La soia migliora la prognosi del tumore al seno

Uno studio di popolazione (Shanghai Breast Cancer Survival Study), pubblicato di recente su JAMA? [Xiao Ou Shuet al. JAMA?2009;302(22):2437-2443], ha valutato l’effetto del consumo di cibi a base di soia e la prognosi del tumore al seno. La casistica era composta da 4.934 donne di et? compresa fra 20 e 75 anni con tumore al seno diagnosticato nei sei mesi precedenti, le quali sono state seguite in media per 3.9 anni. Il consumo di soia veniva desunto da uno specifico questionario validato somministrato ogni 6 mesi per il primo anno e successivamente ogni 12 mesi. Tra le donne che consumavano la maggior quantit? di proteine di soia l’incidenza di mortalit? ? risultata ridotta del 29% e quella di recidiva neoplastica del 32%. La differenza ? stata analoga sia nelle forme neoplastiche con positivit? che in quelle con negativit? dei recettori per gli estrogeni ed ? stata indipendente dall’uso del Tamoxifene. La soia ? un alimento ricco di fitoestrogeni, soprattutto isoflavoni, che sono dei modulatori dei recettori estrogenici in quanto dotati sia di attivit? simil-estrogenica che anti-estrogenica; pertanto hanno la possibilit? di esplicare un’azione simile a quella del Tamoxifene quando questo farmaco non venga assunto o di potenziarne l’attivit? in corso di trattamento.

Xiao Ou Shuet et al. Soy Food Intake and Breast Cancer Survival. JAMA?2009;302(22):2437-2443

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Una messa a punto sull’insufficienza renale cronica

L’insufficienza renale cronica (IRC), definita? in base ad una diminuzione del filtrato glomerulare < 60%, ? una patologia emergente con una prevalenza negli Stati Uniti? intorno al 13%. Peraltro solo meno del 2% di tali pazienti arriva ad una terapia sostitutiva della funzione renale (emodialisi,dialisi peritoneale o trapianto renale) in quanto vi ? una elevatissima mortalit? cardiovascolare che aumenta con la diminuzione della funzione renale. Tale elevato rischio cardiovascolare ? dovuto a fattori specifici della IRC, come la anemia, l'iperparatiroidismo secondario con calcificazioni vascolari, la disfunzione endoteliale con deficit funzionale di ossido nitrico per la ritenzione di sostanze (come l'ADMA), antagoniste di tale molecola, la iperattivit? simpatica, lo stato infiammatorio cronico. Inoltre anche i tradizionali fattori di rischio come l'ipertensione la dislipidemia, l'alterato metabolismo glucidico, il fumo sono spesso presenti. La gestione di questi pazienti? richiede un approccio multiplo:
i pazienti con IRC, e in particolare quelli in stadio avanzato, dovrebbero essere regolarmente seguiti da una ?quipe specialistica ?con controllo periodico della funzione renale (ogni tre-sei mesi)
la pressione arteriosa deve essere trattata in maniera da avere valori inferiori a 130/80 e i farmaci di prima scelta dovrebbero essere i bloccanti del sistema Renina-Angiotensina (ACE Inibitori ,Sartani), sempre tenendo per? presente il possibile rischio di peggioramento della funzione renale soprattutto nei pazienti anziani per la possibile presenza di misconosciute stenosi delle arterie renali. Anche beta bloccanti, diuretici dell’ansa e? calcio antagonisti possono essere utilizzati nella terapia, spesso necessariamente? polifarmacologica. E’ richiesta inoltre una restrizione dell’introito di sale
la proteinuria ? il pi? importante fattore di progressione della IRC e pertanto vanno messi in atto tutti i presidi farmacologici in grado di ridurla: ACE Inibitori, Sartani, Antialdosteronici, sempre controllando eventuali effetti collaterali, come la temibile iperpotassiemia. Purtroppo i risultati dello studio ONTARGET hanno sollevato forti dubbi sulla sicurezza della associazione ACEInibitori-Sartani
il controllo glicemico deve essere rigoroso
l’iperparatiroidismo secondario deve essere trattato con chelanti del fosforo, vitamina D, Calciomimetici
la dislipidemia va controllata sino ad avere un livello di LDL <100 mg%
l’anemia della IRC ? dovuta a deficit di produzione di eritropoietina e la sua terapia richiede l’utilizzo di ESA (Erythropoiesis-Stimulating-Agents) come la eritropoietina alfa, beta, darbepoietina, CERA, ma il target di emoglobina dovrebbe essere rigorosamente mantenuto tra 11 e 12 gr%, per evitare effetti collaterali come l’incremento degli eventi cardiovascolari per ?aumentata viscosit? ematica (i dati dello studio TREAT hanno evidenziato i possibili pericoli di un approccio aggressivo nella terapia con ESA). Un adeguato supplemento di ferro? deve essere somministrato quando vi sia ?carenza marziale
i disturbi dell’equilibrio acido base vanno trattati in caso di grave acidosi con l’uso di sodio bicarbonato per via orale. Vi sono ancora aree di incertezza nella terapia della IRC in particolare negli stadi avanzati 3, 4 e 5, come ad esempio la mancanza di dati certi sul target ?di emoglobina da raggiungere e sulla eventuale terapia di doppia inibizione del sistema Renina-Angiotensina, ma in ogni caso nel trattamento dei pazienti con IRC disponiamo oggi di presidi di terapia efficaci che ?vanno utilizzati correttamente al fine di abbattere la elevatissima mortalit? cardiovascolare di questi pazienti.
Abbound H, Henrich WL.?Stage IV Chronic Kidney Disease. New Engl J Med?2010;362(1):56-65

