Mal di schiena e Sciatica: valutazione clinica e opzioni terapeutiche

Il mal di schiena (MdS) rappresenta una condizione comune che ogni giorno affligge il 5.6% della popolazione adulta degli Stati Uniti così come in Europa. Spesso i pazienti si trattano da soli e solo il 25-30% si rivolge al proprio medico di famiglia (MMG). L’obiettivo primario del trattamento è rappresentato da una riduzione del dolore che permette al paziente di ritornare il più rapidamente possibile alla sua normale attività lavorativa. Quasi sempre il MdS è gestito direttamente dal MMG senza ulteriori richieste di consulenze dell’ortopedico o del neurochirurgo.

Clinica
Una recente revisione pubblicata dall’American Family Physician 1 ha preso in considerazione i problemi che il MMG incontra nel management di questa condizione che, nel 70% dei casi, è causata da una contrattura dolorosa secondaria ad un trauma distorsivo dei muscoli paravertebrali lombari e solo marginalmente da altre condizioni che comunque è sempre opportuno considerare in diagnosi differenziale.

La storia naturale del mal di schiena generalmente hau n decorso favorevole, con il 30-60% dei pazienti che guariscono in una settimanae, 60-90% in sei settimane e 95% in 12 settimane. Nell’arco di 6 mesi nel 40% dei pazienti si presentano recidive o episodi ricorrenti di MdS. Nel contesto dell’evolutività temporale, le sei settimane di durata dei sintomi sembrano definire un’ideale linea di confine tra un banale mal di schiena gestibile con terapia conservativa e una problema più complesso, meritevole di un approfondimento diagnostico-terapeutico.

L’esame fisico è in grado di discriminare i soggetti che richiedono una valutazione immediata nel sospetto di una indicazione chirurgica urgente, come i pazienti con sindrome della coda equina, sciatalgia bilaterale e progressivo deficit neurologico periferico con interessamento degli sfinteri. E’ importante saper individuare fra la quasi totalità di casi banali i casi critici attribuibili a un mal di schiena

mal di schiena da “codice rosso ” e prendere una decisione corretta e tempestiva.

Solo il 4% dei soggetti con sciatalgia ha un’ ernia del disco

ernia del disco intervertebrale, mentre il 2% presenta gradi variabili di spondilolistesi.

spondilolistesi. Il 95% di coloro che hanno un’ernia del disco hanno una sciatalgia e la probabilità che un disco erniato sintomatico dia solo mal di schiena senza sintomi di sciatica è di 1 a 500. Quindi il tipo di dolore è un sintomo che identifica con buona accuratezza una sofferenza radicolare lombo-sacrale secondaria all’ernia del disco intervertebrale.

In questi casi non è ancora univoco il consenso sulla durata di una terapia conservativa iniziale e la successiva opzione chirurgica. Negli USA e in Olanda il tasso di interventi chirurgici precoci è molto elevato, mentre le linee guida tedesche consigliano la chirurgia solo dopo un tentativo di 6 settimane di trattamento conservativo.

Terapia
Per il mal di schiena vengono consigliate terapie conservative con farmaci antidolorifici, FANS e miorilassanti, associati a fisiokinesiterapia (esercizi, massaggi e manipolazioni) e indicazioni educazionali per il recupero funzionale. Nella maggior parte dei casi queste opzioni risultano efficaci anche se non è chiaro quanto l’effetto delle terapie possa persistere nel tempo. Un recente studio pubblicato sugli Annals of Internal Medicine 2 ha dimostrato che la combinazione di terapie fisiche e consigli sono efficaci nel migliorare il dolore e recuperare la funzionalità a breve termine (6 settimane) più dei singoli interventi separati.

Per la sciatica si sono consolidate nuove e sosfisticate tecniche di chirurgia della colonna vertebrale che possono fornire nuove prospettive per una scelta terapeutica ottimale in casi selezionati. Il New England Journal of Medicine ha pubblicato due articoli su studi di confronto dei trattamenti conservativi e chirurgici nella sciatica3 e nella spondilolistesi4 .

Il primo studio ha valutato pazienti con sciatica per oltre sei settimane che vengono spesso sottoposti a discectomia lombare, con l’intento di capire meglio quale sia il momento più opportuno per effettuare l’intervento. Sono stati randomizzati 283 pazienti che avevano presentato una grave sciatica per un periodo da sei a dodici settimane, a essere sottoposti a intervento immediato o a trattamento conservativo prolungato, con possibilità di intervento chirurgico se necessario. Dei 141 pazienti assegnati all’intervento immediato, 125 (89%) sono stati sottoposti a microdiscectomia dopo 2,2 settimane in media. Dei 142 pazienti destinati a ricevere il trattamento conservativo, 55 (39%) sono stati trattati chirurgicamente dopo 18,7 settimane in media. Nel primo anno di follow up non sono state osservate differenze significative nei punteggi relativi alla disabilità (p=0,13). Il dolore alle gambe è migliorato più rapidamente nei pazienti sottoposti a intervento chirurgico immediato (p<0,001), i quali hanno anche segnalato una maggiore velocità di guarigione percepita (RR 1,97; IC95%, da 1,72 a 2,22; p<0,001) che tuttavia, dopo un anno di follow-up, era uguale al 95% in entrambi i gruppi.

Il secondo studio ha affrontato il tema della gestione della spondilolistesi degenerativa con stenosi spinale dove la chirurgia trova ampio impiego, ma la sua efficacia rispetto al trattamento non chirurgico non è stata dimostrata in studi controllati. I trattamenti previsti erano laminectomia decompressiva standard (con o senza fusione) oppure il trattamento non chirurgico convenzionale. Sono stati arruolati 304 pazienti nella coorte randomizzata e 303 in quella di osservazione. L’analisi “as-treated” per entrambe le coorti ha mostrato un vantaggio significativo a tre mesi per la chirurgia, che aumentava ad un anno per poi leggermente diminuire dopo due anni. Gli effetti del trattamento a due anni sono stati 18,1 per il dolore fisico (IC95%, da 14,5 a 21,7), 18,3 per la funzionalità fisica (IC al 95%, da 14,6 a 21,9) e –16,7 per l’indice di disabilità Oswestry Disability Index (IC al 95%, da –19,5 a –13,9). Pertanto i pazienti affetti da spondilolistesi degenerativa e stenosi spinale trattati chirurgicamente hanno ottenuto un sollievo notevolmente superiore rispetto al dolore e alla funzionalità nell’arco di due anni rispetto ai pazienti trattati con metodi non chirurgici

In conclusione entrambi i trial dimostrano un miglioramento del dolore muscolare e del dolore sciatico con la chirurgia. Rimangono alcune aree di incertezza se si considera il tipo di pazienti (più giovani quelli che hanno sintomi da ernia del disco rispetto a quelli con spondilolistesi) e la differente complessità degli interventi di discectomia e di chirurgia di fusione, condizionanti un tasso di complicazioni che nel secondo caso deve essere considerato nella decisione in pazienti molto anziani. Richard Deyo in un editoriale di commento si pone la domanda finale: ma allora quando è necessaria la chirurgia? Senza deficit neurologici maggiori, i soggetti con ernia del disco, spondilolistesi degenerativa o stenosi del canale spinale non necessitano della chirurgia, anche se va considerato che tecniche appropriate possono essere attualmente molto efficaci nella terapia del dolore in questi pazienti.

Bibliografia

  1. Kinkade S Evaluation and Treatment of Acute Low Back Pain Am Fam Phys 2007;75:1181-8
  2. Pengel LHM et al Physiotherapist-Direct Exercise, Advice, or Both for Low Back Pain Ann Intern Med 2007;146:787-96
  3. Peul WC et al Surgery versus Prolonged Conservative Treatment for Sciatica N Engl J Med 2007;356:2245-56
  4. Weinstein JN et al Surgical versus Non Surgical Treatment for Lumbar Degenerative Spondylolisthesis N Engl J Med 2007;356:2257-70

 902 total views

Linfadenopatia sospetta

In un editoriale apparso nell’agosto 2006 sull’American Family Physician (1 ) veniva proposto uno scenario clinico di un paziente di 48 anni con una storia di cancro del colon retto che si recava dal proprio medico di famiglia per la comparsa di astenia, febbricola e senso di costrizione retro-sternale. L’ecocardiogramma, l’ECG e l’esame clinico obiettivo erano normali, ma per il persistente disturbo toracico il medico aveva proposto un check-up cardiologico completo ed esami di routine i quali documentarono un’anemia. Visti gli esami veniva proposta la colonscopia. Alla visita successiva il paziente si presentò accompagnato dalla moglie che esordì affermando – Dottore credo che mio marito abbia un linfoma. – conclusione a cui erano arrivati dopo una ricerca approfondita via Internet sulle possibili cause dei sintomi riferiti dal marito. Una TC del torace confermò un ingrandimento dei linfonodi mediastinici conseguente ad un Linfoma non-Hodgkin.

