Prestazioni fisioterapiche solo se c’è il fisiatra

Il fatto
La Sezione regionale Veneto dell’Associazione italiana fisioterapisti ha impugnato due delibere adottate dalla Regione, ritenendole in contrasto con la normativa statale, in quanto delineano un ruolo del fisioterapista meramente esecutivo e privo di autonomia rispetto a quello del fisiatra, al quale attribuiscono non solo il compito di effettuare la diagnosi, ma anche quello di stabilire le specifiche prescrizioni oggetto del programma riabilitativo individuale.

Profili giuridici
Il Consiglio di Stato ha chiarito come la normativa nazionale di riferimento vada intesa nel senso di prevedere la possibilità per il fisioterapista di prestare la propria attività, avendo come riferimento le diagnosi e le prescrizioni del medico, sia autonomamente che in équipe, ma solo in funzione esecutiva delle prescrizioni mediche. Pertanto, l’autonomia del professionista sanitario si può esplicare solo nel presupposto dell’esistenza delle prescrizioni indicate dal fisiatra, quale coordinatore dell’equipe riabilitativa.

 827 total views

Siuro: Psa, spezzare binomio sovradiagnosi-sovratrattamento

«Le considerazioni dell’American college of physicians (Acp) sull’impiego del Psa come screening di popolazione riprendono un dibattito che dura da molti anni». Lo ricorda Giario Conti, responsabile U.O. di Urologia all’Ospedale S.Anna di Como e presidente della Società italiana di urologia oncologica (Siuro). «Mentre la mammografia e la ricerca del sangue occulto nelle feci sono stati valutati idonei a scoprire precocemente il rischio, rispettivamente, di cancro della mammella e del colon con un rapporto favorevole tra costo (economico/biologico/psicologico) e beneficio, nel caso del Psa tale vantaggio non sembra essere stato raggiunto». Esistono, infatti, tumori prostatici che non richiederebbero il trattamento in quanto non in grado di influire sulla sopravvivenza del paziente. «Effettivamente l’overtreatment è insito nello screening e ciò costituisce un problema nella comunicazione con il paziente. Andrebbe in realtà spezzato il binomio overdiagnosis-overtreatment» prosegue Conti. «Inoltre, a tutt’oggi, non vi è nemmeno condivisione sull’età in cui eventualmente fare lo screening: per l’Acp è inutile prima dei 50 anni, altri sostengono che tale limitazione è ingiustificata». L’argomento, peraltro, era stato già affrontato due anni fa dalla Siuro – dopo la pubblicazione di due grandi screening (uno Usa, l’altro europeo) – con la stesura di un decalogo ancora attuale «in cui si afferma» spiega il presidente Siuro «che, per ora, non esistono dati per giustificare uno screening di massa, ma che sicuramente il test è indicato in alcune categorie di pazienti “a rischio” per familiarità, sintomatologia urinaria, etnia (soggetti afroamericani). Se poi è il paziente a chiedere l’esame, occorre dare l’informazione corretta sul significato del test e sulle possibili conseguenze della sua effettuazione, come ora conferma l’Acp». L’iter diagnostico-terapeutico, infatti, può essere pesante, e ciò è grave se non vi è la certezza della necessità di trattamento. «Per ovviare a ciò sono stati avviati programmi di sorveglianza attiva che consentono di identificare i pazienti da tenere in osservazione senza intervenire subito. Una pratica che potrebbe divenire meno pressante quando saranno disponibili, oltre al Pca-3 e al Phi, nuovi marker (o panel di marcatori) biomolecolari o genetici più precisi nella predizione del rischio su tempi lunghi».

 1,007 total views

Nel fegato adulto steatosi e fibrosi hanno prognosi diverse

La steatosi epatica non alcolica (Nafld) non accresce la mortalità tra gli adulti, ma la fibrosi sì. Ecco in sintesi le conclusioni di uno studio pubblicato su Hepatology, frutto della collaborazione trala Mayo Clinicdi Rochester, nello stato di New York, e l’Università di Ulsan a Seul

