Evidenze cliniche della maggiore efficacia della Lattoferrina per os rispetto al Solfato ferroso nell?ipoferremia e anemia da carenza di ferro in gravidanza

L?ipoferremia e l?anemia da carenza di ferro rappresentano in gravidanza un serio problema ed un rischio per la salute della madre e del neonato. ? stato condotto uno studio clinico randomizzato, in aperto, con l?obiettivo di valutare l?effetto terapeutico della somministrazione orale della Lattoferrina ( Lattoglobina ) rispetto a quella con Solfato ferroso nella prevenzione e cura dell?ipoferremia e anemia da carenza di ferro in donne in gravidanza.

Sono state arruolate e randomizzate 143 donne con gravidanza non complicata, affette da ipoferremia ed anemia da carenza di ferro, e divise in modo casuale in 3 gruppi:

Gruppo 1: trattamento per os con 100 mg di Lattoglobina, due volte al giorno lontano dai pasti;

Gruppo 2: trattamento per os con una tavoletta contenente 520 mg di solfato ferroso una volta al giorno;

Gruppo 3: gruppo di controllo, comprendente donne che rifiutavano qualsiasi terapia.

In tutte le donne, prima e dopo 30 giorni di trattamento, ? stato controllato il numero dei globuli rossi, la concentrazione dell?emoglobina, del ferro serico totale e della ferritina sierica.

Come atteso, nelle donne che hanno rifiutato il trattamento, dopo 30 giorni i valori di tutti i parametri considerati sono risultati diminuiti, anche se con diversa significativit?.

Nelle donne trattate per 30 giorni con Solfato ferroso ? aumentata significativamente solo la concentrazione dell?emoglobina, mentre il numero dei globuli rossi e la concentrazione del ferro serico totale non sono risultati modificati.
La ferritina sierica, invece, ? diminuita significativamente.

Nelle donne trattate per 30 giorni con Lattoglobina, i valori dei globuli rossi, dell?emoglobina, del ferro sierico totale e della ferritina sierica sono aumentati in modo altamente significativo ( p<0.0001 ). Riguardo alla valutazione della tollerabilit?, le donne trattate con Solfato ferroso hanno lamentato i classici eventi avversi di questa terapia e 8 di esse hanno abbandonato lo studio, mentre nessun effetto indesiderato ? stato riferito dalle donne trattate con Lattoglobina. La Lattoglobina somministrata per os in gravidanze associate a stati di ipoferremia ed anemia da carenza di ferro, ha mostrato di essere molto efficace senza indurre alcun effetto indesiderato. La sua potente azione nel contrastare sia l?ipoferremia che l?anemia da carenza di ferro non pu? essere attribuita solo alla quantit? di ferro apportato dalla Lattoglobina somministrata, peraltro molto inferiore a quella somministrata via Solfato ferroso, ma ad un pi? complesso meccanismo che coinvolge tutti i fattori chiave dell?omeostasi sistemica del ferro.
Paesano R et al, Il Ginecologo, 2008

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Nuovi antitrombinici orali nella fibrillazione atriale

