel rene Policistico ela Nefropatiada Reflusso. La progressione della MRC dipende da una serie di fattori concomitanti come quelli legati alla patologia di partenza, la presenza o meno di comorbidità, il tipo di intervento terapeutico, lo stato socio-economico, la predisposizione genetica e l’etnia. La progressione verso lo stadio terminale della malattia renale (ESRD) e la necessità di terapia renale sostitutiva è un evento comune. E’ noto chela MRCaumenta il rischio di eventi cardiovascolari (infarto, ictus, morte Improvvisa etc.) i quali intervengono nel corso della progressione della MRC causando aumento di morbilità e mortalità nel paziente nefropatico. Una strategia terapeutica rivolta al rallentamento della progressione della malattia ed alla riduzione dell’alto rischio cardiovascolare sono il goal vincente per questo paziente.
16. Le attuali evidenze scientifiche sulla MRC confermano che l’Ipertensione e la proteinuria sono non solo dei markers di patologia, ma anche dei fattori indipendenti di progressionedella stessa verso gli stadi terminali. Dal punto di vista fisiopatologico il Sistema Renina-Angiotensina (RAS) gioca un ruolo fondamentale, anche se nella gestione clinica del paziente nefropatico devono essere considerati e valutati, oltre ai classici fattori (fumo obesità e glucotossicità), la dislipidemia (livelli di colesterolo LDL-c), lo stress ossidativo e l’infiammazione, senza dimenticare il disordine del metabolismo calcio-fosforo-vitamina D e l’anemia.
17. In una revisione pubblicata su Nature Reviews Nephrology sono riportate le evidenze del ruolo dell’ipertensione, dell’importanza della comparsa di proteinuria e quali siano le migliori e più documentate strategie terapeutiche da mettere in atto nella MRC per rallentarne la progressione. E’ consolidato il fatto che l’ipertensione rappresenti un fattore di rischio indipendente per la progressione della malattia sia nei pazienti adulti che nei pazienti pediatrici con problemi renali. I dati emersi dagli studi clinici indicano che il tasso di progressione della MRC può essere diminuito da interventi farmacologici. Attualmente la strategia nefroprotettiva si concentra sul blocco del Sistema Renina-Angiotensina (RAS). Gli ACE-inibitori e gli antagonisti del recettore dell’angiotensina forniscono un controllo efficace non solo della pressione arteriosa, ma anche della proteinuria. Nei pazienti pediatrici e nei pazienti con proteinuria è evidente un ulteriore vantaggio legato allo stretto controllo della pressione in un range più basso (<125/75 mmHg) rispetto al convenzionale goal terapeutico (<140/90 mmHg).
18. Dal punto di vista fisiopatologico la naturale storia di evoluzione della MRC è molto ben conosciuta e lineare, rifacendosi alla “Ipotesi di Brenner” che afferma come ogni perdita critica di massa renale (numero di nefroni), indipendentemente dalla natura dell’initial injuri(insulti pressori, immunocomplessi o anticorpi, glucosio o LDL-C), porta all’aumento della filtrazione di ogni singolo nefrone (teoria dell’Iperfiltrazione). Tale meccanismo compensatorio presente nelle prime fasi, diventa poi dannoso per il nefroneportando ad ipertrofia glomerulare e tubulare, con danno alle cellule endoteliali ed ai podociti. La comparsa di proteinuria sempre più elevata favorisce quindi la progressione verso la totale perdita dei nefroni residui. In questa fase la progressione è indipendente dalla causa scatenante e la progressione della MRC volge ineludibilmente verso l’ESRD e la terapia dialitica sostitutiva.
19. Le evidenze sperimentali e cliniche suggeriscono come gli antagonisti del RAS preservino la funzione renale non solo abbassando il livello della pressione arteriosa, ma anche con meccanismi specifici antiproteinurici e anti-infiammatori. Allo stato attuale delle conoscenze è ancora controverso quanto un rigoroso controllo della pressione arteriosa possa esercitare ulteriori effetti benefici sulla progressione della malattia renale, mentre esistono le prove del notevole vantaggio nefroprotettivo per i bambini con insufficienza renale cronica e per i pazienti con proteinuria. Nella pratica clinica, in questi sottogruppi di pazienti, l’utilizzo degli antagonisti RAS come classe di farmaci di prima scelta permette di raggiungere target pressori più bassi mantenendo buoni profili di tollerabilità e sicurezza.