La steatosi epatica non alcolica (Nafld) non accresce la mortalità tra gli adulti, ma la fibrosi sì. Ecco in sintesi le conclusioni di uno studio pubblicato su Hepatology, frutto della collaborazione tra la Mayo Clinic di Rochester, nello stato di New York, e l’Università di Ulsan a Seul, in Corea del Sud. «La Nafld è frequente negli adulti e tra i suoi fattori di rischio ci sono obesità, diabete e dislipidemie» spiega Terry Therneau, ricercatore della Mayo e coordinatore dello studio, sottolineando come nei paesi occidentali vi sia un progressivo aumento dell’obesità, che oltreoceano è più che raddoppiata nell’ultimo quarto di secolo. «La Nafld può assumere diversi aspetti, da una semplice infiltrazione grassa del fegato – la steatosi – alla steato-epatite non alcolica, la cosiddetta Nash, in cui si aggiunge una componente infiammatoria, con vari gradi di fibrosi e cirrosi» riprende il ricercatore. I pazienti con steatosi semplice sembrano avere una prognosi benigna, mentre chi ha la Nash può sviluppare una fibrosi progressiva a prognosi infausta. Per studiare l’impatto a lungo termine della Nafld e della sua componente fibrotica sulla mortalità, il team ha utilizzato i dati del terzo National Health and Nutrition Examination Survey (Nhanes III), uno studio di coorte svolto dal National Center for Health Statistics con i Centri per il controllo e prevenzione delle malattie (Cdc), tra 1988 e 1994, con follow up sulla mortalità fino al 2006. La Nafld è stata diagnosticata mediante ecografia e la fibrosi usando marcatori combinati come il Nafld Fibrosis Score (Nfs), un punteggio composito che include età, indice di massa corporea, conta piastrinica, albumina, rapporto fra le transaminasi Ast e Alt, e presenza di diabete. Quali i risultati? Degli 11.154 partecipanti, il 34% aveva Nafld e, tra questi, l’Nfs era negativo nel 72% dei casi e positivo per fibrosi avanzata nel 3%. Ma la buona notizia è che dopo 15 anni di follow-up, la Nafld non aumenta la mortalità, che invece cresce, specie per cause cardiovascolari, con l’avanzare della fibrosi. «I dati confermano che la Nafld da sola è benigna» dice Therneau. «Bisogna invece seguire con attenzione l’evoluzione della fibrosi, integrando nel follow up interventi di riduzione del rischio cardiovascolare» conclude l’esperto.

Hepatology. 2013 Apr;57(4):1357-65. doi: 10.1002/hep.26156.

 1,121 total views

Cancro al seno, il dolore post-chirurgico persiste con fluttuazioni

Una volta rimosso il cancro al seno, rimane il dolore che non solo può persistere fino a 5-7 anni dalla chirurgia, ma varia nel tempo, diminuendo o aumentando a seconda dei casi. Ecco le conclusioni di un articolo pubblicato su British Medical Journal

Una volta rimosso il cancro al seno, rimane il dolore che non solo può persistere fino a 5-7 anni dalla chirurgia, ma varia nel tempo, diminuendo o aumentando a seconda dei casi. Ecco le conclusioni di un articolo pubblicato su British Medical Journal da un gruppo di ricercatori del Rigshospitalet, Università di Copenhagen, in Danimarca. «Il carcinoma mammario è il tumore più comune tra le donne, con oltre un milione di nuovi casi l’anno» afferma Henrik Kehlet, professore di chirurgia al Rigshospitalet e coordinatore dello studio. Fortunatamente la prognosi è migliorata negli ultimi 30 anni, e la sopravvivenza a cinque anni è salita a quasi l’85%. Di conseguenza la popolazione di sopravvissute a lungo termine è aumentata, e con essa è cresciuta la necessità di conoscere i più frequenti esiti a lungo termine del trattamento della malattia. «Uno di questi è il dolore, che persiste dopo la chirurgia con una frequenza compresa tra il 25 e il 60%, a seconda degli studi considerati» riprende il chirurgo danese, precisando che il dolore di cui si parla è quello localizzato dentro e intorno alla zona operata e che dura oltre 3 mesi dopo l’intervento. I disturbi sensoriali influiscono in modo negativo sulla qualità della vita e hanno conseguenze economiche sull’assistenza sanitaria. «Tuttavia, nonostante la sua importanza, non esistono studi a lungo termine sull’argomento» osserva Kehlet che, con i colleghi, ha esaminato le caratteristiche e l’evoluzione del disturbo sensoriale in 5.119 donne operate in Danimarca tra il 2005 e il 2006 per carcinoma mammario. «Nel 2008 è stato inviato alle donne operate un questionario, restituito da 3.253 delle pazienti, e nel 2012 ne è stato inviato un altro, riconsegnato da 2.411 partecipanti» spiega il ricercatore. I dati raccolti indicano che la prevalenza di dolore persistente varia dal 22 al 53% a seconda del tipo di intervento. Ma il fatto interessante è che per un terzo delle donne che lamentava dolore nel 2008 il male scompariva nel 2012. Viceversa, un sesto di quelle che non sentiva dolore nel 2008 lo ha riferito nel 2012. «Il dolore, quindi, fluttua nel tempo, e i fattori di rischio sono la dissezione linfonodale ascellare, rispetto alla biopsia del linfonodo sentinella, e l’età inferiore a 49 anni» conclude il chirurgo, auspicando studi di approfondimento sui meccanismi dei disturbi sensoriali dopo chirurgia mammaria.