La terapia anticoagulante con antivitamina K ? raccomandata dalle linee guida internazionali ed ampiamente utilizzata, nei pazienti con fibrillazione atriale, per la prevenzione dello stroke e di altre complicanze emboliche sistemiche
Bench? di provata efficacia, questa terapia comporta la necessit? di un attento monitoraggio per garantire adeguati livelli di anticoagulazione, ed ? gravata dal rischio di complicanze emorragiche maggiori. Fra i nuovi antitrombinici orali, che non richiedono il monitoraggio dell’attivit? anticoagulante, dabigatran ? recentemente entrato nell’utilizzo clinico per la profilassi del tromboembolismo venoso dopo interventi di chirurgia ortopedica maggiore. Nello studio RE-LY, in corso di pubblicazione sul numero del 17 settembre del New England Journal of Medicine, circa 18.000 pazienti con fibrillazione atriale e a rischio di stroke, sono stati trattati per una durata mediana di 2 anni, con warfarin o dabigatran, quest’ultimo alle dosi 110 mg o 150 mg b.i.d. Nel gruppo warfarin, la percentuale media di periodo di studio durante il quale l’INR risultava in range terapeutico, ? risultata del 64%. La frequenza di complicanze tromboemboliche per anno (stroke o embolia sistemica) ? stata di 1.69% nel gruppo warfarin, 1.53% nel gruppo trattato con dabigatran 110 mg (p < 0.001 per non inferiorit?), e 1.11% nei pazienti che avevano ricevuto dabigatran 150 mg (p < 0.001 per superiorit? vs warfarin). Un episodio di sanguinamento maggiore si ? verificato su base annua nel 3.36% dei pazienti trattati con warfarin, e nel 2.71% (p=0.003) e 3.11% (p=0.31) dei pazienti in terapia con dabigatran 110 o 150 mg b.i.d., rispettivamente. I risultati di questo studio sembrano supportare la prospettiva che nuovi, pi? maneggevoli trattamenti anticoagulanti orali, possano in prospettiva sostituirsi agli antivitamina K attualmente utilizzati. Nello specifico, dabigatran alla dose di 110 mg b.i.d. ha presentato efficacia simile e minore incidenza di sanguinamenti maggiori rispetto a warfarin, mentre la dose di 150 mg b.i.d. ha consentito di conseguire un minor numero di complicanze tromboemboliche, a parit? di manifestazioni emorragiche. Lo studio non ? stato quindi in condizione di formulare un suggerimento definito e sistematico sulla dose di dabigatran ottimale, poich? le due dosi testate hanno presentato un beneficio clinico netto (eventi vascolari maggiori, sanguinamenti maggiori, mortalit?) sostanzialmente simile. Lo scenario futuro potrebbe prevedere una scelta della dose in funzione delle caratteristiche del paziente, sulla base di criteri peraltro da definire. NEJM (10.1056/NEJMoa0905561)

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Over-80 con aritmia: anticoagulanti orali efficaci

Una terapia anticoagulante orale adeguatamente somministrata ? in grado di ridurre il rischio di sanguinamento anche in pazienti con fibrillazione atriale in et? molto avanzata. Per quest?opzione terapeutica si confermano, perci?, efficacia e sicurezza anche in una fascia di soggetti che, in futuro, sar? sempre pi? sottoposta a trattamenti medici, visto il constante aumento della vita media e il progressivo invecchiamento della popolazione.
Il dato viene da uno studio recente, apparso sul Journal of the American College of Cardiology (2009, 54:999-1002), condotto da autori italiani (Daniela Poli et al). Gli studiosi hanno esaminato 783 pazienti in trattamento con anticoagulanti orali, di et? inferiore o superiore a 80 anni, tutti affetti da fibrillazione atriale. Nel corso del follow up, 94 pazienti hanno manifestato episodi di sanguinamento con un?incidenza di 3,7/100 pazienti/anno e 37 di questi sono stati di grado maggiore (1,4/100 pazienti/anno). Il tasso di questa complicanza ? rimasto entro valori accettabili anche negli over-80, anche se si ? osservata una differenza tra i due gruppi esaminati: nei pazienti pi? giovani gli episodi maggiori sono stati dello 0,9/100 pazienti/anno, mentre negli ultraottantenni dell?1,9/100 pazienti/anno. Una storia di eventi cerebrali ischemici si ? dimostrato un fattore di rischio per il sanguinamento. Gli autori dello studio sottolineano come i pazienti esaminati sono stati monitorati strettamente fin dall?inizio della terapia anticoagulante. Non sussisterebbe alcuna possibilit?, perci?, che le complicanze emorragiche di grado maggiore o minore possano essere state sottostimate.
Fonte: Journal of the American College of Cardiology