Questo caso clinico permette di focalizzare l’attenzione su alcuni concetti generali utili nella pratica clinica, ovvero che:

  1. Il paziente è altamente motivato al raggiungimento della sua diagnosi
  2. Ha un rapporto molto stretto con i propri sintomi
  3. E’ disposto a dedicare più tempo del medico all’analisi delle diagnosi potenziali

Ne consegue che l’attenzione e il tempo medico dedicati al paziente in fase diagnostica hanno rappresentato due fattori critici per l’esito di questo processo decisionale, assunto che è possibile generalizzare. Nei linfomi spesso, come in buona parte dei tumori delle parti esterne (cute, tiroide, mammella, testicoli, cavo orale), è possibile orientarsi dopo una semplice visita che documenta un ingrandimento dei linfonodi superficiali, anche se l’esempio riportato rende l’idea della complessità in cui si opera nella pratica clinica.

In una revisione della letteratura scientifica apparsa sui Mayo Clinic Proceeding (2 ) è stato affrontato il tema dell’approccio clinico della linfadenopatia partendo dalla distinzione tra un reperto attribuibile ad una malattia autolimitante benigna rispetto a una patologia maligna. Di seguito è importante, nelle linfadenopatie maligne, poter discriminare tra il sospetto di un carcinoma o di un linfoma per le differenti competenze specialistiche coinvolte (oncologo o ematologo) per l’appropriato trattamento.
Gli studi condotti nell’ambito delle cure primarie hanno posto l’attenzione su alcuni fattori predittivi utili al Medico di Medicina Generale (MMG) nell’orientamento del giudizio clinico circa la malignità o meno di una linfadenopatia elencate nella

TAB.1.

Le malattie linfoproliferative non hanno predilezione per l’età, mentre è più facile che i carcinomi insorgano dopo i 50 anni. La diagnosi differenziale con la mononucleosi infettiva è prioritaria nei soggetti giovani, nei quali la dimensione dei linfonodi, la loro localizzazione e il tempo di insorgenza rappresentano i fattori che orientano all’esecuzione della biopsia. In generale i soggetti con linfonodi che si manifestano al di fuori della regione inguinale, di diametro >1 cm e con un tempo di insorgenza superiore ai 30 gg senza che si sia raggiunta una diagnosi plausibile sono da indirizzare rapidamente all’ematologo.

Il trattamento empirico della linfadenopatia con antibiotici o cortisone non è raccomandabile, anche se rappresenta una pratica comune in medicina generale.
L’associazione di segni e sintomi può essere molto variabile e il paziente può essere asintomatico. I sintomi sistemici (febbre <=38°C, sudorazione notturna, calo ponderale >10% ) sono suggestivi di malattia linfoproliferativa, ma va considerato che sono presenti anche nelle malattie infettive. Inoltre i pazienti con Malattia di Hodgkin possono accusare algie linfonodali dopo ingestione di bevande alcooliche.
Le caratteristiche di consistenza dei linfonodi non sono di particolare aiuto nel discriminare tra lesioni benigne o maligne, anche se linfonodi duro- lignei, confluenti e mal delimitabili sono spesso associati alle neoplasie solide o ai linfomi. La dolorabilità linfonodale alla palpazione può essere più suggestiva di una lesione infiammatoria, ma anche linfonodi maligni in rapida evoluzione possono essere dolenti per alterazioni strutturali secondarie a emorragia e necrosi.

La splenomegalia associata a linfadenopatia è frequente nella mononucleosi, nei linfomi Hodgkin e Non-Hodgkin e nella leucemia linfatica cronica; è rara nei carcinomi metastatici.Mentre la presenza di febbre apre un ampio ventaglio di diagnosi differenziali.Il tipo di localizzazione delle masse linfonodali è un fattore condizionante l’invio del paziente allo specialista per la biopsia. In questo caso il valore predittivo dell’esame varia al variare della sede di biopsia. Un prelievo bioptico ai linfonodi della regione inguinale è quello meno utile per raggiungere la diagnosi, mentre i linfonodi sovraclaveari sono i maggiormente predittivi di linfadenopatia maligna, come è stato dimostrato da una analisi su 550 pazienti pubblicata sul British Journal of Cancer (3 ) in cui questa ipotesi è stata confermata insieme ad altri indici di malignità rappresentati dal sesso maschile, l’età, la razza bianca e il contemporaneo coinvolgimento di 2 o più aree linfonodali.

In conclusione nel caso di una linfadenopatia è possibile che il paziente porti all’attenzione del medico non solo i sintomi, ma anche le proprie ipotesi diagnostiche fruendo dell’enorme mole di conoscenze disponibile sul web, ipotesi che possono a volte migliorare la gestione del rapporto medico-paziente.

Bibliografia

  1. Alper BS Curbside consultation Usefulness of Online Medical Information Am Fam Phys 2006;74:482
  2. Habermann TM, Steensma DP Lymphadenopthy Mayo Clinic Proc 2000;75:723-32
  3. Chau I et al Rapid access multidisciplinary lymph node diagnostic clinic: analisis of 550 patients Brit J Cancer 2003;88:354-61

 679 total views

PSA e tumore della prostata. Nuove evidenze sullo screening.

Il cancro della prostata è una delle principali cause di morte per malattie oncologiche tra gli uomini dei paesi sviluppati. La disponibilità negli ultimi 25 anni di un test semplice e di facile esecuzione come il dosaggio dell’antigene prostatico specifico (PSA) ha indotto i medici prenderlo in considerazione per una strategia di screening orientata a diminuire il rischio di morte per questa malattia. Da alcuni anni l’entità del beneficio e del danno che tale screening determina è oggetto di un dibattito continuo.
L’aspetto critico del PSA è legato alla sua capacità di provocare sovra diagnosi attraverso l’identificazione di neoplasie prive di capacità evolutiva e che, una volta diagnosticate, inducono a un sovra trattamento attraverso interventi capaci di danneggiare la qualità di vita dei pazienti.

Recentemente sono stati pubblicati su The Lancet Oncology i primi risultati di uno studio di screening randomizzato controllato iniziato nel dicembre 1994 nel quale sono stati scelti 20.000 uomini, nati tra il 1930 e il 1944, dal registro della popolazione di Goteborg. Questi soggetti sono stati randomizzati in un rapporto di 1:1, tra un gruppo di screening per il PSA ogni 2 anni (n = 10 000) e un gruppo di controllo non invitato al test (n = 10 000). Il gruppo di screening comprendeva soggetti fino ad un limite superiore di età di 69 anni (range 67-71) e i test supplementari, come l’esplorazione rettale e le biopsie della prostata, erano proposti solo a chi presentava un incremento delle concentrazioni di PSA. L’end-point primario era la mortalità per cancro prostatico specifico.

Questi sono i primi dati cumulativi relativi a incidenza del cancro prostatico e di mortalità calcolati fino al 31 dicembre 2008. Durante un follow-up di 14 anni un tumore della prostata è stato diagnosticato in 1138 uomini nel gruppo di screening e in 718 nel gruppo controllo, con un’incidenza cumulativa rispettivamente del 12,7% e del 8,2% (hazard ratio HR=1,64, 95% CI 1,50 -1 – 80; p < 0,0001). La riduzione assoluta del rischio cumulativo di morte per cancro alla prostata a 14 anni era dello 0.40% (95% CI 0,17 -0,64), pari a 0,50% nel gruppo screening e 0,90% nel gruppo di controllo. Le morti registrate per cancro prostatico sono state 44 nel gruppo di screening e 78 nel gruppo di controllo un rapporto del tasso di mortalità RR=0,56 (95% CI 0,39 -0 82, p = 0,002). Inoltre, per prevenire una morte per cancro della prostata, dovevano essere invitati allo screening 293 uomini e doveva essere formulata la diagnosi in 12 di loro.