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Un’altra azione pleiotropa delle statine

Dati recenti riportano fra gli effetti pleiotropi delle statine quelli sulla infiammazione e sulla cascata emocoagulativa. Su tale base di conoscenza i colleghi dell’Albert Einstein Medical Center di ?Philadelphia hanno condotto uno studio retrospettivo interessante su?pi? di 700 pazienti con diagnosi di tumore “solido”, valutando l’incidenza del tromboembolismo venoso in relazione all’utilizzo delle statine e di altre variabili quali la chemioterapia, l’immobilizzazione, la disseminazione metastatica, il fumo e l’uso di ASA. I dati emersi da questa ricerca retrospettiva, pur con tutti i limiti metodologici del caso, sono comunque interessanti:
la frequenza del tromboembolismo venoso (TEV) in questo tipo di pazienti ? risultata essere del 18%
diabete e/o ipertensione non correlavano con una frequenza maggiore del TEV – l’immobilizzazione, la documentata presenza di metastasi e la chemioterapia erano invece fattori molto favorenti il TEV con un OR rispettivamente di 2,52 (95% CI, 1,58-4,01), 2,44 (95% CI, 1,64-3,63)? e 2,07 ( 95% CI, 1,34-3,22)
il fumo (inaspettatamente), l’uso dell’ASA e il trattamento con le statine (per di pi? a dosi standard e senza sostanziale differenza fra i vari preparati) determinavano invece una riduzione del rischio di TEV con una OR rispettivamente di 0,62 ( 95% CI, 0,39-0,98), 0,57 ???(95% CI, 0,34-0,96) e ?0.33 (95% CI, 0,19-0,57).

L’analisi di regressione statistica, includente i vari fattori di rischio o le misure preventive il TEV, ha confermato il dato suggerendo che l’utilizzo delle statine in questa particolare tipologia di pazienti pu? esercitare un effetto protettivo sul TEV.

Khemasuwa?MD et?al. Statins Decrease the Occurrence of Venous Thromboembolism in Patients with Cancer Danai.?AJM 2010;123(1):60-65

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Sindrome di Gitelman: pensiamoci