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Meno fibrillazione atriale con amiodarone

La somministrazione di dronedarone risulta meno vantaggiosa rispetto a quella di amiodarone nella riduzione della fibrillazione atriale (Af). ? quanto emerge dall’analisi sistematica di 9 trial clinici in cui l’effetto di questi farmaci ? stato valutato in pazienti con Af ricorrente. In particolare, 4 studi randomizzati controllati con placebo hanno riguardato l’impiego di dronedarone, altri 4 quello di amiodarone e, infine, un ultimo trial ha comparato efficacia e sicurezza dei due farmaci. Attraverso modelli “random-effect” ? stato possibile osservare una significativa riduzione degli episodi di Af nei pazienti trattati con amiodarone rispetto al gruppo placebo (odds ratio: 0,12). Il dronedarone non ha fatto registrare, invece, alcun vantaggio terapeutico rispetto al placebo (odds ratio: 0,79). Analisi di regressione logistica, attraverso la comparazione di tutti e nove gli studi, hanno consentito di evidenziare un’efficacia superiore dell’amiodarone rispetto al dronadone (odds ratio: 0,49). Di contro, l’incidenza sia della mortalit? sia degli effetti collaterali sono risultati maggiori nel trattamento con amiodarone rispetto a quello con dronedarone (odds ratio: 1,81) (L.A.).

J Am Coll Cardiol, 2009; 54:1089-1095

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Celiachia: lieve aumento della mortalit

Pochi studi sono stati condotti finora sulla mortalit? nei pazienti celiaci; analoga carenza di dati su un eventuale aumento del rischio di morte si ha nei soggetti senza atrofia dei villi ma positivi per la presenza in circolo di anticorpi antiendomisio o antigliadina (una condizione detta celiachia “latente”) oppure con infiammazione non specifica dell’intestino tenue. Per compensare questa lacuna, ? stato effettuato un ampio studio retrospettivo di coorte, con dati raccolti da biopsie del duodeno e del digiuno, in un periodo compreso tra il luglio del 1969 e il febbraio del 2008, effettuate in 26096 pazienti celiaci e 13306 soggetti con infiammazione del tenue senza atrofia dei villi, provenienti da 28 dipartimenti di patologia in Svezia; una terza coorte di individui era rappresentata da celiaci latenti (n=3719) provenienti da 8 ospedali universitari. Mediante un collegamento con il Registro svedese della popolazione generale, ? stato fatto un confronto con controlli analoghi per et? e sesso. I valori di mortalit? sono risultati moderatamente maggiori in tutte e tre le coorti, rispetto ai controlli, con il valore pi? alto di hazard ratio nei soggetti con infiammazione (Hr 1,72) e livelli simili negli altri due gruppi (1,39 e 1,35, rispettivamente nei celiaci e nei “latenti”). Si suppone che la malnutrizione possa spiegare l’aumento di mortalit?, anche se le principali case di exitus nei celiaci sono state malattie cardiovascolari e neoplasie. (A.Z.)

Jama, 2009; 302(11):1171-1178

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Identificato nuovo marker predittivo di diabete 2