Lo studio dimostra come in questa popolazione la mortalità per carcinoma della prostata è stato ridotto quasi della metà (44%). Tuttavia il rischio di diagnosi in eccesso è rilevante, anche se il numero di soggetti da sottoporre a screening necessario per il trattamento (NNT) è paragonabile a quello degli screening per il tumore della mammella e con un beneficio migliore rispetto ad altri programmi di diagnosi precoce. Resta aperto il dibattito sulla riproducibilità dei risultati in altre popolazioni e altri contesti dove il dosaggio del PSA effettuato con modalità opportunistica è comune nella pratica clinica, a differenza della Svezia. Questi risultati ricordano al MMG che è facile, in soggetti maschi al di sopra dei 50 anni, prescrivere tra gli altri esami il PSA, ma non è poi facile decidere che cosa fare di fronte ad un PSA alterato.

  • Jonas Hugosson et al Mortality results from the Goteborg randomized population-based prostate-cancer screening trial The Lancet Oncology 2010;8:725-32 

 614 total views

Carcinoma della Prostata a decorso favorevole. Chi, come e perché sottoporre a sorveglianza attiva?

Nelle popolazioni in cui è diffuso lo screening del carcinoma prostatico è sempre più forte la tendenza ad adottare una strategia di attiva sorveglianza nei soggetti con un rischio di neoplasia a decorso favorevole, ossia i casi in cui il risultato dello screening permette di identificare una malattia priva di rilevanza clinica in cui l’astensione da qualsiasi trattamento non rappresenta una minaccia per lo stato di salute.
Questo approccio è supportato da dati che dimostrano come i pazienti che hanno una malattia clinicamente insignificante possono essere identificati con ragionevole accuratezza, inizialmente classificati a basso rischio e, nel tempo, eventualmente riclassificati ad alto rischio senza privarli della possibilità di un trattamento radicale con intento curativo.

In questo contesto è importante capire quali siano gli aspetti clinici e patologici della malattia che insieme ad età e comorbidità concorrono ad identificare chi ha un basso rischio di progressione di malattia durante la vita. Un monitoraggio attento nel tempo e la disponibilità di criteri di intervento ragionevoli sono aspetti entrambi orientati ad identificare in maniera opportuna la malattia aggressiva e così ovviare al sovratrattamento dei pazienti. In questi casi un ulteriore aspetto di enorme importanza è la comunicazione appropriata del medico per ridurre nel paziente il peso psicologico di vivere affetto da una neoplasia non trattata.

L’argomento è stato oggetto di una revisione pubblicata su Nature Clinical Practice in cui si discute la strategia della sorveglianza attiva come opzione nei maschi con un cancro della prostata di piccolo volume identificato mediante screening. I pazienti che cadono in questa categoria sono uomini affetti da tumore prostatico con uno score di Gleason ≤6, quelli con PSA ≤10 ng/ml e quelli con una uno stadio di malattia T1c o T2a. Questi criteri comprendono circa il 45% dei soggetti con una nuova diagnosi di cancro della prostata in una popolazione sottoposta a screening.

Questo concetti sono stati formalizzati in cinque postulati per la sorveglianza attiva:

  1. lo screening del cancro della prostata identifica una malattia che in diversi pazienti non rappresenta un pericolo per la loro salute
  2. i pazienti che cadono in questa categoria possono essere identificati con ragionevole certezza
  3. il non trattamento determina un impatto minimo in termini di effetti secondari e costi
  4. i pazienti inizialmente classificati come a basso rischio se riclassificati ad alto rischio potrebbero essere curati con trattamento radicale nella maggior parte dei casi
  5. per il paziente il peso psicologico di vivere con una neoplasia non trattata è minore dell’impatto sulla qualità di vita di una terapia curativa, ma non necessaria.

Secondo l’autore questi postulati dovrebbero guidare la selezione dei pazienti eleggibili. La strategia considera l’importanza di un’accurata definizione del Gleason score e del suo valore predittivo come confermato dai risultati del Connecticut Study che evidenzia, nel follow up a 20 anni, un tasso di mortalità stabile nei tumori della prostata localizzati a basso grado. Questo conferma l’ampia finestra di curabilità della malattia in accordo con quanto dimostrato da studi autoptici. Infatti è dimostrato che il tumore della prostata esordisce tipicamente come focolaio microscopico nella terza/quarta decade di vita e può rimanere subclinico per circa 30 anni. La conseguente fase di progressione clinica potenzialmente, ma non invariabilmente, evolve verso una malattia metastatica e il decesso.
Il razionale della sorveglianza attiva si basa, per i soggetti di età <60 anni, sui criteri di Epstein che garantiscono un interessamento inferiore a un terzo dei campioni bioptici con non più del 50% di infiltrato per singolo campione. Per soggetti più anziani (>70 anni) o con condizionanti un’aspettativa di vita <10 anni si potrebbe considerare un valore soglia di PSA >10 ng o un Gleason score = 7 (3+4). Il secondo aspetto della sorveglianza è la selezione dei pazienti per l’intervento radicale dopo il periodo di osservazione. L’approccio utilizzato prevede la rilevazione di un tempo di raddoppiamento del PSA (PSA Dubling Time) <3 anni o un grado di progressione secondo il Gleason score ≥7. Questi criteri sono apparsi più accurati del PSA velocity >2 ng/ml/anno che determina un sovratrattamento dei casi stabili.

Queste sono indicazioni e non regole e tutto il processo è condizionato dal giudizio clinico. La progressione a un Gleason score 3+4 in un soggetto giovane può rappresentare un’indicazione all’intervento, mentre in un paziente anziano con comorbidità si può ancora garantire l’attesa. I pazienti con tumore della prostata indolente, a basso rischio di mortalità, possono essere risparmiati dagli effetti collaterali di una terapia aggressiva. Perché questo si possa realizzare è necessaria una conferma da studi randomizzati in cui il medico dovrà considerare la comunicazione come la maggior sfida tra le opzioni terapeutiche per questa tipologia di pazienti.

Bibliografia

  1. Klotz L Active surveillance for favorable-risk prostate cancer: who,how and why? Nat Cl Pract Onc 2007;4:692-7
  2. Albertsen P et al.href=”http://jama.ama-assn.org/cgi/content/full/293/17/2095″ target=”_blank”>20-Year outcomes following conservative management of clinically localized prostate cancer.JAMA 2005;293:2095-2101
  1. Come il fumo che ti resta addosso
  2. La figura retorica scelta dagli autori di un breve contributo uscito sugli Archives of Internal Medicine è particolarmente suggestiva: la sensazione di perdita, impotenza e lutto vissuta dal personale sanitario ogni qualvolta un paziente muore ha caratteristiche terribilmente simili a quelle che lascia il fumo, intangibile, inafferrabile, ma così invadente e pervasivo.
  3. Piccolo campione di studio (bene assortito, garantiscono gli autori): solo 20 oncologi di centri ospedalieri canadesi. Metodologia elettivamente qualitativa: intervista semi-strutturata registrata e successivamente trascritta. Obiettivo: comprendere le reazioni emotive del curante successive alla morte del malato e le modalità con cui tali reazioni influenzino la vita personale e professionale del medico.
  4. Quali i risultati? L’oncologo patisce la responsabilità nei confronti del malato: la durezza dei dati clinici e di laboratorio è lo scoglio contro il quale si infrange la sicurezza del medico, determinando una sensazione di impotenza, colpevolezza e insufficienza. La strategia – consapevole o meno – è quella di cercare (per quanto possibile) di confinare le difficoltà sperimentate nell’incontro col malato in una dimensione esterna alla propria vita privata e, ancor prima, adoperarsi perché sia sempre conservata una – per così dire – “distanza di sicurezza” tra sé e il malato.
  5. Forse è superfluo aggiungere che la gran parte dei medici coinvolti nello studio ha dichiarato di riuscire solo in parte a mettere in atto questi meccanismi di difesa, finendo con l’essere fortemente coinvolto emotivamente nella storia del paziente. Precisazione importante ma forse ovvia, se pensiamo al ruolo che il supporto psicologico ha nella strategia terapeutica in ambito oncologico. Sostegno che trova ancora maggiori motivazioni se si considera l’elevata incidenza di depressione dei malati oncologici. Come leggiamo sulla rivista Recenti Progressi in Medicina, “la presenza di sintomi e vissuti depressivi compromette la qualità di vita del paziente, interferisce con l’adesione terapeutica, si associa a tempi di ospedalizzazione più lunghi e può influenzare negativamente la prognosi e la sopravvivenza: di qui l’utilità di una pratica clinica standardizzata di rilevazione tempestiva e accurata e, conseguentemente, di trattamento”.
  6. La presa in carico del malato di cancro non può che essere “comprensiva”; di conseguenza, è molto probabile sia fonte di tensione emotiva e psicologica nel personale sanitario.
  7. ▼ Graneh L, et al.Nature and Impact of grief over patient loss on oncologists’ personal and professional lives. Arch Intern Med 2012; 21 DOI: 10.1001/archinternmed.2012.1426
    ▼Annunziata MA, Muzzatti B. Misurare la depression in oncologia: rilevanza, problemi, modalità. Recenti Prog Med 2011;102:444-6. 