La sindrome di Gitelman? (GS), una variante della sindrome di Bartter, ? un disordine tubulare renale, autosomico recessivo, caratterizzato da ipokaliemia, ipomagnesiemia, ipocalciuria, alcalosi metabolica, iperaldosteronismo e ipotensione. La sua prevalenza ? di 25 casi su 1 milione e la diagnosi viene di solito fatta in ritardo, perch? questi pazienti sono difficili da classificare clinicamente. La causa ? da ricercare in mutazioni inattivanti (ne sono state descritte pi? di 100) nel gene SLC12A3 che codifica il co-trasporto sodio-cloro tiazide sensibile (NCCT). Un perdita tubulare di sodio provoca un iperldosteronismo e conseguente perdita di potassio, ma il meccanismo ? molto pi? complesso, come riferiscono Roser e coll. prendendo lo spunto da due pazienti giunti alla loro osservazione.? La sintomatologia ? piuttosto variabile e pu? essere costituita, a causa dei disturbi elettrolitici, da contrazioni crampiformi, ma anche paralisi flaccida, stanchezza cronica fino alla narcolessia. Il genere maschile ? pi? colpito di quello femminile e la combinazione delle mutazioni? presente in ciascun allele? pu? determinare una variazione del fenotipo. In pratica la GS ? la patologia speculare della S. di Gordon o pseudoiperaldosteronismo tipo II (PAHII) in cui si ha ipertensione, iperkaliemia e acidosi metabolica. La GS ? difficile da trattare. Un ruolo non ben definito rimane ancora quello degli antagonisti dell’aldosterone e degli agenti sul RAS: il difetto tubulare di per s? non pu? essere corretto e la pietra miliare del trattamento rimane la supplementazione di potassio e magnesio.? Ma ? difficile comunque ripristinare i valori normali di potassio e di magnesio, perch? ad alte dosi possono dare intolleranza gastrica e diarrea. Il cloruro di Mg sembra pi? tollerabile dell’aspartato di Mg.

Roser M et al.?Gitelman Syndrome. Hypertension 2009;53(6):893-897

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HB glicata per la diagnosi di diabete?

Abitualmente la diagnosi di diabete ? effettuata misurando i valori glicemici a digiuno o dopo carico di glucosio per os. Recentemente l’ADA, l’EASD e l’IDF hanno proposto di sostituire questi test con quello dell’emoglobina glicata (International Expert Committee report on the role of the A1c assay in the diagnosis of diabetes. Diabetes Care 2009; 32: 1327). Un valore > 6,5% sarebbe cio? sufficiente di per s? per la diagnosi di DM tipo 2 anche senza l’effettuazione del test della glicemia (anche se quest’ultimo va utilizzato nei casi in cui i valori di emoglobina glicata risultano non chiaramente interpretabili).

In una recente analisi del problema, pubblicata a inizio dicembre 2009 sul British Medical Journal, Kilpatrick e collaboratori discutono i pro ed i contro che si possono registrare nel seguire questa raccomandazione. I vantaggi offerti dalla A1c sono rappresentati dalla possibilit? di effettuare un solo prelievo anche non a digiuno, dalla limitata variabilit? del valore da un giorno all’altro, dalla stabilit? del campione dopo il prelievo e dalla possibilit? di avere una valutazione del controllo glicemico nelle settimane precedenti il prelievo stesso. Gli svantaggi al contrario sono rappresentati dal fatto che la metodica non ? ancora ben standardizzata in tutti i laboratori; inoltre i valori possono essere modificati in presenza di emoglobinopatie, anemia sideropenica ed insufficienza renale; l’et? e la razza possono determinare ulteriori difficolt? di interpretazione e si possono realizzare delle discrepanze tra i valori glicemici e quelli del test di A1c; inoltre il costo risulta ancora elevato. Occorre ancora considerare che non ? al momento del tutto chiaro se il test della A1c sia altrettanto accurato dei test glicemici (a digiuno e dopo carico) nel predire la comparsa di un danno microangiopatico. Un ulteriore dubbio deriva dal fatto che un certo numero di pazienti (fino al 50-60% secondo alcune stime) con elevati valori glicemici a digiuno ha una concentrazione di A1c < 6.5%. L'uso di questo test nella diagnosi di diabete non faciliterebbe quindi il riconoscimento di quei pazienti che hanno il diabete ma non sanno di essere malati. In conclusione il passaggio dal test glicemico tradizionale a quello della emoglobina glicata per la diagnosi di diabete pu? al momento essere considerato non tanto un passo in avanti, ma forse un passo al momento ancora troppo lungo. Kilpatrick ES et al.?Is haemoglobin A1c a step foreard for diagnosing diabetes.?BMJ 2009;339(10):1288-1290

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Approccio multidisciplinare per la funzionalit? sessuale