BMJ 2013;346:f186

 952 total views

Astenia nella donna in premenopausa con ferritina bassa. Efficacia del trattamento con ferro endovena

L’astenia è un sintomo di comune riscontro nella pratica clinica del MMG e interessa circa un terzo di tutta la popolazione. Analogamente la carenza di ferro, riscontrabile in un quarto delle donne con mestruazioni regolari, è caratterizzata da concentrazioni di ferritina serica <15 ng/ml.  La donna è particolarmente a rischio per entrambe queste condizioni e numerosi studi hanno prospettato che il deficit di ferro possa essere alla base dell’astenia. Esistono evidenze relative all’efficacia terapeutica della supplementazione orale con ferro nel migliorare l’astenia in donne non anemiche con riduzione delle riserve parenchimali e/o midollari di ferro1, 2 11 13. Purtroppo la via di somministrazione orale di ferro è condizionata dagli effetti collaterali gastrointestinali e dal fatto che solo il 10% del ferro assunto è assorbito dall’organismo. Inoltre capire quanto questo approccio terapeutico possa ridurre l’astenia è fortemente  condizionato dall’effetto placebo.

Uno studio randomizzato controllato, in doppio cieco, verso placebo e pubblicato su Bloodsembra dirimere la questione. Allo scopo sono state analizzate 90 donne in pre-menopausa che presentavano astenia, ferritina sierica <50 ng/ml, ed emoglobina >12,0 g/dl, randomizzate a ricevere 800 mg di ferro o placebo per via endovenosa. Il grado di astenia e lo stato del ferro sierico sono stati valutati in basale e dopo 6 e 12 settimane.  Mediante uno score di valutazione dell’astenia da 0 a 10 era definito un valore basale di 4,5 che dopo 6 settimane subiva una riduzione di 1,1 nel gruppo in trattamento con ferro rispetto a 0,7 nel gruppo placebo (P=0.07). Nel gruppo di pazienti con ferritina <15ng/ml era significativa la riduzione dello score per l’astenia tra i due gruppi (1,8 vs 1,4 p<0.005) con la quasi totalità di donne trattate che avvertiva un miglioramento soggettivo del sintomo (84% vs 47% p<0.03). Il profilo di tollerabilità e sicurezza del ferro endovena era buono rispetto al placebo con una differenza di eventi avversi (non gravi) ai limiti della significatività statistica (21% vs 7% p=0,05) e limitati al periodo di somministrazione.

La somministrazione di una dose totale di 8000 mg di ferro e.v. somministrata in due settimane ha provocato un marcato aumento delle concentrazioni di ferritina (98 ng/ml) a conferma di sostanziale incremento delle riserve marziali di ferro corporeo senza influenzare i livelli di emoglobina, che sono rimasti nella norma e costanti nei due gruppi durante il periodo di osservazione.  Questi risultati forniscono la prima prova che la supplementazione di ferro per via endovenosa può migliorare l’astenia nelle donne non anemiche in premenopausa. La concentrazione di ferritina serica <15 ng/ml e la saturazione di transferrina del 20% in soggetti con ferritina di 50 ng/ml sono risultati predittivi di un beneficio significativo di questo trattamento, anche se la ferritina sembra più adatta nella pratica clinica. Tuttavia, a causa dell’esiguo numero del campione, non è attualmente possibile stabilire un cut-off della ferritina sotto il quale le pazienti possono trarre beneficio dalla terapia con ferro.

Comunque viene confermata l’importanza delle funzioni non ematologiche del ferro. In particolare il suo ruolo come componente essenziale di un gran numero di enzimi metabolici come la ribonucleotide-reduttasi, la NADH-deidrogenasi, la succinato-deidrogenasi e il citocromo C-reduttasi/ossidasi. Tutti enzimi che catalizzano processi biochimici essenziali come la formazione di desossiribonucleotidi  e l’ossidazione aerobica dei carboidrati.

Questi risultati sono in accordo con studi precedenti con ferro per os, ma documentano una miglior efficacia della via di somministrazione endovenosa nel normalizzare le riserve marziali mantenendo un buon profilo di sicurezza e tollerabilità.