 777 total views

Vitamina D e prevenzione del tumore al seno

Il cancro della mammella rimane la seconda causa di mortalità per neoplasie nel mondo occidentale, nonostante gli screening di popolazione e le terapie aggressive di questi ultimi anni. Poiché molte donne muoiono ancora per questa malattia e per la tossicità dei trattamenti ad essa correlati, gli sforzi più recenti degli oncologi sono stati focalizzati sull’identificazione di trattamenti efficaci di farmaco-prevenzione. L’attenzione è stata rivolta principalmente ai farmaci antiestrogeni, come il tamoxifen e il raloxifene, che hanno dimostrato di poter prevenire circa il 50% dei tumori invasivi in donne ad alto rischio di cancro della mammella, ma l’uso di queste molecole è stato limitato dai loro effetti tossici.

Attualmente è disponibile un corpo di evidenze che indica la vitamina D come molecola promettente nella prevenzione di molte malattie. La sua azione di vitamina lipo-solubile è essenziale per la formazione dell’osso e nella omeostasi del calcio e, da numerosi studi epidemiologici, è emersa una correlazione tra i suoi livelli e la riduzione dell’incidenza di diverse neoplasie (1 ). Inoltre molti studi caso-controllo e di coorte hanno evidenziato una correlazione inversa tra

assunzione di vitamina D e incidenza di neoplasia mammaria, con esito sfavorevole in soggetti con neoplasia in fase iniziale associata a deficit di vitamina D L’ipotesi che l’effetto antiproliferativo della vitamina D sia maggiore in cellule con recettori ormonali positivi e gli scarsi risultati deducibili da studi epidemiologici hanno indotto un gruppo di ricercatori canadesi a studiare se l’esposizione ad elevati livelli di vitamina D durante l’adolescenza e la giovinezza è stato associata ad un ridotto rischio nella vita di sviluppare un tumore della mammella.

L’American Journal of Epidemiology (3 ) ha pubblicato i dati relativi a 759 casi e 1135 controlli arruolati in uno studio caso-controllo in un periodo di 3 anni (2003-2005) in cui è stata studiata l’associazione tra il grado di assunzione di vitamina D specifica per l’età e l’assetto recettoriale per Estrogeni (ER) e Progesterone (PR) del tumore della mammella. Mentre l’aumentata assunzione di vitamina D, definita attraverso il grado di esposizione al sole e alla dieta, era associata in maniera molto consistente a una riduzione del rischio di neoplasia mammaria nei 450 casi con ER+/PR+ (OR = 0.76, 95% IC: 0.59, 0.97 per uso di olio di merluzzo nell’adolescenza), la riduzione del rischio associato a neoplasie mammarie, nei 110 casi con recettori negativi ER-/PR- o nei 199 casi con recettori misti ER+/PR-, era simile ma non significativa con rispettivamente un OR=0.74 e OR=0.79.

Questi dati permettono di concludere che l’esposizione alla vitamina D durante l’adolescenza e la giovinezza (con l’assunzione di olio di merluzzo, latte, supplementi vitaminici ed esposizione al sole) è associata ad una riduzione del rischio per neoplasie della mammella con recettori positivi (ER+/PR+) con differenze minime per gli altri subset di casi (ER-/PR-, ER+/PR-). Questa evidenza sostiene le raccomandazioni della National Osteoporosis Foundation favorevoli all’assunzione regolare e con dosaggi adeguati di vitamina D (800 UI/die).

In conclusione per ottenere un effetto di prevenzione della vitamina D nella neoplasia della mammella sembra che siano critici i tempi lunghi di supplementazione e le alte dosi. Saranno utili nuovi trial per confermare questi dati e per chiarire anche i risultati del trial WHI (Women’s Health Initiative) pubblicati sul Journal of the National Cancer Institute (4 ), in cui non sono documentati effetti preventivi della vitamina D, in associazione al calcio, sul rischio di sviluppare un tumore della mammella e questo per questo per fattori di confondimento intrinseci al trial e correlati a limiti di tempo e dosi di supplementazione che possono aver compromesso l’efficacia della farmaco-prevenzione.

Bibliografia

  1. Giovannucci E. Vitamin D and cancer incidence in the Harvard cohorts. Ann Epidemiol. 2008 ; doi:10.1016/j.annepidem.2007.12.002
  2. Goodwin P, Ennis M, Pritchard KI, Koo J, Hood N. Frequency of vitamin D (Vit D) defi ciency at breast cancer (BC) diagnosis and association with risk of distant recurrence and death in a prospective cohort study of T1-3, N0 – 1, M0 BC. Paper presented at the annual meeting of ASCO; May 30, 2008; Chicago, IL. J Clin Oncol. 2008; abstract 511, 15s (Part 1 of 2): 9s.
  3. Blackmore KM et al. Vitamin D from dietary intake and sunlight exposure and the risk of hormone-receptor-defined breast cancer. Am J Epidemiol 2008;168:915-24.
  4. Chlebowski RT et al. Calcium plus vitamin D supplementation and the risk of breast cancer J Natl Cancer Inst. 2008;100: 1581 – 1591

 1,020 total views

Diagnosi differenziale delle cefalee: come evitare gli errori più comuni

Chiunque si ponga di fronte ad un problema clinico, si trova ad affrontare una prima ma fondamentale questione: inquadrare il sintomo nel contesto di una sindrome o di una malattia, raccogliere cioè quegli elementi che nel loro insieme ci indirizzano verso un inquadramento diagnostico. E tutto ciò non appaia pleonastico: qualunque medico che si trova ad affrontare una cefalea, si trova di fronte ad un sintomo (il mal di testa, la cefalea appunto) molto spesso aspecifico e che solo dopo un’accurata raccolta anamnestica può essere inserito in un contesto sindromico definito.
Parliamo di anamnesi, non di “accertamenti”, in quanto ancora oggi rimangono fondamentali le parole ed il tempo che noi impieghiamo con il nostro paziente. Dobbiamo, in questo contesto come in altri, imparare ad ascoltare la storia clinica di chi ci sta di fronte, valorizzando gli elementi che ci interessano ai fini diagnostici, eliminando quanto ritenuto superfluo. Solo successivamente a questo processo che ci porta alla formulazione di alcune ipotesi diagnostiche, si potrà prendere in considerazione l’effettuazione di accertamenti che possano confutare o confermare le nostre supposizioni.

Per il Medico di Medicina Generale (MMG) così come per il Medico di Pronto Soccorso (secondo il setting assistenziale nel quale ci troviamo ad operare) che si trova ad affrontare un paziente con cefalea, compito fondamentale è quello di operare una distinzione tra Cefalee Primarie (forme nelle quali la cefalea ed i sintomi associati costituiscono il “fulcro” del problema) e Cefalee Secondarie , nelle quali la cefalea è un sintomo che a volte nasconde patologie gravi, potenzialmente pericolose per la vita.

Come è possibile orientarsi nella diagnosi differenziale delle cefalee?
Da alcuni lavori presenti in letteratura, sappiamo che quando ci troviamo di fronte a una cefalea di intensità disabilitante (che limita grandemente o annulla le attività quotidiane del paziente), associata a nausea e fotofobia , abbiamo il 93 % di probabilità di essere di fronte ad un’emicrania1,2 .