Oltre agli aspetti puramente fisici della disfunzionalit? sessuale maschile (disturbi del desiderio, dell’eccitamento e dell’orgasmo), un trattamento moderno orientato verso la coppia, prende in considerazione anche gli aspetti psicosociali. La validit? di questo approccio ? supportata da una revisione, condotta da ricercatori tedeschi, della letteratura sulla disfunzionalit? sessuale maschile, sulla sua associazione a patologie sottostanti e sull’impatto nella relazione e nella soddisfazione sessuale. Dalla metanalisi ? emerso che nella valutazione diagnostica ha un’importanza primaria la storia sessuale del soggetto e del partner, considerata nella sua multidimensionalit?. La frustrazione cronica dei bisogni psicosociali di accettazione, sicurezza e vicinanza, ? un importante fattore finora negato nell’eziologia di questo tipo di disturbi. Il loro trattamento, invece, richiede una combinazione di elementi derivanti dalla medicina della sessualit? e dalla psicoterapia fino alla medicina somatica e alla farmacologia. L’obiettivo di questo approccio ? andare incontro, per risolverli, ai bisogni psicosociali cos? da migliorare la funzionalit? sessuale del paziente.

Dtsch Arztebl Int 2009; 106(50): 821-8

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Meno errori con etichette pi? chiare

L’utilizzo di un linguaggio pi? semplice ed esplicito nella formulazione delle etichette dei farmaci prescrivibili pu? favorirne una migliore interpretazione da parte dei pazienti, evitando gravi errori nel corso delle terapie. A stabilirlo ? uno studio pubblicato su Archives of Internal Medicine e condotto presso due Istituti accademici e due Centri ospedalieri americani. L’indagine ha riguardato 500 pazienti adulti assegnati a interpretare: etichettature standard di farmaci (tipo 1); spiegazioni riformulate alla luce di un linguaggio semplificato (tipo 2) oppure etichettature prodotte con linguaggio semplice e corredato da immagini (tipo 3). L’endpoint primario dello studio era rappresentato dalla corretta interpretazione delle schede tecniche di nove medicinali valutata attraverso un pannello di risposte dei pazienti. In sintesi, la percentuale di interpretazioni esatte per il tipo 1, 2 e 3 di etichettatura ? risultata pari a 80,3%; 90,6% e 92,1%, rispettivamente. In aggiunta, il tipo 2 e 3 (Or = 2,64 e 3,26, rispettivamente) ? apparsa molto pi? vantaggiosa rispetto a quella di tipo 1. Infine, i pazienti con capacit? linguistiche marginali e scarse hanno ricevuto notevole aiuto dall’inserimento di icone rispetto alle etichette contenenti esclusivamente formulazioni semplificate (Or = 2,59 e 3,22 rispettivamente). (L.A.)

Arch Intern Med. 2010 Jan 11;170(1):50-6

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Pazienti in sovrappeso con steatoepatite non-alcolica: dubbi sull?efficacia di Orlistat

I Ricercatori del Brooke Army Medical Center di Fort Sam Houston negli Stati Uniti, hanno condotto uno studio clinico con lo scopo di determinare se Orlistat ( Xenical ), un inibitore dell?assorbimento dei grassi, in combinazione con un regime dietetico ipocalorico porta a riduzione del peso e miglioramento dell?istologia epatica in soggetti in sovrappeso con steatoepatite non-alcolica.

Cinquanta soggetti sovrappeso ( indice di massa corporea maggiore o uguale a 27 ) con steatoepatite non alcolica determinata mediante biopsia sono stati assegnati in maniera casuale a ricevere una dieta di 1.400 kcal giornaliere pi? Vitamina-E ( 800 UI ) ogni giorno con o senza Orlistat ( 120 mg 3 volte al giorno ) per 36 settimane.

La biopsia epatica ? stata ripetuta alla settimana 36.

Hanno completato lo studio 23 soggetti nel gruppo Orlistat/dieta/Vitamina E e 18 in quello dieta/Vitamina E.

L?et? media era di 47 anni e l?indice di massa corporea medio di 36,4.
Quattro soggetti soffrivano di diabete.

