Paracalcitolo: nuova frontiera nella nefroprotezione

L’analogo della vitamina D Paracalcitolo, somministrato per via orale, potrebbe rappresentare la nuova frontiera nella nefroprotezione, almeno nei pazienti con diabete di tipo 2 con patologia renale cronica (CKD) da lieve a moderata e gi? sottoposti al trattamento con un ACE-inibitore e/o un sartano, specificatamente finalizzato, oltre che al controllo della pressione arteriosa eventualmente necessario, alla riduzione del rischio di degenerazione della funzionalit? renale. A segnalarlo, confermando le indicazioni di diversi trial precedenti, sono i risultati preliminari del VITAL (Selective Vitamin D Receptor Activator (VDRA) for albuminuria lowering study in type 2 diabetic nephropathy; D. de Zeeuw, R. Agarwal, M. Amdahl, D. Andress, P. Audhya, D. Coyne, T. Garimella, H.-H. Parving, Y Pritchett, G. Remuzzi, E. Ritz), studio internazionale randomizzato e controllato, in doppio cieco, intrapreso per verificare la possibilit? di contrastare l’evoluzione della nefropatia diabetica attivando in modo selettivo i recettori della vitamina D e riducendo, in questo modo, l’albuminuria residua (The Selective Vitamin D Receptor Activator for Albuminuria Lowering (VITAL) Study: Study Design and Baseline Characteristics; Lambers Heerspink HJ et al. Am J Nephrol 2009; 30:280-86). I dati preliminari del VITAL sono stati presentati durante il recente congresso dell’American Society of Nephrology (ASN), tenutosi a San Diego dal 27 ottobre al 1? novembre 2009.?In particolare, dei 281 soggetti coinvolti, nei trattati con Paracalcitolo capsule per 24 settimane ? stata osservata una riduzione media del rapporto albumina/creatinina urinario (RACU) superiore del 15% rispetto ai controlli. L’azione favorevole ? risultata di tipo dose-dipendente, con un maggior vantaggio per il gruppo che assumeva 2 microg/die di Paracalcitolo (RACU -18% vs placebo; p = 0,053) rispetto a coloro che ne ricevevano soltanto 1 microg/die (RACU -11% vs placebo; p = 0,229). La riduzione aggiuntiva dell’albuminuria veniva progressivamente meno tra 30 e 60 giorni dall’interruzione del trattamento a riprova che l’effetto osservato era legato alla terapia con l’attivatore dei recettori della vitamina D. ?Si tratta di un risultato importante perch? ? noto che per riduzioni dell’ordine del 20% del RACU si ottiene un apprezzabile rallentamento nell’evoluzione della nefropatia?, sottolinea Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Scienze farmacologiche Mario Negri di Bergamo. ?La protezione offerta da Paracalcitolo ? tanto pi? significativa poich? va a sommarsi a quella derivante dalla terapia di base con ACE-inibitori e/o sartani, insufficiente per un’ampia quota di pazienti, e potrebbe rivelarsi vantaggiosa anche per soggetti non diabetici con nefropatie di natura diversa?.

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L’infiammazione nell’ipertensione essenziale