Un aspetto critico dello studio è il dato del miglioramento dell’astenia in circa il 40% delle donne trattate con placebo, con una risposta più evidente in donne con livelli di astenia iniziale elevata. Il risultato conferma la difficoltà di discriminare il ruolo della componente emotiva nella valutazione di donne che si considerano gravemente asteniche.  La definizione della carenza di ferro può essere accurata in una popolazione sana, ma non in altre popolazioni dove, per esempio, l’astenia è l’epifenomeno di una neoplasia.  Quindi nel work up di un’astenia è sempre consigliabile la ricerca delle cause somatiche, oltre a quelle psicologiche e sociali, perché di fronte a bassi valori di ferritina sierica nella donna in premenopausa vanno escluse prioritariamente importanti cause di carenza marziale come il sanguinamento gastrointestinale, le sindromi da malassorbimento e le patologie della sfera ginecologica.

 

Bibliografia

  1. Cathe´bras PJ, et al.Fatigue in primary care: prevalence,psychiatric comorbidity, illness behavior, and outcome. J Gen Intern Med. 1992;7:276-286
  2. Verdon F, et al.Iron supplementation for unexplained fatigue in non-anaemic women: double blind randomised placebo controlled trial.BMJ.  2003;326(7399):1124-1126
  3. Krayenbuehl PA, et al. Intravenous iron for the treatment of fatigue in nonanemic premenopausal women with low serum ferritin concentration Blood 2011;118:3222-7

 3,974 total views

Soggetti che assumono farmaci beta bloccanti nella terapia antipertensiva presentavano minori probabilità di sviluppare nel tempo patologie cerebrali

Un recente studio che verrà presentato a San Diego in occasione dell’American Academy of Neurology ha recentemente dimostrato che i soggetti che assumono farmaci beta bloccanti nella terapia antipertensiva presentavano minori probabilità di sviluppare nel tempo patologie cerebrali come l’Alzheimer o altri tipi di demenza.

E’ stata condotta una ricerca su 774 pazienti, tra questi 610 in trattamento con farmaci contro la pressione sanguigna alta, il quindici per cento di questi ultimi solo con beta bloccanti, il 18 per cento con beta bloccanti in associazione e i rimanenti erano in terapia con altri farmaci anti-ipertensivi. Il confronto tra i vari gruppi di trattamento ha fornito risultati simili: in tutti i pazienti si è evidenziata una diminuita tendenza allo sviluppo di demenze senili rispetto al placebo. I pazienti sottoposti esclusivamente a farmaci beta bloccanti hanno mostrato il più basso profilo di alterazioni neuronali correlabili all’Alzheimer.
 

Bibliografia: Lon White del Pacific Health Research and Education Institute di Honolulu. Abstract American Academy of Neurology. San Diego. 2013 

 604 total views

Ormonoterapia sostitutiva in menopausa: elementi di attenzione nella pratica clinica

Per decenni, la terapia ormonale sostitutiva (HRT), più recentemente conosciuta come terapia ormonale in menopausa (MHT), è stata il trattamento principale utilizzato dalla medicina convenzionale per curare i sintomi indotti dalla menopausa. Nel 2002, i risultati di un trial randomizzato in doppio cieco di grandi dimensioni denominato Women’s Health Initiative (WHI)1 hanno sollevato una serie preoccupazioni circa la sicurezza a lungo termine della MHT, in particolare relativamente al riscontro di un aumentato rischio per tumore della mammella nelle donne in terapia. Questi risultati hanno progressivamente modificato l’atteggiamento dei medici verso l’utilizzo della MHT riservando particolare attenzione alla selezione e al monitoraggio delle donne eleggibili alla terapia.

Attualmente la HRT è raccomandata in soggetti con presenza di sintomi rilevanti correlati alla menopausa e solo per il tempo necessario ad alleviarli. Il più comune tra gli effetti collaterali che si manifestano nelle donne in terapia è la tensione mammaria. Il significato della sua comparsa nelle donne sottoposte a MHT è stata analizzata in uno studio pubblicato sugli Annals of Internal Medicine 2 che ha riscontrato un’incidenza tensione mammaria a 12 mesi tre volte superiore nelle partecipanti assegnate a MHT rispetto a quelle assegnate al gruppo placebo (36,1% vs 11,8%; P<0,001). Le donne che hanno riferito comparsa di tensione al seno erano più anziane e il sintomo si era manifestato nei tre quarti dei casi nel gruppo in terapia. Queste donne con comparsa de novo di tensione al seno avevano un rischio per il tumore della mammella >48% rispetto a donne in MHT asintomatiche (P= 0.02). Al contrario, la tensione mammaria di nuovo esordio in donne che erano state assegnate al placebo non era correlata ad un rischio elevato di tumore della mammella. Gli autori hanno correlato la tensione mammaria alla alta densità mammografica, un fattore di rischio indipendente per il tumore al seno e sottolineano che una tensione mammaria all’esordio è nelle donne che iniziano la MHT ed è in genere dose-dipendente. La comparsa di questo sintomi dovrebbe indurre la donna a discutere di questa condizione con il proprio medico di fiducia, in quanto potrebbe condizionare sulle decisioni circa la scelta della MHT, la dose e la durata, così come le strategie da attuare per la sorveglianza rispetto al tumore della mammella.