Il gruppo Orlistat ha perso in media l?8,3% del peso corporeo rispetto al 6,0% del gruppo dieta/Vitamina E ( differenza statisticamente non significativa ).

I gruppi hanno mostrato miglioramenti simili riguardo ai livelli sierici di aminotransferasi, steatosi epatica, necroinfiammazione, insufflazione forzata e punteggi di attivit? della steatosi epatica non alcolica.

Stratificando in base al calo ponderale anzich? in base al trattamento, una perdita maggiore o uguale al 5% del peso corporeo ( n=24 ), rispetto a una inferiore al 5% ( n=17 ), ? risultata correlata a un miglioramento della sensibilit? all?insulina ( P=0,0001 ) e della steatosi ( P=0,015 ).

Confrontando i soggetti che hanno perso una percentuale il 9% o pi? del proprio peso corporeo ( n=16 ) con quelli che ne hanno perso meno ( n=25 ) sono stati osservati miglioramenti nella sensibilit? all?insulina ( P<0,001 ), nei livelli di adiponectina ( P=0,03 ), nella steatosi ( P=0,005 ), nell?insufflazione forzata ( P=0,04 ), nell?infiammazione ( P=0,045 ) e nei punteggi di attivit? della steatosi epatica non-alcolica ( P=0,009 ). Aumenti nei livelli di adiponectina sono risultati strettamente correlati a un miglioramento nell?insufflazione forzata e nei punteggi di attivit? della steatosi epatica non alcolica ( P=0,03 ). Orlistat non ha incrementato la perdita di peso o migliorato i livelli degli enzimi epatici, le misure di resistenza all?insulina e l?istopatologia.
Tuttavia i soggetti che hanno avuto un calo ponderale maggiore o uguale al 5% del proprio peso corporeo in 9 mesi hanno migliorato la resistenza all?insulina e la steatosi, e quelli che hanno raggiunto un calo maggiore o uguale al 9% hanno anche ottnuto miglioramenti nell?istologia epatica.

Harrison SA et al, Hepatology 2009; 49: 80-86

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Deficit della memoria spie dell’Alzheimer?

Dopo i 50 anni di et? sottoporsi – anche in condizioni di normalit? – a test di memoria pu? evidenziare precocemente la predisposizione a sviluppare la malattia di Alzheimer. Ci? unendo la valutazione con test ad un nuovo tipo di risonanza magnetica nucleare in grado di rilevare le alterazioni anatomiche a carico delle aree del cervello responsabili del funzionamento della memoria stessa, in particolare quelle microstrutturali riferibili all?ippocampo; alterazioni che risultano sempre associate ad eventuali deficit. Lo ha messo in evidenza uno studio italiano condotto presso l?IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma e pubblicato ieri su Neurology, rivista ufficiale dell?American Academy of Neurology.

Da diversi decenni ? noto che gli individui sofferenti (per cause traumatiche, tossiche, infettive, etc.) di un danno anatomico a carico dell?ippocampo presentano, invariabilmente, una riduzione dell?efficienza della memoria fino ad vera e propria amnesia. Questo studio ora ha evidenziato che ? proprio l?ippocampo (insieme alle vicine strutture paraippocampali) il primo ad essere aggredito dall?Alzheimer. Ci? spiega perch? un deficit della memoria ? il pi? immediato campanello d?allarme dell?insorgenza della malattia anche in soggetti relativamente anziani ed apparentemente normali. Lo studio ? stato condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell?Universit? di Roma Tor Vergata e della Fondazione Santa Lucia: Giovanni Carlesimo, Andrea Cherubini, Carlo Caltagirone e Gianfranco Spalletta.

Per arrivare ad evidenziare questa correlazione, i ricercatori hanno preso in esame 76 soggetti sani ed esenti da chiare patologie neurologiche, di et? compresa tra i 20 e gli 80 anni. Questi sono stati sottoposti ad un nuovo tipo di risonanza magnetica nucleare (RMN) dell?encefalo: la diffusion tensor imaging (DTI) che consente di evidenziare alterazioni della microstruttura delle cellule nervose. Il campione studiato ? stato contemporaneamente valutato con test di memoria verbale e visiva a lungo termine. Dalla valutazione congiunta, neuroradiologica e neuropsicologica, ? emerso che nei soggetti al di sopra dei 50 anni le basse prestazioni ai test di memoria sono correlate a significative alterazioni microstrutturali a livello dell?ippocampo.