L’infiammazione cronica ? un fattore chiave nell’inizio, progressione e implicazioni cliniche delle malattie cardiovascolari, inclusa l’ipertensione essenziale. Il processo flogistico consiste in una complessa interazione tra cellule infiammatorie, che porta all’espressione di molecole di adesione, citochine, chemochine, matrici di metalloproteasi e fattori di crescita. Ormai ? certo che in questo processo ? coinvolto il Sistema Renina Angiotensina (RAS), soprattutto tramite l’aumentata produzione locale di Angiotensina II (Ang II). L’Ang II aumenta la permeabilit? vascolare, partecipa al reclutamento delle cellule infiammatorie ed alla loro adesione all’endotelio attivato, regola la crescita delle cellule e la fibrosi. Un’ipotesi patogenetica possibile ? che l’Ang II, attivata dal SNS, provochi prima una vasocostrizione renale seguita poi da infiammazione tubulo- interstiziale, reclutamento di T linfociti, macrofagi, generazione di Ang II locale e ROS (Reactive Oxigen Species). Ci? porta ad un danno pre-glomerulare e ad una alterazione del bilancio vasocostrizione/vasodilatazione con ritenzione di sodio. I ROS sono implicati in ogni stadio dell’infiammazione, attivando multiple molecole di segnale intracellulari e fattori di trascrizione associati con le risposte infiammatorie, come il fattore nucleare kappa B e l’activator protein-1. Ma non ? solo l’Ang II ad essere implicata nei processi infiammatori vascolari: altri componenti, come l’aldosterone e/o i recettori mineralcorticoidi, inducono la produzione di ROS. ? probabile anche un ruolo dell’Endotelina 1 (ET1) come importante mediatore dell’infiammazione cronica e di crescente interesse si sta rivelando il rapporto tra ET1 e ROS. Anche se non ? ancora chiaro se l’evento iniziale sia l’ipertensione o lo stress ossidativo, questi dati potranno avere un importante impatto sulle future strategie terapeutiche.

Androulakis et al. Cardiology in Review (2009;17: 216-221)

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Pareri sull’utilit? preventiva della mammografia

Il tumore della mammella rappresenta il tumore pi? frequente nella donna; ogni anno nel mondo viene posta diagnosi di questa patologia in 1 milione di donne e oltre 500.000 sono le morti ad essa correlate. Nelle ultime 2 decadi si ? registrata una lieve, ma reale riduzione della mortalit? per cancro mammario, verosimilmente connessa ad una diagnosi pi? precoce e ad un miglioramento delle terapie.

A met? novembre 2009 la US Preventive Services Task Force (USPSTF) ha licenziato un aggiornamento delle linee-guida per lo screening del cancro mammario (Ann Intern Med 2009; 151: 716), contenente 2 raccomandazioni assai controverse, fonte di successive violente polemiche: 1) eliminazione della mammografia come test standard per le donne in et? compresa tra 40 e 49 anni (in considerazione del minor beneficio presente in questa fascia di et?) 2) esecuzione della mammografia con cadenza biennale ( e non annuale) dopo i 50 anni, per via del medesimo outcome clinico registrato con i 2 differenti ritmi di esecuzione. ? In realt? vi ? consenso che lo screening mammografico riduce la mortalit? da cancro mammario nell’et? compresa tra 40 e 74 anni; vi ? ancora ampio spazio per migliorare l’educazione sanitaria e limitare le disparit? di accesso ai servizi preventivi; ? noto che la mammografia ? gravata sia da falsi negativi (in particolare nei tumori della mammella estrogeno-recettori negativi) che da falsi positivi (con overdiagnosi, fonte di ulteriori accertamenti e stress).?L’American College of Radiology ha aspramente criticato la policy adottata dal USPSTF, interpretandola come una forma di razionamento delle risorse dedicate alla prevenzione ed un passo indietro nella lotta contro il tumore della mammella possibile fonte di morti evitabili.??Pi? equilibrato ? stato il commento apparso on line il 25 novembre u.s. sul New England Journal of Medicine, a firma di Partridge AH e Winer EP, che conclude con la considerazione che lo screening mammografico non ? di per s? ‘proibito’ nelle donne tra i 40 ed i 49 anni, ma va valutato in base ai rischi personali presenti considerando i pi? limitati benefici assoluti in questa fascia di et?. Vengono auspicate nuove metodiche di biologia molecolare e studi di associazione con il genoma per individuare con maggiore precisione i soggetti a rischio pi? elevato che possono giovarsi di misure preventive personalizzate.

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Implicazioni nell’uso nella TAC

In virt? della crescente accessibilit? agli esami e dei continui progressi tecnologici, l’utilizzo della TC nella diagnostica clinica ? significativamente aumentato negli ultimi anni. Molti ricercatori hanno espresso preoccupazioni circa le dosi crescenti di radiazioni ionizzanti a cui sono sottoposti i pazienti durante l’esecuzione di questi esami. Tuttavia, poco si conosce su che cosa pensino i pazienti a questo riguardo.