I livelli della globulina legante l’ormone sessuale (Shbg) possono predire il rischio di diabete di tipo 2 sia negli uomini sia nelle donne. Lo stabilisce uno studio caso-controllo, pubblicato su New England Journal of Medicine, che ha considerato da un lato donne in postmenopausa, non sottoposte ad alcuna terapia ormonale, partecipanti al Women’s Health Study (359 affette da diabete di tipo 2 e 359 controlli) e dall’altro una coorte indipendente di uomini del Physicians’ Health Study II (170 affetti da diabete di tipo 2 e 170 controlli). Tra le donne, i livelli plasmatici della Shbg pi? elevati sono risultati associati al rischio pi? basso di diabete 2 (odds ratio: 1 per il primo, ossia il pi? basso, quartile di livelli plasmatici; 0,16 per il secondo quartile; 0,04 per il terzo e 0,09 per il quarto). Un risultato paragonabile ? stato osservato nella coorte di uomini. Analisi del polimorfismo genetico di Shbg hanno mostrato che il 10% dei livelli pi? alti di Shbg ? presente in individui con la variante rs 6259 mentre il 10% dei livelli pi? bassi in quelli con la variante rs 6257. Entrambi i polimorfismi presentano un’associazione al rischio di diabete direttamente proporzionale alla loro correlazione con i livelli plasmatci di Shbg. ?Saranno necessari ulteriori studi per stabilire in maniera pi? precisa i vantaggi clinici offerti dai polimorfismi del gene Shbg e dai livelli plasmatici della proteina nella stratificazione e nella gestione del rischio di diabete di tipo 2? ha dichiarato Eric L. Ding del Departments of Nutrition and Epidemiology, Harvard School of Public Health di Boston. (L.A.)

New England Journal of Medicine 2009, 361:1152-1163

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Sintomi che anticipano il ca ovarico

Diagnosticato in fase iniziale (stadio I o II) il tumore ovarico presenta una percentuale di sopravvivenza dell’80-90%, contro il 25% degli stadi avanzati, tuttavia solo il 30% viene scoperto in fase precoce. Non ci sono test di screening efficaci, ma la presentazione dei sintomi spesso avviene presso il medico di medicina generale. Per identificare e quantificare tali sintomi ? stato condotto uno studio caso-controllo sulle visite dal medico di base, un anno prima della diagnosi, di 212 donne di almeno 40 anni con malattia e 1.060 controlli. L’analisi multivariata ha associato sette sintomi al tumore ovarico: distensione addominale, sanguinamento postmenopausale, aumento della frequenza minzionale, perdita di appetito, dolore addominale, sanguinamento rettale, gonfiore addominale. Tutti i sintomi presentavano valori predittivi positivi sotto l’1%, a eccezione della distensione addominale che aveva un valore predittivo positivo del 2,5%. Ci? significa che comporta il rischio maggiore e richiede un’immediata indagine di approfondimento. Ma per ora la distensione addominale non ? inclusa nella linee guida per un indagine urgente, se cos? fosse alcune donne potrebbero avere la diagnosi accelerata di molti mesi. Proprio per questo gli autori sono convinti che questi dati forniscano strumenti per selezionare le pazienti da sottoporre a ulteriori indagini, sia per i medici sia per chi si occupa di linee guida. (S.Z.)

BMJ 2009;339:b2998

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Ca mammario: artralgia con inibitori delle aromatasi

L’impiego degli inibitori delle aromatasi in pazienti in postmenopausa affette da carcinoma mammario, incrementerebbe il rischio sia della sindrome del tunnel carpale sia di artralgia. Lo stabiliscono due studi pubblicati su The Journal of Clinical Oncology. Il primo, il trial Atac (Arimidex, Tamoxifen, Alone or in Combination) ha mostrato un incremento del rischio di sindrome del tunnel carpale maggiore con terapie a base di anastrazolo rispetto a quelle con tamoxifen (2,6% vs 0,7%). Il rischio ? apparso pi? elevato, quando il trattamento con anastrozolo ha fatto seguito a terapia ormonale o chemioterapia. Secondo i dati riportati nel secondo studio, invece, circa il 32% delle pazienti con carcinoma mammario, trattate con inibitori delle aromatasi, svilupperebbe artralgia o vedrebbero aggravata una condizione artralgica preesistente, soprattutto a livello dei legamenti del polso (70%), del ginocchio (70%) e della mano (63%).
Journal of Clinical Oncology 2009.