20. In considerazione di tali evidenze è cruciale per il medico pratico focalizzare la sua attenzione ad intercettare i pazienti a rischio di MRC, diagnosticarela MRCnegli stadi iniziali e mettere in atto quelle strategie educative (stile di vita, fumo, obesità) e terapeutiche (trattarela PA, ridurre i livelli di LDL-c, mantenere un corretto controllo metabolico del diabete, non usare farmaci nefrotossici) con l’obiettivo non solo di rallentare l’evoluzione della MRC, ma anche di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari.
Una ridotta secrezione di melatonina è associata a un aumentato rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. Ecco la conclusione di uno studio portato avanti da alcuni ricercatori del Dipartimento di medicina del Brigham and women’s hospital di Boston, Massachusetts
Una ridotta secrezione di melatonina è associata a un aumentato rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. Ecco la conclusione di uno studio portato avanti da alcuni ricercatori del Dipartimento di medicina del Brigham and women’s hospital di Boston, Massachusetts, e pubblicato sul numero del 3 aprile di Jama.
Ormone con effetti pleiotropici La melatonina, secreta dalla ghiandola pineale seguendo i ritmi circadiani, è un ormone dagli effetti pleiotropici, con ruoli nella regolazione del peso corporeo e del metabolismo energetico. La presenza di suoi recettori nelle isole pancreatiche ne suggerisce un coinvolgimento nella regolazione dei livelli di glucosio. Inoltre, diverse sono le evidenze che indicano come una ridotta secrezione o un diminuito signaling della melatonina possano alterare la sensibilità all’insulina e causare diabete di tipo 2. «Studi sugli animali hanno mostrato che la mancanza di un recettore funzionale per la melatonina produce insulinoresistenza e diabete tipo 2, mentre l’assunzione di melatonina è risultata protettiva in ratti predisposti a sviluppare diabete» spiega il primo autore del lavoro, Ciaran McMullan, il quale sottolinea anche come studi Gwas (genome-wide association studies) abbiano correlato alcuni polimorfismi del gene umano per il recettore 1B della melatonina (Mtnr1b) a elevati livelli di emoglobina glicata e di glucosio a digiuno, oltre che a un aumento dell’incidenza di diabete gestazionale e di tipo 2. Per chiarire il legame tra secrezione di melatonina e incidenza di diabete nell’uomo, i ricercatori hanno condotto uno studio caso-controllo, su una coorte di soggetti arruolati nel Nurses’ health study.
Servono studi su sonno e integratori Tra le partecipanti, che non avevano diabete all’inizio dello studio e che avevano fornito campioni di sangue e urina nel 2000, sono state identificate 370 donne che hanno sviluppato diabete tipo 2 tra il 2000 e il 2012, e altre 370 che sono state usate come controllo. Misurando il rapporto tra 6-sulfatossimelatonina e creatinina, e utilizzando analisi statistiche che hanno tenuto conto di fattori come caratteristiche demografiche, stile di vita, misure della qualità del sonno e biomarker di infiammazione o disfunzione endoteliale, i ricercatori hanno trovato che i soggetti con un rapporto sulfatossimelatonina/creatinina più basso erano più rappresentati tra coloro che avevano sviluppato diabete, mentre i rapporti più alti si trovavano tra i controlli. Inoltre la sensibilità all’insulina era maggiore tra le donne con rapporto elevato. «I soggetti con i rapporti di sulfatossimelatonina/creatinina più bassi avevano un rischio di sviluppare diabete di tipo 2 circa 2,2 volte maggiore rispetto ai soggetti che avevano i rapporti più alti, con un tasso di incidenza di 9,27 casi per 1.000 persone anno rispetto ai 4,27 per 1.000 persone anno rispettivamente» spiega McMullan. «Da questi dati e considerate le evidenze presenti in letteratura, possiamo ipotizzare un ruolo causale della melatonina nella ridotta secrezione di insulina e nell’aumentato rischio di diabete. Ulteriori studi sono necessari per stabilire se aumentare i livelli di melatonina – attraverso più ore di sonno o mediante integrazione esogena – possa aumentare la sensibilità all’insulina e diminuire l’incidenza di diabete tipo 2» conclude l’esperto.