E’ stato recentemente pubblicato sugli Archives of Internal Medicine uno studio condotto da Caoili EM e collaboratori, del Dipartimento di Radiologia dell’Universit? del Michigan – Ann Arbor, volto a valutare il grado di conoscenza da parte dei pazienti circa le dosi di radiazioni ed i rischi connessi all’esecuzione di un esame TAC. Sono stati distribuiti oltre 750 questionari, ricevendo una risposta nel 38% dei casi. I pazienti coinvolti nell’indagine erano prevalentemente di sesso maschile (57%) ed avevano una et? media di 56 anni. La maggior parte aveva un grado di istruzione medio o elevato. La maggior parte dei soggetti intervistati (83%) aveva discusso con il medico le indicazioni all’esame TAC, ricevendo una spiegazione esauriente e con una perfetta comprensione di quanto spiegato. Tuttavia nei casi in cui l’esame non era stato discusso, 1/3 dei pazienti dichiarava di non averne compreso minimamente le indicazioni. Pur avendo consapevolezza che l’esame TAC ? fonte di radiazioni ionizzanti, la maggior parte dei soggetti intervistati non conosceva per nulla l’entit? della dose assorbita n? i rischi connessi. Comunque oltre il 40% dei soggetti esprimeva il desiderio di conoscere meglio il rapporto tra utilit? dell’esame e rischio ad esso correlato. Nello studio si ? documentato un trend di continua crescita nel coinvolgimento dei pazienti nelle decisioni mediche che li riguardano; ci? coinvolge principalmente i soggetti pi? giovani, con livello di istruzione pi? elevato e di sesso femminile.

Caoili EM et al. Archives of Internal Medicine 2009; 169: 1069

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Stenosi della renale: rivascolarizzare ? inutile

Nei pazienti con malattia nefrovascolare aterosclerotica, la rivascolarizzazione percutanea delle arterie renali presenta gravi rischi oltre a non aver offerto prove di un effettivo beneficio clinico. ? questo l?esito dello studio Astral (Angioplasty and stenting for renal artery lesions), condotto su 806 pazienti randomizzati a ricevere la terapia medica da sola (tipicamente statine, antiaggreganti piastrinici e antipertensivi) oppure associata alla rivascolarizzazione e i cui risultati sono stati pubblicati sul New England journal of medicine (2009; 361: 1953-1962). L?outcome primario era la funzione renale, valutata dal reciproco dei livelli serici di creatinina. Quelli secondari: pressione arteriosa, tempo intercorso fino al verificarsi di eventi maggiori renali e cardiovascolari, mortalit?. Follow-up mediano: 34 mesi. Durante un periodo di cinque anni, il tasso di progressione della disfunzione renale ? apparso pi? contenuto (e quindi favorevole) nel gruppo rivascolarizzazione rispetto all?altro (95% Ci: -0,002 a -0,13; P = 0,06). Inoltre, il tasso medio serico di creatinina ? risultato di 1,6 micromoli/l inferiore nel primo gruppo rispetto al secondo. Non si sono rilevate tra i due gruppi differenze significative relative alla pressione sistolica, mentre quella diastolica decresceva meno nei rivascolarizzati rispetto agli altri. I due gruppi, infine, avevano tassi simili di eventi renali, eventi cardiovascolari maggiori e morte (hazard ratio: 0,97, 0,94 e 0,90, rispettivamente). Gravi complicanze legate alla rivascolarizzazione, infine, si sono verificate in 23 pazienti, inclusi due decessi e tre amputazioni di dita o arti.
Fonte: New England journal of medicine

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Steatosi epatica non alcolica, diagnosi pi? facile