Ma se si decide si sospendere la MHT è meglio interromperla bruscamente o gradualmente?
La risposta a questa domanda è apparsa su Menopause 3 da parte di un gruppo di ricercatori svedesi che ha condotto uno studio multicentrico su 81 donne con età media di 59 anni che avevano usato MHT da 3 a 11 anni. Le donne partecipanti sono state randomizzate per interrompere la MHT bruscamente oppure gradualmente con interruzione dopo 4 settimane. I risultati hanno dimostrato che né il numero né la gravità delle vampate di calore e la qualità della vita (determinato mediante questionario) differivano nel corso dei 12 mesi di follow-up. Inoltre, quasi la metà delle donne (in genere quelli con più grave vampate di calore) riprendeva la MHT 1 anno dopo l’interruzione. Questi dati vanno ad aggiungersi alla crescente corpo di evidenze che indicano che MHT può essere interrotta bruscamente o gradualmente, e che in alcune donne la ripresa di sintomi vasomotori ricorrenti e gravi indurrà le pazienti a riprendere la terapia. Non è certo che tali conclusioni valide per le donne che prendono MHT per il trattamento di sintomi vasomotori possano valere anche per le donne che stanno usando HRT per altri motivi.

Bibliografia

  1. Writing Group for the Women’s Health Initiative Investigators. Risks and benefits of estrogen plus progestin in healthy postmenopausal women: Principal results from the Women’s Health Initiative randomized controlled trial. JAMA 2002; 288:321-33.
  2. Crandall CJ et al. New-onset breast tenderness after initiation of estrogen plus progestin therapy and breast cancer risk. Arch Intern Med 2009; 169:1684.
  3. Lindh-Åstrand L et al. A randomized controlled study of taper-down or abrupt discontinuation of hormone therapy in women treated for vasomotor symptoms Menopause 2010; 17:72 

 762 total views

Tendinite del bicipite: regole utili per la diagnosi e la decisione terapeutica

La tendinite del bicipite è una affezione infiammatoria che coinvolge il tendine del capo lungo del muscolo bicipite. La tendinosi del bicipite è causata dalla degenerazione del tendine in soggetti che svolgono attività con sollecitazione tendinea ripetuta, piuttosto che riferibile ad un normale processo di invecchiamento. Nella pratica clinica è facile riscontrare questa condizione che è stata oggetto di una recente revisione pubblicata sull’American Family Physician e orientata a fornire semplici regole utili al medico di famiglia per una corretta diagnosi e scelta terapeutica.

I pazienti affetti sia da tendinite che da tendinosi del bicipite, accusano un profondo dolore lancinante nella parte anteriore della spalla, provocato o aggravato da sovraccarico ripetitivo nel movimento del braccio. All’esame obiettivo è rilevabile un punto doloroso, a livello del bicipite, quando il braccio è posto a 10 gradi di rotazione interna. Gli individui con più probabilità di sviluppare condizioni patologiche del tendine del bicipite sono i giovani adulti dai 18 ai 35 anni che svolgono attività sportiva regolare, nuoto, ginnastica e arti marziali. Una lesione secondaria del tendine del bicipite può derivare da instabilità della scapola, delle sue strutture legamentose e da lassità della capsula anteriore o posteriore. Negli individui più anziani, come gli atleti di età superiore ai 35 anni o soggetti che non svolgono attività sportiva con più di 65 anni, la tendinite acuta del bicipite può essere causata da un uso eccessivo e improvviso, o all’uso ripetitivo che con il tempo determina una tendinosi del bicipite.