Questo dato riveste un’importanza straordinaria nella gestione di un paziente emicranico da parte del MMG: con pochi elementi clinici possiamo formulare una diagnosi e quindi avanzare una prognosi, iniziare un trattamento adeguato fornendo rapidamente delle risposte ad un paziente che spesso ci troviamo in ambulatorio lamentando queste problematiche. Non solo: adottando uno strumento di questo genere si può pensare di “prendere confidenza ” con questa diagnosi e quindi di imparare a gestire il paziente cefalalgico, inviando a visita specialistica neurologica solo quei pazienti che magari necessitano di terapia preventiva, che hanno forme “difficili”, con resistenza alla terapia dell’attacco.
Si può realizzare così una sorta di stratificazione dell’intensità di cura fornita al paziente cefalalgico3 , oggi auspicata e perseguita in ogni ambito della professione medica in quanto noi dobbiamo fornire a quel paziente ciò di cui ha bisogno, per la sua patologia, in quel momento.

E’ chiaro però che situazioni così insidiose come le cefalee devono sempre essere osservate e valutate attentamente cercando di cogliere la presenza di eventuali “segnali d’allarme ” che ci indicano la presenza di forme secondarie, come già detto a volte pericolose per la vita. Chiaramente la contemporanea presenza di cefalea ed alterazioni dell’obiettività neurologica ci indirizza con certezza verso una forma secondaria: in questo caso il sintomo “cefalea” perde importanza a favore di segni chiari ed evidenti di disfunzione diffusa o focale, permanente o transitoria, del Sistema Nervoso Centrale.
Stesso discorso vale per le forme di cefalea associate a segni sistemici, come la febbre ed il rigor nucale, che ci indirizzano chiaramente verso forme secondarie a patologie infettive.
Ci sono invece forme più subdole, meno eclatanti, di cefalea, accompagnate da un’obiettività neurologica negativa, per le quali dobbiamo utilizzare alcuni principi generali.
Va innanzitutto valutato il decorso nel tempo: l’assenza di modificazioni cliniche (nel senso di variazione di intensità, durata o frequenza degli attacchi) depone per una Forma Primaria. Per contro una cefalea di recente insorgenza (specie se in individui con più di 50 anni, con storia pregressa di neoplasie o di HIV positività) va sempre studiata (neuroimaging, indici di flogosi) essendo fortemente suggestiva di secondarietà.

Ancora è importante valorizzare la modalità di insorgenza del dolore: una cefalea violenta, “a colpo di pugnale ” che il pz riconosce come non abituale, specie se associata a lipotimia o vomito all’esordio, ci deve far pensare ad una emorragia sub aracnoidea. Questa è la vera “spina nel fianco” del medico che affronta una cefalea: circa il 5% delle emorragie sub aracnoidee non vengono diagnosticate all’esordio (specie le forme paucisintomatiche) e questo è ancora più grave se si pensa che questa patologia abbia un’altissima mortalità in fase acuta4 . Infine le modalità di scatenamento del dolore (la tosse, la manovra di Valsalva, l’ortostatismo) sono da valutare attentamente nello screening delle forme secondarie in quanto si possono sospettare processi espansivi (specie in fossa cranica posteriore) o forme congenite (come la malformazione di Arnold Chiari).

In conclusione il MMG, così come il Medico di Pronto Soccorso, che si trovano ad operare in setting assistenziali particolari debbano porsi come obiettivo prioritario quello di formulare una diagnosi differenziale tra Cefalee Primarie e Cefalee Secondarie, lasciando poi ad un’eventuale valutazione neurologica successiva la possibilità di una diagnosi definita delle diverse forme Primarie. L’utilizzo da parte del MMG di semplici questionari basati sul rilievo clinico anamnestico di pochi sintomi associati, può portare ad una diagnosi e ad un trattamento efficace. La valutazione delle caratteristiche cliniche e del loro andamento temporale ed il rilievo dei così detti segnali d’allarme rappresenta un ausilio fondamentale che comunque deve sempre essere integrato da un’accurata valutazione obiettiva neurologica5 .

Bibliografia

  1. Lantéri-Minet M. The role of general practitioners in migraine management. Cephalalgia, 2008,28;Suppl. 2
  2. LiptonRB, Bigal ME. Ten Lessons on the Epidemiology of Migraine. Headache 2007;47; Suppl 1
  3. Saper J. Stratification of Headache Care. Headache 2007;47;Suppl 1
  4. Vermuellen J. Missed diagnosis of subarachnoid hemorrhage in emergency department. Stroke 2007;38, 1216-21
  5. Sempere AP et al. Neuroimaging in the evaluation of patients with non acute headache. Cephalalgia 2005 Jan;25(1):30-5

 660 total views

La conferenza internazionale sulla Malattia di Alzheimer a Chicago. Demenza: cosa c’è di nuovo?

Indicazioni alla diagnosi precoce, agli stili di vita e a testare nuovi farmaci

I fattori di rischio della demenza vanno ricercati molto tempo prima dell’esordio della malattia. Tre recenti studi (Neurology 2008, 71: 1051-6, 1057-64 e 1065-71) hanno dimostrato che:

  1. esiste un’associazione tra minori abilità cognitive in età infantile e maggior rischio di demenza vascolare,
  2. esiste un’associazione tra obesità androide in età media e maggior rischio di demenza,
  3. esiste un’associazione tra resistenza insulinica e maggior rischio di demenza vascolare.

In un altro studio, un elevato grado di istruzione oppure un’attività intellettualmente impegnativa hanno dimostrato di ritardare la comparsa di sintomi di demenza da malattia di Alzheimer (www.neurology.org). Questo studio, condotto all’Istituto San Raffaele di Milano, ha impiegato nella valutazione dei casi anche il metodo di misurazione dell’utilizzazione cerebrale del glucosio da parte dei neuroni mediante la tomografia a emissione di positroni (PET): meno glucosio viene consumato, più è alto il deterioramento neuronale.

L’esercizio fisico risulta efficace nel mantenere le abilità cognitive: tra gli ultracinquantenni con iniziali amnesie il gruppo di coloro che praticavano attività fisica ha dimostrato dopo 18 mesi di follow up risultati migliori nei testi di valutazione cognitiva rispetto al gruppo di coetanei sedentari (http://jama.ama-assn.org).

Questi dati sottolineano l’importanza degli stili di vita salutari e del ruolo che il medico curante può avere nell’incoraggiare gli assistiti a praticare attività fisica, a seguire un’alimentazione corretta per controllare il peso corporeo, a coltivare interessi intellettuali per allenare la memoria, a riconoscere precocemente i sintomi di demenza e modificare i fattori di rischio riconosciuti.
Una condizione precoce di rischio è il “Deterioramento Cognitivo Lieve” (MIC = Mild Cognitive Impairment) caratterizzato da: disturbo soggettivo di memoria, disturbo obiettivo di memoria, integrità delle altre funzioni cognitive, conservata autonomia nella vita di tutti i giorni e assenza di criteri per la diagnosi di demenza. Il deterioramento cognitivo lieve è stato descritto per la prima volta nel 1999 da Ronald Peterson della Mayo Clinic di Rochester (USA) ed oggi è ancora controverso se è da considerare uno stadio precedente la demenza o solo un fattore di maggior rischio: dopo 4 anni dall’esordio il 50% dei pazienti con MCI presenta sintomi di malattia di Alzheimer. Ma non tutti i pazienti con MCI diventano dementi: alcuni mantengono una stabilità clinica e altri mostrano un recupero cognitivo.

Nell’Unione Europea oggi vivono 6,1 milioni di persone affette da demenza, secondo le stime raccolte da Maurice O’Connell, presidente di Alzheimer Europe (www.alzheimer-europe.org).La prevalenza di demenze negli ultraottantacinquenni è stimata intorno al 30% (NEJM 2004, 351: 56-67). Gli anziani dementi vengono in maggioranza assistiti dai familiari a domicilio e questi familiari nel 90% dei casi giudicano insufficiente l’assistenza socio-sanitaria ricevuta in Italia, secondo una ricerca condotta dall’ISPO, Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione (www.fondazione-manuli.org).
Le dimensioni crescenti del fenomeno hanno indotto Nicolas Sarkozy, in qualità di presidente di turno dell’Unione Europea, a promuovere entro il 2010 l’adozione di un piano europeo contro l’Alzheimer seguendo tre direttrici: la ricerca, l’assistenza e l’etica.