Diagnosi di steatosi epatica non alcolica? Sensibilmente pi? facile col test ematico FibroMax. Lo rivelano i dati preliminari dello studio VARES, presentati al 26? Congresso Nazionale della Societ? Italiana Medicina Generale (SIMG) appena conclusosi a Firenze.
Un semplice esame del sangue, il FibroMax, sui primi 67 pazienti arruolati nello studio VARES (VAlutazione del Rischio Evolutivo del paziente con Steatosi epatica non alcolica in medicina generale) ha evidenziato risultati interessanti, tra cui una steatosi severa nel 30% dei casi, rispetto ad una diagnosi ecografica di steatosi moderata, e una fibrosi di grado avanzato non diagnosticata nel 12% dei pazienti. ?Tutti casi sfuggiti alle analisi di routine”, spiega Ignazio Grattagliano, medico di Medicina generale, collaboratore dell’area gastroenterologica SIMG e coordinatore dello studio Vares. “I dati preliminari dello studio che presentiamo lo confermano: non sempre le indagini standard, come le transaminasi e l?ecografia, sono sufficienti a valutare la gravit? e la progressione della steatosi?. ?La steatosi epatica ? una malattia molto frequente nella popolazione generale”, spiega Enzo Ubaldi, responsabile nazionale dell?area progettuale gastroenterologica della SIMG, “e si manifesta spesso con un lieve rialzo degli enzimi epatici nel sangue (ad esempio ALT), ma la diagnosi ? oggi affidata all?ecografia. ? importante, quindi, individuare i casi che richiedono ulteriori accertamenti e cure da parte dello specialista prima che progrediscano verso forme croniche pi? gravi, quali fibrosi e cirrosi fino al carcinoma epatico, causa di morte nel 3% dei pazienti?. Alfredo Alberti, professore ordinario di Gastroenterologia all?Universit? di Padova, afferma: “La steatosi epatica non alcolica pu? innalzare i costi di gestione del paziente a causa del lungo periodo di latenza preclinico, ma la disponibilit? di un trattamento efficace e sicuro, anche non farmacologico, e la sua semplice valutazione con FibroMax potrebbero rappresentare un guadagno in tutti i sensi”. I 6 centri dello studio arruoleranno in collaborazione con altri medici ricercatori oltre 70 pazienti per centro (et? compresa tra i 18 e i 65 anni) con steatosi epatica non alcolica, diagnosticata con ecografia, per un totale di oltre 400 pazienti. ?Dovranno essere escluse patologie epatiche pi? gravi o neoplasie e infezioni o infiammazioni”, precisa Ubaldi. “Per questo, i pazienti saranno sottoposti ad una serie di esami preliminari, che prevedono un prelievo di sangue per la determinazione dei diversi parametri plasmatici che serviranno a definire meglio la malattia”. “I risultati parziali dello studio, relativi al 12% circa di pazienti che mostrano al FibroTest, analisi compresa nel FibroMax, un grado di fibrosi pi? alto di quello ipotizzato, sono in linea con quanto riportato in precedenti studi”, spiega Grattagliano, “e questo valida ulteriormente il Fibrotest. Ma l?altro dato, quello che riguarda i pazienti con steatosi pi? grave di quanto diagnosticato all?ecografia (30%), se confermato sull?intera popolazione dello studio, ? altrettanto interessante perch? indica sia la necessit? clinica di metodiche di indagine da affiancare all?ecografia sia l?urgenza in questi casi di attuare terapie preventive volte ad evitare l?evoluzione in steatoepatite ed in fibrosi. I pazienti con steatoepatite non alcolica sono, infatti, di interesse specialistico, ma possono essere selezionati gi? dal medico di famiglia, a cui ? affidata la prima diagnosi e la gestione delle forme non complicate. Se la malattia epatica ? ancora in fase iniziale, dieta, esercizio fisico e l?utilizzo di un integratore a base di silibina (estratto del cardo mariano), ad attivit? antiossidante e antifibrotica, in associazione a fosfatidilcolina (che ne favorisce l?assorbimento per via orale) e a vitamina E (ad azione antiossidante e stabilizzatore di membrana), possono contribuire a migliorare la condizione epatica. E lo stesso FibroMax potr? essere proposto in futuro per il follow-up dei pazienti con steatosi epatica non alcolica, analogamente a quanto gi? succede per il monitoraggio della steatosi alcolica o di quella causata da infezione da virus dell?epatite B o C?, conclude Grattagliano.
Fonte: XXVI Congresso Nazionale della Societ? Italiana Medicina Generale, Firenze 2009.