La causa più comune di tendinosi o tenosinovite del bicipite (infiammazione della guaina tendinea) è da impingement primario, che si riferisce ad un urto meccanico sotto l’arco coraco-acromiale. Le cause includono l’osteofitosi dell’acromion, l’ispessimento del legamento coraco-acromiale, speroni osteoartrosici con interferenza del tendine del bicipite. La lesione della cuffia dei rotatori o SLAP (anteriore labbro superiore a quello posteriore) accompagna spesso la tendinite e la tendinosi del bicipite. Infatti di conseguenza alla lesione della cuffia il tendine del bicipite si espone all’arco coraco-acromiale che può determinare un impingement secondario. Negli atleti di età superiore ai 35 anni, l’impingement primario da rottura della cuffia dei rotatori è più frequente che negli atleti più giovani.
Per la visualizzazione globale del tendine bicipite, l’ecografia è la procedura di imaging preferibile. Tuttavia, la risonanza magnetica o l’artro-TAC visualizzano meglio il tendine a livello intra-articolare e l’eventuale presenza di processi patologici.

L’iniezione di anestetico locale (ad esempio, lidocaina 1%, con o senza corticosteroide) nella guaina del tendine del bicipite può essere diagnostica, nonché terapeutica e può essere utile per alleviare il dolore. Le opzioni di trattamento conservativo per la tendinite del bicipite comprendono riposo, l’applicazione di ghiaccio, analgesici orali come farmaci anti-infiammatori o paracetamolo, terapia fisica o iniezioni di corticosteroidi nella guaina del tendine bicipite.

Le 4 fasi di riabilitazione da attivare in soggetti che fanno attività atletica con spalla dolorosa sono:

  1. riposo,
  2. esercizi di stretching della scapola, cuffia dei rotatori e della capsula posteriore,
  3. rafforzamento muscolare
  4. programma di lancio progressivamente impegnativo.

L’esercizio fisico può essere avviato dopo che la spalla è indolore. L’obiettivo dello stretching è quello di ripristinare la gamma di movimenti senza produrre rigidità o dolore in qualsiasi posizione. Perché anche una perdita minore di movimento nella parte bassa della schiena e muscoli posteriori della coscia può causare uno squilibrio importante della spalla stabilizzante legamenti e la scapola, il programma di stretching deve inoltre avere come obiettivo i tendini del ginocchio e la parte bassa della schiena.
Una volta che la cuffia dei rotatori, rotatori scapolari e gran pettorale, gran dorsale e deltoide sono sufficientemente forti, può essere avviato un programma di lancio. Per i soggetti che non fanno attività atletica, la riabilitazione è simile, con meno enfasi del punto 4 (lancio) del programma riabilitativo.

Il clinico dovrebbe prendere in considerazione la chirurgia se il trattamento conservativo non si traduce in un miglioramento dopo 3 mesi, o se vi sono gravi danni al tendine del bicipite. Le opzioni comprendono la rimozione delle strutture che determinano l’impingement primario e secondario, e la riparazione del tendine del bicipite, se necessario. Se la rottura del tendine del bicipite è <50%, è indicato il debridement chirurgico.
Per lesioni gravi o rottura, si considera la tenodesi , con l’attaccamento del tendine del bicipite al legamento omerale con ancore di sutura o viti. Questa procedura può essere eseguita nei pazienti di età inferiore ai 60 anni, così come in pazienti attivi, atleti, lavoratori manuali, e pazienti che non accettano un rigonfiamento delle masse muscolari al di sopra del gomito. Per i pazienti sedentari > di 60 anni che presentano una rottura del tendine del bicipite, la procedura di scelta è la tenotomia con rimozione del tendine del bicipite dal legamento gleno-omerale e senza perdita significativa di funzionalità del braccio.

Bibliografia

  • Churgay CA Diagnosis and treatment of biceps tendinitis and tendinosis Am Fam Physician. 2009;80(5):470-6.

aso dev��srС���rato nella decisione in pazienti molto anziani. Richard Deyo in un editoriale di commento si pone la domanda finale: ma allora quando è necessaria la chirurgia? Senza deficit neurologici maggiori, i soggetti con ernia del disco, spondilolistesi degenerativa o stenosi del canale spinale non necessitano della chirurgia, anche se va considerato che tecniche appropriate possono essere attualmente molto efficaci nella terapia del dolore in questi pazienti.