In merito alla ricerca, nella Conferenza Internazionale sulla Malattia di Alzheimer (ICAD), tenutasi a Chicago il 26-31 luglio 2008, sono state presentate le evidenze finora disponibili.

  • I ricercatori hanno concordato che gli studi sull’efficacia dei farmaci dovrebbero essere condotti su pazienti in cui la demenza è ancora allo stadio iniziale e non da lieve a moderato come definito dai criteri NINDS-ADRDA.
  • l’anticipazione della soglia di rilevamento della demenza probabilmente sarà praticabile attraverso l’impiego di marcatori liquorali quali la proteina tau e l’ABeta42, tecniche di imaging e alcuni test cognitivi. In Italia il Centro Alzheimer Fatebenefratelli di Brescia guida questo filone di studi.
  • La conferma del maggior rischio di demenza multinfartuale correlato all’uso degli antipsicotici atipici per i disturbi del comportamento (JAMA 2005, 293: 596-608), ha indotto a raccomandare prudenza ai medici nell’impiego di questi farmaci nei pazienti con demenza (www.bmj.com).
  • I ricercatori hanno inoltre presentato studi sulle ipotesi eziologiche per la demenza della neurotossicità indotta dall’amiloide, dalla proteina tau, dall’infiammazione cronica.
  • Il blu di metilene, già utilizzato come disinfettante urinario, si è mostrato capace di ridurre di oltre l’80% la proteina tau neurotossica e è quindi studiato da 2 anni all’Università di Aberdeen in Scozia in un gruppo di 321 pazienti nell’ipotesi che possa ridurre la progressione della demenza di Alzheimer.
  • L’etarnecept, già usato come antinfiammatorio per curare psoriasi e artrite reumatoide, è stato studiato per i suoi presunti effetti positivi sulla memoria negli USA (BMC Neurology, luglio 2008), l’antistaminico dimebon è sperimentato in Russia per i suoi presunti effetti sullo stato cognitivo e sul comportamento (www.thelancet.com) e così pure molti altri farmaci. Infine è stato avviato lo studio per un vaccino di seconda generazione (ACC-0001) prodotto da Elan e Wyeth con l’approvazione della FDA negli USA La prudenza è d’obbligo per non creare false speranze.

01-12-UNV-2009-IT-2662-W 

 674 total views

La qualità della vita nel paziente affetto da diabete mellito

La qualità della vita (QdV) è universalmente riconosciuta come un obiettivo fondamentale dell’assistenza sanitaria, nonostante la sua valutazione non sia ancora entrata a pieno titolo nella pratica clinica. Soprattutto nelle patologie croniche, in continua espansione, le finalità degli interventi medici sono sempre più rivolte non solo ad “aggiungere anni alla vita”, ma anche e soprattutto ad “aggiungere vita agli anni” (Van de Bos GAM et al Quality in Health Care 1999 ) 11 . Per tali ragioni, la valutazione dei risultati dell’ assistenza nelle malattie croniche, richiede un ampliamento degli indicatori abitualmente utilizzati, con l’inclusione di misure delle capacità funzionali del soggetto e della percezione soggettiva del suo stato di benessere.
L’importanza di includere la QdV fra i parametri di valutazione della qualità della cura è efficacemente sottolineata dall’American College of Physicians che dichiara: “la valutazione della funzionalità fisica, psicologica e sociale del paziente, costituisce una parte essenziale della diagnostica clinica, un determinante cruciale delle scelte terapeutiche, una misura della loro efficacia e una guida per la pianificazione della cura a lungo termine”.

La valutazione della qualità della vita è ritenuta un indicatore fondamentale, non solo per valutare i risultati dell’assistenza, ma anche per stabilire l’efficacia di nuovi trattamenti nell’ambito di sperimentazioni cliniche controllate. A parità di efficacia clinica, infatti, si tende a privilegiare quei trattamenti che più riescono a incidere in senso positivo (o a non incidere negativamente) sulla percezione soggettiva di stato di benessere.
Nel 1989, i rappresentanti dei dipartimenti di salute pubblica e le associazioni dei pazienti da tutti i paesi europei, si sono incontrati con gli esperti del diabete a St Vincent in Italia, sotto l’egida del WHO (Word Health Organization ) e dell’IDF (International Diabetes Federation ). Risultato dell’incontro fu la famosa Dichiarazione di St Vincent (Krans HMJ et al The St Vincent Declaration Action Programme Implementation Document”. Copenhagen, WHO, 1995 )8 , che consiste in una serie di raccomandazioni il cui obiettivo è quello di migliorare sia gli outcomes clinici che le condizioni sociali dei soggetti affetti da diabete attraverso specifiche linee guida. Tale dichiarazione contiene inoltre raccomandazioni ai team diabetologici a preservare e migliorare il benessere psicologico dei soggetti diabetici attraverso uno stretto monitoraggio effettuato utilizzando come strumenti questionari standardizzati.

Tale problematica è di particolare rilievo soprattutto alla luce dei dati che dimostrano l’importanza di un controllo intensivo dei principali fattori di rischio al fine della prevenzione delle complicanze diabetiche sia micro che macrovascolari. Non è infatti da sottovalutare il possibile impatto di strategie terapeutiche aggressive sulla qualità di vita dei soggetti diabetici. Interessante notare come da un’indagine condotta su pazienti in terapia insulinica sia con diabete tipo 1 che tipo 2, il buon controllo metabolico risultava essere l’obiettivo più importante per la maggioranza dei pazienti diabetici inclusi in uno studio, ma emergeva la sensazione che questo aspetto venisse enfatizzato maggiormente dal proprio medico curante che invece sembrava sottostimare l’importanza della qualità della vita attuale rispetto al paziente stesso, a sottolineare il fatto che, nelle malattie croniche, la qualità di vita personale, quotidiana deve essere soppesata contro l’impatto degli sforzi richiesti per mantenere una buona qualità di vita futura (stretto controllo metabolico per la riduzione delle complicanze a lungo termine) (Jardena J. Puder et al Swiss med WKLY 2006 )7 .

Attualmente sono disponibili pochi studi sulla QdV in pazienti diabetici in Italia. Numerosi questionari, fra quelli più utilizzati a livello internazionale, sono oggi disponibili tradotti in lingua italiana e adeguatamente validati.
In ambito diabetologico sono stati utilizzati per la valutazione della QdV, questionari definiti come generici e questionari specifici per la malattia diabetica.
Tra gli strumenti generici, i più utilizzati sono l’SF-36 Health Survey e l’EuroQol (EQ-5D) , che misurano genericamente lo stato di salute ed il Well-being questionnaire (W-BQ22) , composto di 22 domande, che fornisce una misura di sintomatologia depressiva, di ansia e di vari aspetti riguardanti lo stato di benessere mentale.

In particolare, l’EQ-5D, questionario generico composto di 2 parti, è lo strumento utilizzato per la misura della QdV nello studio prospettico UKPDS e dal quale ci si aspettava che facesse emergere differenze nella QdV legata allo stato di salute ed in particolare tra soggetti con o senza complicanze diabetiche. In realtà l’utilizzo di tale strumento è stato deludente. Sono infatti emerse differenze significative solo tra soggetti affetti e non affetti da complicanze macrovascolari, ma si è dimostrato inefficace nello svelare differenze tra soggetti con o senza complicanze microvascolari e soprattutto tra soggetti appartenenti a differenti gruppi di trattamento. (UKPDS 37 Diabetes Care 1999 )10 . Questo aspetto è importante in quanto come precedentemente detto, nella pratica clinica, gli sforzi per ottenere un ottimo compenso glicometabolico e quindi prevenire le complicanze diabetiche, spesso non tengono conto delle possibili conseguenze negative di certe modalità di trattamento sulla qualità della vita del paziente e avere quindi conseguenze sulla compliance del paziente stesso alla terapia consigliata. A tal fine, la WHO e l’IDF hanno sottolineato l’uso di strumenti specifici quali il Diabetes Satisfaction Questionnaire (DTSQ) (Bradley C.et al Diabet Med 1994 )1 . Il DTSQ si è dimostrato efficace nel capire e misurare la soddisfazione al trattamento in corso di nuove terapie o strategie terapeutiche: ad esempio, ha permesso di dimostrare una migliore soddisfazione dei soggetti con l’uso della insulina pronta Lispro vs l’insulina standard regolare legata ad una maggiore flessibilità dei pasti e minor rischio di ipoglicemie. (Howorka K. et al Qual Life Res 2000 )5 e con l’insulina long acting glargine vs l’insulina NPH (Witthaus E.et al Diab Med 2001 )6 .