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Fegato grasso: test sul sangue evidenzia forme di progressione avanzata nel 30% dei pazienti

Un semplice esame del sangue, il FibroMax, sui primi 67 pazienti arruolati nello studio VARES (VAlutazione del Rischio Evolutivo del paziente con Steatosi epatica non alcolica in medicina generale) ha evidenziato risultati interessanti, tra cui una steatosi severa nel 30% dei casi, rispetto ad una diagnosi ecografica di steatosi moderata, e una fibrosi di grado avanzato non diagnosticata nel 12% dei pazienti. ?Tutti casi sfuggiti alle analisi di routine – ha affermato il dottor Ignazio Grattagliano, medico di medicina generale collaboratore area gastro-enterologica Societ? Italiana Medicina Generale (SIMG) e coordinatore dello studio Vares – I dati preliminari dello studio che presentiamo a questo 26? congresso annuale dei medici di famiglia inaugurato oggi a Firenze lo confermano: non sempre le indagini standard, come le transaminasi e l?ecografia, sono sufficienti a valutare la gravit? e la progressione della steatosi?.
?La steatosi epatica, o ?fegato grasso?, ? una malattia molto frequente nella popolazione generale ? ha spiegato il dottor Enzo Ubaldi, responsabile nazionale dell?area progettuale gastro-enterologica della SIMG. Si manifesta spesso con un lieve rialzo degli enzimi epatici nel sangue (ad esempio ALT), ma la diagnosi ? oggi affidata all?ecografia. ? importante, quindi, individuare i casi che richiedono ulteriori accertamenti e cure da parte dello specialista prima che progrediscano verso forme croniche pi? gravi, quali fibrosi e cirrosi fino al carcinoma epatico, causa di morte nel 3% dei pazienti?.
L?accumulo di grasso nel fegato pu? essere indotto dall?abuso di alcol o da infezioni virali, come l?epatite B o C, ma anche pi? semplicemente pu? essere il risultato di uno stile di vita inadeguato o di un diabete non controllato. In questo caso si parla di steatosi epatica non alcolica. Per valutare il grado di salute/malattia del fegato nello studio VARES, supportato da Ibi-Lorenzini insieme a Biopredictive e ai Laboratori Fleming, ? stato adottato il FibroMax, test che dall?elaborazione di diversi parametri ematici fornisce informazioni per quanto riguarda la presenza di steatosi, steatoepatite e fibrosi epatica.
?La steatosi non va sottovalutata perch?, anche se non d? sintomi o alterazioni ematiche evidenti, interessa oltre 20 milioni di italiani, un terzo della popolazione, e se non trattata pu? evolvere verso forme croniche pi? gravi, come la fibrosi e la cirrosi e contribuire all?insorgenza del carcinoma epatico – ha affermato Alfredo Alberti, Professore ordinario di Gastroenterologia all?Universit? di Padova – D?altra parte, la steatosi epatica non alcolica pu? innalzare i costi di gestione del paziente a causa del lungo periodo di latenza preclinico, ma la disponibilit? di un trattamento efficace e sicuro, anche non farmacologico, e la sua semplice valutazione con FibroMax potrebbero rappresentare un guadagno in tutti i sensi?.
I risultati preliminari sui 67 pazienti finora arruolati nello studio VARES sono presentati durante il simposio ?La steatosi epatica: vero o falso problema??, a cui partecipa in qualit? di moderatore e relatore il prof. Antonio Crax? dell?Universit? di Palermo, tra i massimi esperti delle malattie epatiche in Italia. Coordinatori dello studio sono proprio i medici di famiglia, referenti SIMG dell?area gastro-enterologica nei 6 centri dello studio, che arruoleranno in collaborazione con altri medici ricercatori oltre 70 pazienti per centro (et? compresa tra i 18 e i 65 anni) con steatosi epatica non alcolica, diagnosticata con ecografia, per un totale di oltre 400 pazienti.
?Dovranno essere escluse patologie epatiche pi? gravi o neoplasie e infezioni o infiammazioni ? ha precisato il dott. Ubaldi -. Per questo, i pazienti saranno sottoposti ad una serie di esami preliminari, che prevedono un prelievo di sangue per la determinazione dei diversi parametri plasmatici che serviranno a definire meglio la malattia.?
I risultati parziali dello studio, relativi al ?12% circa di pazienti che mostrano al FibroTest, analisi compresa nel FibroMax, un grado di fibrosi pi? alto di quello ipotizzato, sono in linea con quanto riportato in precedenti studi – ha spiegato il dr. Grattagliano – e questo valida ulteriormente il Fibrotest. Ma l?altro dato, quello che riguarda i pazienti con steatosi pi? grave di quanto diagnosticato all?ecografia (30%), se confermato sull?intera popolazione dello studio, ? altrettanto interessante perch? indica sia la necessit? clinica di metodiche di indagine da affiancare all?ecografia sia l?urgenza in questi casi di attuare terapie preventive volte ad evitare l?evoluzione in steatoepatite ed in fibrosi.
I pazienti con steatoepatite non alcolica sono, infatti, di interesse specialistico, ma possono essere selezionati gi? dal medico di famiglia, a cui ? affidata la prima diagnosi e la gestione delle forme non complicate. Se la malattia epatica ? ancora in fase iniziale, ?dieta, esercizio fisico e l?utilizzo di un integratore ampiamente studiato, come il Realsil, a base di silibina (estratto del cardo mariano), ad attivit? antiossidante e antifibrotica, in associazione a fosfatidilcolina (che ne favorisce l?assorbimento per via orale) e a vitamina E (ad azione antiossidante e stabilizzatore di membrana), possono contribuire a migliorare la condizione epatica ? ha concluso Grattagliano -. E lo stesso FibroMax potr? essere proposto in futuro per il follow-up dei pazienti con steatosi epatica non alcolica, analogamente a quanto gi? succede per il monitoraggio della steatosi alcolica o di quella causata da infezione da virus dell?epatite B o C?.