Un medico, se è in eccesso di peso, può causare un impatto negativo sul suo rapporto con i pazienti. Lo rivela un gruppo di ricercatori della Yale University, a New Haven (Usa), che hanno verificato come gli adulti abbiano maggiori probabilità di riporre poca fiducia nei medici che considerano sovrappeso od obesi rispetto a quelli percepiti come normopeso. Più precisamente, se un camice bianco non appare “sano”, i pazienti sono meno inclini a seguirne i consigli sullo stile di vita, specie la necessità di perdere peso, e sono più propensi a cambiare medico. «Vi è uno stigma diffuso e pervasivo sul peso» afferma il primo autore, Rebecca M. Puhl «e i pazienti non ne sono immuni. Possono dunque fare considerazioni sui medici basate solo sull’apparenza». Gli studiosi hanno suddiviso in modo randomizzato un campione nazionale di 358 adulti in tre gruppi, nei quali i partecipanti hanno compilato un questionario utile ad analizzare le loro percezioni di medici descritti come normopeso, in sovrappeso od obesi. La survey si è soffermata sull’importanza del peso corporeo; inoltre gli intervistati hanno compilato la Fat Phobie Scale, composta da 14 coppie di aggettivi di solito usati per descrivere i soggetti obesi. Si è così visto che il pregiudizio negativo verso i medici obesi, rilevato dalla Fat Phobie Scale, è rimasto costante indipendentemente dal peso corporeo dei partecipanti, con costante maggiore vulnerabilità ai pregiudizi per i medici obesi rispetto ai normopeso. Per rafforzare il rapporto fiduciale con il paziente, un medico con Bmi elevato può parlare del proprio peso gli assistiti: condividere la difficoltà del dimagrimento può ridurre lo stigma verso i clinici con Bmi elevato. In ogni caso è fondamentale che i medici migliorino le proprie condizioni di salute, secondo Arya M. Sharma, dell’università dell’Alberta (Canada), eliminando i fattori chiave per lo sviluppo di sovrappeso e obesità: mancanza di equilibrio tra vita extralavorativa e lavoro, tempo insufficiente per mangiare e fare adeguato esercizio, stress e troppo poco sonno.
I medici, prima di offrire ai pazienti la possibilità di eseguire un test dell’antigene prostatico-specifico (Psa), devono essere espliciti nell’illustrarne i limitati benefici e i reali pericoli. Questa raccomandazione, contenuta nelle nuove linee guida rilasciate dall’American College of Physicians (Acp), rende l’idea di come sia mutata la strategia della comunità scientifica nel ricorso al test il quale, sempre secondo l’Acp, va evitato anche negli uomini di età inferiore a 50 anni, oltre i 69 anni o con un’aspettativa di vita inferiore a 10-15 anni. Per i pazienti 50enni e 60enni, il bilancio tra rischi e benefici è variabile e il ricorso va individualizzato; in questi casi – afferma Amir Qaseem, responsabile del programma per le linee guida dell’Acp – è importante dare tutte le informazioni utili al paziente affinché sia lui a decidere se effettuare il test o meno; il medico dovrebbe anzi astenersi dal prescriverlo senza una chiara espressione di preferenza manifestata dall’assistito. Il timore è che lo screening riveli forme cancerose che non potrebbero mai influire sulla sopravvivenza, perché troppo piccole o a crescita lenta, mentre il trattamento provocherebbe effetti collaterali come incontinenza e impotenza. David Bronson, presidente dell’Acp, ribadendo che l’attuale test del Psa presenta varie limitazioni, aggiunge che vi sono però grandi chance di innovazione nel settore. «Abbiamo bisogno di approcci più raffinati a questa malattia» sottolinea «tali da consentire diagnosi migliori e più accurate». Ma sul tema vi è disaccordo tra le diverse organizzazioni scientifiche Usa. La controversia è nata dopo le critiche all’utilità del test espressa da una commissione governativa, la U.S. Preventive services task force (Uspstf). L’American urological association (Aua), dopo aver accusato l’Uspstf di aver creato un grave disservizio, “diffamando” l’unico marker ampiamente disponibile, ha convenuto che la scelta del test deve essere individualizzata e condivisa. L’Aua non si è però espressa sulle raccomandazioni Acp, annunciando l’uscita di linee guida autonome a breve.