Sebbene la soddisfazione al trattamento possa influire in modo importante sulla QdV (tanto da poter essere considerata di per sé un aspetto della QdV), il DTSQ di per sé non misura la QdV. E’ necessario infatti valutare non solo la soddisfazione al trattamento di per sé ma anche l’impatto del diabete e delle strategie terapeutiche su vari aspetti della vita al fine di definire l’impatto reale sulla QdV. L’Audit of Diabetes-Dependent Quality of Life (ADDQoL) è uno strumento di misura specifico per il diabete che è stato sviluppato dal più generico SEIQoL (Schedule for the Evaluation of individual Quality of Life) che misura l’impatto delle malattie croniche sulla QdV (Bradley C. et al Proceeding of the British Psycological Society 1999 )2 . In 2 studi separati, l’uso dell’ADDQoL ha permesso di dimostrare un impatto maggiormente negativo del diabete sulla qualità della vita nei soggetti affetti da complicanze diabetiche e in pazienti insulino-trattati rispetto a soggetti in terapia con antidiabetici orali o con sola dieta (Bradley C. et al Qual Life Res1999 3 ; Speight J. et al Diabetologia 2000 9 ). Un altro aspetto evidenziato dall’ADDQol nell’ambito dello studio DIABQoL+ è la forte influenza negativa della restrizione dietetica sulla QdV suggerendo che strategie terapeutiche che aumentino la flessibilità del regime dietetico senza andare a discapito del controllo metabolico possano migliorare la QdV in molti pazienti diabetici (Bradley C. et al Diab Metab Res and Rev 2002 )4 . In conclusione, una cattiva qualità di vita ha un impatto negativo sulle capacità di autogestione della malattia e sugli esiti clinici a medio/lungo termine. E’ pertanto fondamentale migliorare l’assistenza sulla qualità di vita a breve termine grazie ad una migliore comunicazione ed una maggiore attenzione agli aspetti rilevanti per il paziente e alle condizioni che più possono influire sul suo benessere soggettivo traendo informazioni dai vari questionari a disposizione che dovrebbero essere strumenti da utilizzare nella pratica clinica quotidiana.

Bibliografia

  1. Bradley C., Gamsu DS., Guidelines for encouraging psycological well-being: report of a working group of the Worl Health Organization Regional Office for Europe and International Diabetes Federation European region St Vincent Declaration Action Programme for Diabetes Diabet Med 11:510-16, 1994
  2. Bradley C. Achieving accessibility with quality: questionnaire measurement of condition-specific individualised quality of life Proceeding of the British Psycological Society 7(Supp2):143, 1999
  3. Bradley C., Todd C., Gordon T., Symonds E., Martin A., Plowright R. The development of an individualised questionnaire measure of perceived impact of diabetes on quality of life: the ADDQoL. Qual Life res 8:79-91, 1999
  4. Bradley C., Speight J Patients perceptions of diabetes and diabetes therapy:assesing quality of life. Diabetes Metabolism Research and reviews; S64-S69, 2002
  5. Howorka K., Pumprla J., Schlusche C., Wagner-Nosiska M., Shabmann A., Bradley C., Dealing with ceiling baseline treatment satisfaction level in patients with diabetes under flexible, functional insulin treatment: assessment of improvements in treatments satisfaction with a new insulin analogue. Qual Life Res 9:915-930, 2000
  6. Witthaus E., Stewart J., Bradley C. Treatment satisfaction and psycological well-being with insulin glargine compared with NPH in patients with Type 1 Diabetes Diab Med 16:619-625, 2001
  7. Jardena J. Puder, Jerome Endrass, Natascha Moriconi, Ulrich Keller., How patients with insulin treated type 1 and type 2 diabetes view their own and thei physician’s treatments goals. Swiss med WKLY 136:574-580, 2006
  8. Krans HMJ, Porta M., Keen H., Staher johansen K (Eds). Diabetes care and research in Europe: The St Vincent declaration Action Programme Implementation document. Copenhagen, WHO, 1995
  9. Speight J., Bradley C., ADDQoL indicates negative impact of diabetes on quality of life despite high levels of satisfactions with treatments. Diabetologia 43(Suppl 1):A225, 2000
  10. UK Prospective Diabetes Study Group Quality of life in type 2 diabetic patients is affected by complications but not by intensive policie to improve blood glucose or blood pressure control (UKPDS 37) Diabetes Care 22:1125-1136, 1999
  11. Van de Bos GAM, Triemstra AHM. Quality of life a san instrument for need assessment and outcomes assessment of health care in chronic patients Quality in health care 8:247-52, 1999)

Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo al riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice

02-2012-UNV-2009-IT-2745-W 

 954 total views

Due recenti pubblicazioni aiutano il medico di famiglia nella diagnosi di depressione

Il disturbo depressivo una delle patologie croniche più comuni e di più difficile diagnosi per il medico di famiglia: per fare un esempio, negli Stati Uniti si stimano in 19 milioni gli adulti sofferenti di depressione, con costi di miliardi di dollari ogni anno. Il mancato riconoscimento dei sintomi di un possibile stato depressivo ed una prescrizione non appropriata hanno un evidente e non trascurabile impatto sociale. Va considerata anche l’inevitabile ‘responsabilizzazione’ del medico di famiglia, chiamato ad un difficile compito. Gli si chiede infatti di saper riconoscere la componente psichica dei sintomi riferiti dal suo assistito, senza trascurare nel contempo l’eventuale patologia organica, comunque integrando la prescrizione terapeutica con opportune indicazioni per il controllo efficace del disturbo affettivo.

E’ stato recentemente pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine un documento contenente i consigli e suggerimenti al riguardo degli esperti americani dell’U.S. Preventive Services Task Force. Questi suggeriscono al medico generico di porre due semplici domande, che possono aiutare ad individuare una possibile componente depressiva dei disturbi somatici riferiti dal proprio assistito: “Nelle ultime due settimane si sentito giù, depresso o disperato?”, “Ha provato scarso interesse od insoddisfazione nelle sue abituali attività?”. Una risposta affermativa indicherà l’opportunità di un approfondimento diagnostico specialistico, che consentirebbe di riconoscere il 90% dei casi di depressione maggiore presenti nella popolazione afferente ai servizi di medicina di base.

Sull’opportunità che il medico di famiglia trovi tempi e modi per indagare con particolare attenzione anche lo stato emozionale dei propri assistiti concordano Wu, Parkerson e Doraiswamy, del Duke University Medical Center, che allo scopo suggeriscono un breve questionario, da somministrare nella sala d’attesa prima della visita ambulatoriale. Una ricerca da loro condotta dimostra infatti che il riconoscimento di uno stato depressivo possibile solo con strumenti specifici e soprattutto che sintomi comuni, come la cefalea, i dolori articolari ed i dolori addominali, non possono essere considerati indicatori attendibili di uno stato di ansia o di depressione, pur essendo frequente la loro coesistenza con un disturbo dell’affettività. E’ utile fare riferimento anche al nostro Paese: il quadro non differisce di molto e i medici di medicina generale devono rivolgere molta della loro attenzione ai pazienti anziani.

I risultati di un recente studio epidemiologico nazionale, promosso dalla Società Italiana di Medicina Generale e coordinato dall’Università di Bologna, confermano l’elevata prevalenza (9% circa) della patologia depressiva (definita come episodio depressivo in atto, secondo i criteri dell’ICD-10) negli ultrasessantenni afferenti alle strutture sanitarie di base, senza sostanziali differenze geografiche tra Nord e Sud. Dalla ricerca italiana emerge anche che le manifestazioni cliniche nell’anziano non differiscono da quelle del soggetto più giovane; la depressione in età geriatrica si caratterizza invece per la frequente coesistenza di una patologia organica e per l’associazione ad una significativa disabilità. La disabilità determina un aumento dei costi sociali ed incide ovviamente sulla qualità di vita individuale, motivando un più frequente ricorso dell’anziano depresso al consulto medico.