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Tensione mammaria spia di rischio in corso di TOS

E’ abbastanza frequente (dal 10 al 25% dei casi) che nelle donne in post-menopausa l’inizio di un trattamento sostitutivo con estrogeni coniugati + medrossiprogesterone (TOS), sia accompagnato da una fastidiosa tensione mammaria che tra l’altro ? stata correlata anche a modificazioni mammografiche della densit? della ghiandola. Su tale base i colleghi del Dipartimento di Medicina dell’Universit? di Los Angeles hanno voluto rivisitare i dati del Women’s Health Initiative Estrogen – Progestin Trial, con lo scopo di valutare se il sintomo potesse essere considerato un fattore prognostico per l’insorgenza del tumore mammario. La loro rivalutazione ha consentito di giungere alle seguenti conclusioni:
? la tensione mammaria ? significativamente correlata con la TOS tanto che, pur presente anche nel gruppo di controllo, si ? riscontrata in modo significativamente maggiore nel gruppo in terapia sostitutiva
? le donne che la manifestano hanno caratteristiche tali da essere classificate, secondo il modello Gail, fra quelle a basso rischio di insorgenza di cancro al seno
? la comparsa della tensione mammaria al momento dell’inizio della TOS ? tuttavia correlabile ad un significativo aumento del rischio di cancro mammario (hazard ratio 1,48; 95% CI 1,08-2,03; P=0.02).
? nel gruppo placebo l’incidenza della sintomatologia non ? risultata essere differente nel gruppo delle pazienti che non svilupperanno in seguito il tumore rispetto a quelle che invece lo svilupperanno
? la sensibilit? e la specificit? del sintomo per predire l’insorgenza del cancro mammario invasivo sono risultate rispettivamente del 41 e 64%, sostanzialmente sovrapponibili a quelle del modello Gail che prevede la valutazione di molteplici variabili. Appare ovvia la raccomandazione di non sottovalutare una fastidiosa tensione mammaria nelle pazienti in TOS.
Arch Intern Med. 2009;169(18):1684-1691

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Trattamento dell?ipertiroidismo: gravi danni epatici indotti da Propiltiouracile

L?FDA ( Food and Drug Administration ) ha informato i medici del rischio di gravi danni epatici, tra cui insufficienza epatica e morte, con l?uso di Propiltiouracile nei pazienti sia adulti sia pediatrici.

Le segnalazioni, giunte all?AERS ( Adverse Event Reporting System ), stanno a indicare l?esistenza di un aumentato rischio di epatotossicit? rispetto al Metimazolo ( Tapazole ).

Sebbene entrambi i farmaci siano indicati nel trattamento dell?ipertiroidismo dovuto alla malattia di Graves, i medici dovrebbero attentamente considerare quale farmaco iniziare in un paziente in cui ? stato recentemente diagnosticata la malattia di Graves.
Inoltre, i medici devono strettamente monitorare i pazienti in terapia con Propiltiouracile per i sintomi e i segni di danno epatico, soprattutto durante i primi 6 mesi dopo l?inizio della terapia.

Il Propiltiouracile e il Metimazolo sono stati approvati nel 1947 e nel 1950, rispettivamente.

L?FDA ha identificato 32 casi ( 22 adulti e 10 pazienti in et? pediatrica ) di grave danno epatico associato all?uso del Propiltiouracile.
Tra gli adulti ci sono stati 12 morti e 5 trapianti di fegato. Tra i pazienti pediatrici si sono verificati 6 trapianti di fegato e c?? stato un caso fatale.

Per il Metimazolo sono stati segnalati 5 casi di grave danno epatico che hanno interessato pazienti adulti; 3 casi hanno avuto esito fatale.

In generale, il Propiltiouracile ? considerato un farmaco di seconda linea, con l?eccezione dei pazienti allergici o intolleranti il Metimazolo.

Rari casi di embriopatia, tra cui aplasia cutis, sono stati riportati con l?uso del Metimazolo durante la gravidanza, mentre nessun caso ? stato riportato con il Propiltiouracile. Pertanto il Propiltiouracile pu? essere pi? appropriato per i pazienti con malattia di Graves che sono nel primo trimestre di gravidanza.

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