 

Bibliografia

  1. Kinkade S Evaluation and Treatment of Acute Low Back Pain Am Fam Phys 2007;75:1181-8
  2. Pengel LHM et al Physiotherapist-Direct Exercise, Advice, or Both for Low Back Pain Ann Intern Med 2007;146:787-96
  3. Peul WC et al Surgery versus Prolonged Conservative Treatment for Sciatica N Engl J Med 2007;356:2245-56
  4. Weinstein JN et al Surgical versus Non Surgical Treatment for Lumbar Degenerative Spondylolisthesis N Engl J Med 2007;356:2257-70

 1,023 total views

L’Osteoporosi si vince così

La Società scientifica SIOMMMS pubblica le nuove Linee guida per la diagnosi, prevenzione e terapia della malattia, di cui soffrono oltre cinque milioni di italiani

Roma – La Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS) ha pubblicato le nuove Linee guida per la diagnosi, prevenzione e terapia dell’osteoporosi, malattia di cui nel nostro paese soffrono circa 5 milioni di persone, per due terzi donne.
Il documento rappresenta un fondamentale contributo nella gestione clinica dell’osteoporosi e delle altre malattie metaboliche dello scheletro. Le raccomandazioni contenute nella pubblicazione nascono sulla base di rigorosi criteri, che assegnano livelli di evidenza agli articoli della letteratura usati per l’applicazione delle linee guida nella pratica clinica.
Il documento si articola in una serie di sessioni, che definiscono l’osteoporosi primitiva e secondaria, sottolineano l’importanza della diagnosi densitometrica della malattia attraverso l’utilizzo della DXA (densitometria a raggi) e analizzano il ruolo di molteplici fattori di rischio nel contribuire alla riduzione della massa ossea.
Notevole importanza è data alla diagnosi differenziale dell’osteoporosi, con particolare riguardo alle malattie che, con meccanismi più o meno diretti, possono aumentare il rischio di frattura. In questo ambito si sottolinea la necessità di sottoporre tutti i pazienti all’esame clinico e a una serie di semplici indagini biochimiche destinate a escludere le osteoporosi secondarie, ribadendo l’assoluta inutilità della scelta, spesso irrazionale, di ulteriori indagini, a volte molto costose e non efficacemente orientate.
Le linee guida concedono inoltre largo spazio alla diagnosi strumentale dell’osteoporosi attraverso la densitometria ossea, definendo anche il ruolo delle indagini (ultrasonografia e tomografia computerizzata) che valutano il trofismo osseo. In più, si sottolinea la capacità predittiva del rischio di frattura delle varie metodiche, il loro ruolo nel monitoraggio terapeutico e i livelli di evidenza circa le raccomandazioni sul loro impiego diagnostico. In proposito, due punti molto importanti riguardano:

  • A) l’individuazione dei soggetti da sottoporre a densitometria ossea,
  • B) il monitoraggio nel tempo.

Un ampio capitolo delle linee guida è infine dedicato sia ai provvedimenti non farmacologici di prevenzione e trattamento, sia alla terapia farmacologica dell’osteoporosi. Si evidenzia, tra l’altro, l’importanza dello stile di vita nell’impedire o rallentare la perdita di massa ossea: dieta congrua, attività fisica sufficiente, apporto adeguato di calcio e vitamina D e/o correzione dei fattori di rischio modificabili quali fumo e abuso di alcool.
Nell’ambito della terapia farmacologica si ribadisce invece l’importanza di sottoporre al trattamento soggetti già osteoporotici, con o senza fratture preesistenti, comunque seriamente a rischio di una prima frattura o di ulteriori fratture.
Al riguardo, una novità importante sottolineata nelle linee guida è il possibile sviluppo e utilizzo di modelli, o algoritmi, sia internazionali che nazionali, capaci di stimare il rischio frattura. Questi modelli si sviluppano attraverso la combinazione del risultato densitometrico con i fattori di rischio del singolo soggetto, e possono così fornire informazioni utili circa la necessità, per quell’individuo, di sottoporsi a terapia specifica. Il documento si conclude con un ampio esame delle terapie attualmente approvate in Italia per il trattamento dell’osteoporosi nei due sessi.

SIOMMMS: Dipartimento di Scienze Cliniche Università di Roma ‘Sapienza’, viale del Policlinico 155, 00161 Roma
Tel. 06.49978388, salvatore.minisola@uniroma1.itwww.siommms.it
Ufficio stampa: Catola & Partners, Firenze, 055.5522892 / 867, riccardo@catola.comwww.catola.com

 833 total views

Osteoporosi e modalità di monitoraggio dell’efficacia della terapia

Le fratture da fragilità ossea secondaria ad osteoporosi sono comuni nelle donne in postmenopausa e, nel solo anno 2000, si stima che in tutto il mondo si siano verificate circa 9 milioni di fratture da osteoporosi. Le linee guida basate sulle evidenze scientifiche forniscono indicazioni utili al clinico per identificare e trattare i soggetti ad alto rischio. Il trattamento con bifosfonati rappresenta un ausilio efficace nel ridurre il rischio di fratture da fragilità ossea anche se rimane incerta la definizione di quanto tempo dopo l’inizio del trattamento debba passare per poter valutare la risposta terapeutica. Le raccomandazioni delle linee guida sulla frequenza di monitoraggio della BMD dopo l’inizio di terapia sono differenti con un generico consenso solo sull’utilità di controlli periodici.
L’utilizzo della Densitometria Ossea (DEXA) per individuare l’osteoporosi è una strategia economicamente efficace nelle donne di età > 65 anni, ma non esistono analisi costo/beneficio del follow-up con DEXA dopo inizio terapia.