I risultati dello studio suggeriscono quindi che anche nei soggetti anziani con prestazioni della memoria ridotte al livello pi? basso della soglia di normalit? ? ma non clinicamente rilevanti ? andrebbe accertata l?eventuale contemporaneit? di alterazioni microstrutturali a carico dell?ippocampo. Il riscontro di questa associazione tra le due condizioni potrebbe essere predittiva di un?aumentata suscettibilit? a sviluppare la malattia di Alzheimer. Se la valutazione periodica (per circa tre anni) dei soggetti inclusi nello studio, attualmente in corso presso la Fondazione Santa Lucia, confermer? la validit? di questa metodologia, potrebbero essere sviluppate nuove e pi? precoci terapie farmacologiche in grado di modificare in modo significativo il decorso della patologia neurodegenerativa.

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Herpes labiale, cosa fare?

Le labbra possono subire disturbi locali, malattie cutanee e sistemiche di cui rappresentano un?utile spia. Periodicamente in agguato, la pi? temuta delle infezione: l?herpes labiale. Una patologia comune che secondo le statistiche affligge ca. 10-12 milioni di italiani, che periodicamente fanno i conti con questo fastidioso problema che, oltre a un antiestetico sfogo cutaneo provoca un fastidioso prurito e un profondo disagio psicologico. Il responsabile delle vescicole che compaiono sulle labbra ? un virus appartenente alla famiglia degli Herpes virus, identificato come Herpes Simplex Virus (HSV). Peculiarit? dell’herpes labiale sono l’imprevedibilit? e la capacit? di riapparire pi? volte, anche a distanza di anni. Il virus responsabile ? capace di resistere silente per anni all?interno dei gangli nervosi del nostro organismo, per poi manifestarsi subdolamente all?improvviso.

L?herpes inizialmente si manifesta con un leggero prurito e un senso di calore su un punto arrossato del labbro. Nel giro di poche ore, questa sensazione lascia il posto a una chiazza eritemato-edematosa di modeste dimensioni che, in breve tempo, si ricopre di vescicole tese, del diametro di 2-3 millimetri, raccolte a grappolo. Il contenuto, inizialmente limpido, poi si fa torbido. La confluenza di pi? vescicole pu? dar luogo ad una lesione simil-bollosa e a un fastidioso bruciore locale. Il processo infiammatorio acuto, se non si attua alcun trattamento, dura pochi giorni; poi le vescicole si asciugano formando una crosticina giallastra che rimane sulle labbra circa 10 giorni prima di scomparire.

I pericoli pi? temibili sono: la diffusione dell’herpes all’occhio, la sovrainfezione o la trasmissione da mamma a figlio durante o dopo la gravidanza. Per questo motivo una corretta gestione terapeutica e comportamentale ? essenziale. Alcune regole chiave:

– non grattare le vescicole, n? all?inizio n? per togliere la crosticina: in quest?ultimo caso il rischio di lesionare la pelle creando una cicatrice ?? molto alto;
– lavare spesso le mani con acqua e sapone, e soprattutto cercare di fare attenzione a non strofinarsi gli occhi;
durante la manifestazione cutanea, evitare alimenti troppo caldi o troppo freddi che possono provocare fastidio alle aree lesionate;
– se gi? in passato si ? sofferto di questo disturbo, usare la crema specifica prescritta dal medico, contenente una sostanza antivirale, da applicare sul punto delle labbra in cui si stanno formando le vescicole dell’herpes. Prima si inizia a usarla e pi? ? efficace: ai primi sintomi di – formicolio e bruciore quando si formano le bolle;
– consigliabile l?uso di creme ammorbidenti e protettive specifiche per le labbra che possono aiutare a lenire il fastidio temporaneo;
durante le prime esposizioni stagionali al sole, proteggere le labbra con un filtro solare ad alto fattore di protezione ed evitare di sostare sotto i raggi per ore;
– evitare metodi “casalinghi” come la pasta dentifricia o il succo di limone che, oltre a non dare risultati efficaci e sicuri, possono irritare ulteriormente la zona.

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