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Nuovo metodo italiano per valutare la cirrosi

Mano a mano che la cirrosi epatica diventa pi? grave, la permeabilit? dell’intestino aumenta. E lo fa in maniera misurabile. Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori del Dipartimento di medicina interna e dell’Istituto di medicina nucleare dell’universit? Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma, coordinato da Antonio Gasbarrini, docente di terapia medica. La scoperta rappresenta un importante passo in avanti per diminuire la mortalit? dei pazienti nelle condizioni pi? gravi e avanzate della malattia. Nel fegato di un paziente cirrotico – spiega una nota dell’universit? -??si formano aree cicatriziali che aumentano la pressione portale e di conseguenza dilatano i vasi capillari intestinali. Ed ? proprio a livello dei capillari che, a causa dell’aumento della pressione, aumenta la permeabilit? che provoca il passaggio nel sangue di elementi della flora batterica presente nell’intestino. Fenomeno chiamato ‘traslocazione batterica’.

“I batteri intestinali – sottolinea Gasbarrini – hanno una funzione molto importante perch? addestrano il nostro sistema immunitario e facilitano il processo metabolico. Ma sono batteri molto speciali: pi? del 70% di essi non si possono coltivare fuori da quell’ambiente molto estremo. Ed ? proprio per questo che ? fondamentale poter misurare il livello di permeabilit? intestinale, un’alterazione che causa traslocazione batterica ed ? associata al peggioramento della cirrosi epatica”. I ricercatori sono riusciti a misurare la permeabilit? grazie alla medicina molecolare. Ai pazienti sono state somministrate per bocca compresse di una molecola, l’EDTA, marcata con cromo-51. Per dimensioni, questa molecola non dovrebbe attraversare la parete intestinale, ma se la permeabilit? ? aumentata, anche questa molecola riesce a penetrare nell’organismo e finisce nelle urine”.

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Tendinite del bicipite: regole utili per la diagnosi e la decisione terapeutica

La tendinite del bicipite ? una affezione infiammatoria che coinvolge il tendine del capo lungo del muscolo bicipite. La tendinosi del bicipite ? causata dalla degenerazione del tendine in soggetti che svolgono attivit? con sollecitazione tendinea ripetuta, piuttosto che riferibile ad un normale processo di invecchiamento. Nella pratica clinica ? facile riscontrare questa condizione che ? stata oggetto di una recente revisione pubblicata sull’American Family Physician e orientata a fornire semplici regole utili al medico di famiglia per una corretta diagnosi e scelta terapeutica.
I pazienti affetti sia da tendinite che da tendinosi del bicipite, accusano un profondo dolore lancinante nella parte anteriore della spalla, provocato o aggravato da sovraccarico ripetitivo nel movimento del braccio. All’esame obiettivo ? rilevabile un punto doloroso, a livello del bicipite, quando il braccio ? posto a 10 gradi di rotazione interna. Gli individui con pi? probabilit? di sviluppare condizioni patologiche del tendine del bicipite sono i giovani adulti dai 18 ai 35 anni che svolgono attivit? sportiva regolare, nuoto, ginnastica e arti marziali. Una lesione secondaria del tendine del bicipite pu? derivare da instabilit? della scapola, delle sue strutture legamentose e da lassit? della capsula anteriore o posteriore. Negli individui pi? anziani, come gli atleti di et? superiore ai 35 anni o soggetti che non svolgono attivit? sportiva con pi? di 65 anni, la tendinite acuta del bicipite pu? essere causata da un uso eccessivo e improvviso, o all’uso ripetitivo che con il tempo determina una tendinosi del bicipite.