Il British Medical Journal ha pubblicato i risultati dell’analisi secondaria del Fracture Intervention Trial (FIT), studio clinico randomizzato iniziato nel 1993 in cui sono state randomizzate 6.457 donne di età compresa tra 55-80 anni, con bassa BMD misurata all’anca, al trattamento con alendronato vs placebo. La dose iniziale di alendronato era di 5 mg/die, successivamente aumentata a 10 mg/die, quando le evidenze derivate da altri studi hanno dimostrato che il dosaggio più elevato era più efficace. Lo studio FIT ha dimostrato che l’alendronato aumenta la BMD, riduce il rischio di fratture (end point primario) del femore e del polso (end point secondari) e mediante un modello statistico misto ha potuto confrontare nel tempo le variazioni individuali di BMD (variazione soggettive dei risultati di DEXA) e tra soggetti diversi (variazione dei valori di DEXA nella popolazione). La BMD di tutti i partecipanti allo studio FIT in entrambi i gruppi di controllo e di trattamento è stata misurata al basale e, ogni anno, per 3 anni. Ogni individuo è stato testato con lo stesso strumento per ridurre al minimo le differenze dovute alla metodica d’indagine. I risultati hanno dimostrato che la variazione intraindividuale era di circa 10 volte superiore a quella interindividuale suggerendo che la precisione delle misurazioni DEXA è molto limitata. L’incremento medio annuo di BMD nei pazienti nel gruppo alendronato è stato di 0,0085 g/cm2 , valore inferiore alla variabilità rilevata nei singoli soggetti che era di 0,013 g/cm2 . Questo dato ha reso difficile distinguere l’effetto del farmaci dalla variabilità casuale correlata alla metodologia di valutazione con scansioni DEXA nello spazio temporale di un anno. I risultati ottenuti dall’analisi a lungo termine sono apparsi più affidabili. Infatti dopo 3 anni di trattamento il 97,5% dei pazienti trattati con alendronato aveva un aumento della BMD di 0,019 g/cm2 misurata all’anca, con una stretta correlazione con le misurazioni ottenute alla colonna vertebrale. Questi risultati, anche se identificano modificazioni quantitative molto piccole, possono essere considerati come una risposta favorevole e a sostengono del proseguimento di un trattamento efficace.

In conclusione l’analisi dei dati dello studio FIT sostengono che non è necessario ricontrollare la BMD in donne in post menopausa e in terapia con bifosfonati per almeno 3 anni dopo l’inizio dal trattamento. Questo, in un sistema sanitario sempre più attento all’appropriatezza delle decisioni mediche, sarebbe in grado di evitare l’esecuzione di esami DEXA in tempi troppo brevi perché non in grado di fornire informazioni utili nella pratica clinica per il monitoraggio dei pazienti con osteoporosi in terapia con bifosfonati. I medici comunque devono essere consapevoli del fatto che tali conclusioni non sono in linea con le raccomandazioni di autorevoli società scientifiche (American Association of Clinical Endocrinology, National Osteoporosis Foundation, North American Menopause Society) che consigliamo il follow-up con DEXA ogni 1 o 2 anni. Inoltre va sottolineato che il ritardo nella ripetizione test DEXA può non essere appropriato nei casi di follow up in pazienti ad alto rischio di riduzione della BMD. Infine andrebbero valutate le richieste dei pazienti di effettuare il test prima dei 3 anni tenendo conto che, con le attuali tecnologie DEXA l’esecuzione dell’esame in tempi brevi (< 24 mesi) potrebbe aumentare la probabilità di risultati che orientano verso una mancata risposta al trattamento e tali da indurre il paziente alla inopportuna sospensione di una terapia la cui efficacia sarebbe documentabile solo nel tempo.

Bibliografia

  • Bell KL, Hayen A, Macaskill P, et al. Value of routine monitoring of bone mineral density after starting bisphosphonate treatment: secondary analysis of treatment data. BMJ 2009;338:b2266.

 1,010 total views

1 6 7 8 9 10 143

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?