La causa pi? comune di tendinosi o tenosinovite del bicipite (infiammazione della guaina tendinea) ? da impingement primario, che si riferisce ad un urto meccanico sotto l’arco coraco-acromiale. Le cause includono l’osteofitosi dell’acromion, l’ispessimento del legamento coraco-acromiale, speroni osteoartrosici con interferenza del tendine del bicipite. La lesione della cuffia dei rotatori o SLAP (anteriore labbro superiore a quello posteriore) accompagna spesso la tendinite e la tendinosi del bicipite. Infatti di conseguenza alla lesione della cuffia il tendine del bicipite si espone all’arco coraco-acromiale che pu? determinare un impingement secondario. Negli atleti di et? superiore ai 35 anni, l’impingement primario da rottura della cuffia dei rotatori ? pi? frequente che negli atleti pi? giovani.
Per la visualizzazione globale del tendine bicipite, l’ecografia ? la procedura di imaging preferibile. Tuttavia, la risonanza magnetica o l’artro-TAC visualizzano meglio il tendine a livello intra-articolare e l’eventuale presenza di processi patologici.
L’iniezione di anestetico locale (ad esempio, lidocaina 1%, con o senza corticosteroide) nella guaina del tendine del bicipite pu? essere diagnostica, nonch? terapeutica e pu? essere utile per alleviare il dolore. Le opzioni di trattamento conservativo per la tendinite del bicipite comprendono riposo, l’applicazione di ghiaccio, analgesici orali come farmaci anti-infiammatori o paracetamolo, terapia fisica o iniezioni di corticosteroidi nella guaina del tendine bicipite.
Le 4 fasi di riabilitazione da attivare in soggetti che fanno attivit? atletica con spalla dolorosa sono:
1. riposo,
2. esercizi di stretching della scapola, cuffia dei rotatori e della capsula posteriore,
3. rafforzamento muscolare
4. programma di lancio progressivamente impegnativo.
L’esercizio fisico pu? essere avviato dopo che la spalla ? indolore. L’obiettivo dello stretching ? quello di ripristinare la gamma di movimenti senza produrre rigidit? o dolore in qualsiasi posizione. Perch? anche una perdita minore di movimento nella parte bassa della schiena e muscoli posteriori della coscia pu? causare uno squilibrio importante della spalla stabilizzante legamenti e la scapola, il programma di stretching deve inoltre avere come obiettivo i tendini del ginocchio e la parte bassa della schiena.
Una volta che la cuffia dei rotatori, rotatori scapolari e gran pettorale, gran dorsale e deltoide sono sufficientemente forti, pu? essere avviato un programma di lancio. Per i soggetti che non fanno attivit? atletica, la riabilitazione ? simile, con meno enfasi del punto 4 (lancio) del programma riabilitativo.
Il clinico dovrebbe prendere in considerazione la chirurgia se il trattamento conservativo non si traduce in un miglioramento dopo 3 mesi, o se vi sono gravi danni al tendine del bicipite. Le opzioni comprendono la rimozione delle strutture che determinano l’impingement primario e secondario, e la riparazione del tendine del bicipite, se necessario. Se la rottura del tendine del bicipite ? <50%, ? indicato il debridement chirurgico.
Per lesioni gravi o rottura, si considera la tenodesi , con l’attaccamento del tendine del bicipite al legamento omerale con ancore di sutura o viti. Questa procedura pu? essere eseguita nei pazienti di et? inferiore ai 60 anni, cos? come in pazienti attivi, atleti, lavoratori manuali, e pazienti che non accettano un rigonfiamento delle masse muscolari al di sopra del gomito. Per i pazienti sedentari > di 60 anni che presentano una rottura del tendine del bicipite, la procedura di scelta ? la tenotomia con rimozione del tendine del bicipite dal legamento gleno-omerale e senza perdita significativa di funzionalit? del braccio.
Bibliografia
? Churgay CA Diagnosis and treatment of biceps tendinitis and tendinosis Am Fam Physician. 2009;80(5):470-6.

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Il referto ecografico fetale non ? infallibile

Quattro malformazioni fetali su dieci non sono visibili, ma spesso i futuri genitori si aspettano troppo da una ecografia. Cos? si moltiplicano le denunce per presunti errori di diagnosi prenatale. “Grazie all’ecografia abbiamo gli occhi puntati sul feto, ma non possiamo vedere tutto. I futuri genitori sono male informati, si aspettano troppo da una ecografia. Ecco perch? aumentano le denunce per mancata diagnosi prenatale. Denunce che poi nel 90% dei casi non portano ad alcuna condanna. Bisogna fare chiarezza”. Lo afferma Claudio Giorlandino, presidente della Sidip (Societ? italiana di diagnosi prenatale e medicina materno fetale). Sulla base di studi europei su sensibilit? ed efficacia dell’ecografia prenatale si ? scoperto che la percentuale di diagnosi corrette per malformazioni fetali non supera, per le pi? importanti, il 60%. E le anomalie pi? piccole non si vedono che nel 20% dei casi. “? bene dire chiaramente – sottolinea Giorlandino – che ? impossibile avere la certezza assoluta che il nascituro sia al riparo da tutte le possibili anomalie fetali quando gli esami prenatali hanno dato esito positivo”. L’ecografo ? uno strumento fondamentale per studiare l’andamento della gravidanza, “ma – avverte il ginecologo – non possiamo dare la certezza che il bambino che verr? al mondo sar? perfetto”. Secondo Giorlandino, il progresso della medicina, specie nella diagnostica, ha fatto alzare il livello di aspettativa dei futuri genitori i quali credono che un’ecografia possa mostrare ogni tipo di eventuale malformazione fetale.

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