Bibliografia

  1. U.S. Preventive Services Task Force.
    Screening for depression: recommendations and rationale.
    Ann Intern Med 2002; 136: 760-764. [testo completo]
  2. Wu LR, Parkerson GR Jr, Doraiswamy PM.
    Health perception, pain, and disability as correlates of anxiety and depression symptoms in primary care patients.
    J Am Board Fam Pract 2002; 15(3): 183-190. [testo completo].
  3. Whooley MA, Avins AL, Miranda J, Browner WS.
    Case-finding instruments for depression. Two questions are as good as many.
    J Gen Intern Med 1997; 12: 439-45.
  4. Berardi D, Leggieri G, Ceroni GB, et al.
    Depression in primary care. A nationwide epidemiological survey.
    Fam Pract 2002; 19 (4): 397-400.
  5. Berardi D, Menchetti M, De Ronchi D, Rucci P, Leggieri G, Ferrari G.
    Late-Life Depression in Primary Care: A Nationwide Italian Epidemiological Survey.
    Journal of the American Geriatrics Society 2002; 50 (1): 77
  1. Funzionalità delle HDL e rischio cardiovascolare
  2. Fonte www.sisa.it
  3. Il legame tra HDL (High Density Lipoprotein) e rischio di malattie cardiovascolari è più complicato di quanto normalmente si pensi. Anche se numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato un’associazione indipendente tra i livelli plasmatici di HDL e il rischio di malattie cardiovascolari, i risultati degli studi in soggetti con deficit genetici di HDL e gli studi clinici con farmaci in grado di aumentare i livelli plasmatici di HDL hanno mostrato risultati contrastanti.
    Queste differenze potrebbero essere collegate all’eterogeneità delle HDL in termini di composizione, struttura e funzioni biologiche. Per esempio, in soggetti dislipidemici con bassi livelli di HDL, le particelle più piccole e dense quali le HDL 3 sono meno efficaci nel proteggere LDL (Low Density Lipoprotein) dall’ossidazione. Questa osservazione ha portato a suggerire che la funzionalità delle HDL possa essere importante tanto quanto i livelli plasmatici di HDL-colesterolo. In linea con questa ipotesi si inserisce il recente lavoro pubblicato su NEJM.
    Gli autori hanno ipotizzato che la capacità delle HDL di promuovere l’efflusso di colesterolo (cioè la capacità delle HDL di accettare colesterolo dai macrofagi, azione che riflette l’attività antiaterogena delle HDL) possa essere predittivo della malattia aterosclerotica indipendentemente dai livelli plasmatici di HDL-colesterolo. Gli autori hanno misurato ex vivo la capacità di promuovere l’efflusso di colesterolo da campioni di siero depleti di ApoB (Apolipoprotein B) di volontari sani (n=203) e pazienti con o senza evidenza angiografica di malattia coronarica (>50% stenosi) (442 casi e 351 controlli). Nella coorte di volontari sani è stata inoltra valutato l’ispessimento medio-intimale carotideo (cIMT). In quest’ultima coorte è stato osservata una correlazione inversa e significativa tra la capacità di efflusso del colesterolo e cIMT anche dopo aggiustamento per i livelli di HDL-colesterolo plasmatico o per i livelli di apolipoproteina A-I. In modo sorprendente non è stata trovata alcuna associazione tra i livelli di HDL-colesterolo e cIMT.
  4. Nello studio caso-controllo, i pazienti con malattia coronarica, non solo hanno mostrato livelli più bassi di HDL colesterolo e apolipoproteina A-I, ma anche una minore capacità nel promuovere l’efflusso di colesterolo. L’analisi di regressione logistica ha mostrato che l’aumento della capacità di efflusso del colesterolo è un predittore indipendente della diminuzione del rischio cardiovascolare. Questa associazione rimane robusta anche quando i livelli di HDL colesterolo vengono inclusi come covariata nel modello. Un altro studio, pubblicato recentemente su JACC, ha mostrato come la capacità di efflusso del colesterolo aumenta in pazienti con sindrome metabolica e bassi livelli di HDL trattati con pioglitazone, ma non nei pazienti ipercolesterolemici trattati con statine e che il trattamento si associa con un ritardo nella progressione dell’ateroma. Non è da escludere la possibilità che quest’ultima osservazione possa essere legata agli effetti sui livelli e sulla funzionalità delle HDL.
    Queste osservazioni potrebbero suggerire la rilevanza della misura della capacità di promuovere l’efflusso di colesterolo come indice dell’attività funzionale delle HDL. In aggiunta a questa osservazione è importante sottolineare come la valutazione di altre capacità delle HDL, quali quelle antiossidanti ed antiinfiammatorie, possano contribuire all’azione ateroprotettiva. Infine dal punto di vista clinico la possibilità di migliorare le capacità funzionali delle HDL oltre ad aumentare i livelli circolanti rappresenta un’ importante strategia terapeutica.
  5. Cholesterol efflux capacity, high-density lipoprotein function, and atherosclerosis Khera AV, Cuchel M, de la Llera-Moya M, Rodrigues A, Burke MF, Jafri K, French BC, Phillips JA, Mucksavage ML, Wilensky RL, Mohler ER, Rothblat GH, Rader DJ. N Engl J Med 2011;364:127-35
  6. Lowering the triglyceride/high-density lipoprotein cholesterol ratio is associated with the beneficial impact of pioglitazone on progression of coronary atherosclerosis in diabetic patients: insights from the PERISCOPE Study Nicholls SJ, Tuzcu EM, Wolski K, Bayturan O, Lavoie A, Uno K, Kupfer S, Perez A, Nesto R, Nissen SE. J Am Coll Cardiol 2011;57:153-9
  7. 06-13-UNV-2011-IT-5603-NL
  8. Celiachia: le indicazioni dietetiche da fornire. La diagnosi oggi è più comune in età adulta
  9. Proposto un iter diagnostico differenziato in base alla gravità dei sintomi
  10. Il morbo celiaco è dovuto ad un’intolleranza permanente al glutine causante un’atrofia dei villi dell’intestino tenue ed un conseguente malassorbimento di gravità variabile (NEJM 2007, 357: 1731-1743; Ann Intern Med 2005, 142: 289-298).
    La prevalenza della celiachia è stimata del 1-1,5% della popolazione e viene sottostimata dal numero dei casi diagnosticati (www.ministerosalute.it).
  11. La celiachia può essere del tutto asintomatica o invece manifestarsi in età adulta o pediatrica solo con dolori addominali ricorrenti e/o con ritardo di crescita o bassa statura, calo ponderale, steatorrea, diarrea o stipsi e numerose manifestazioni extra-intestinali (astenia da anemia da carenza di ferro, folati o vitamina B12, iperparatiroidismo e osteopenia da carenza di vitamina D e calcio, displasia dello smalto dentario, tetania da ipocalcemia, emorragie e porpora da carenza di vitamina K, xeroftalmia da carenza di vitamina A, edemi da enteropatia protido-disperdente con ipoalbuminemia, ipertransaminasemia da epatite autoimmune, alopecia, dermatite erpetiforme, stomatite aftosa, ecc.). La celiachia può associarsi ad altre malattie autoimmuni e se non diagnosticata o non curata può essere complicata da coliti, linfomi e altre neoplasie del tenue e dell’esofago (Br Med J 2004, 329: 716-719).
  12. Diagnosi
    Sono test diagnostici di screening per la celiachia la ricerca nel siero di anticorpi anti-transglutaminasi, anti-endomisio, anti-gliadina. Il gold standard diagnostico è la biopsia, mediante endoscopia, della mucosa del digiuno che appare appiattita e documenta all’esame istologico l’atrofia dei villi intestinali, l’iperplasia delle cripte e l’infiltrazione linfocitaria della lamina propria, lesioni reversibili escludendo il glutine dalla dieta.La celiachia non è più intesa come una patologia solo pediatrica in quanto attualmente l’età media di diagnosi è di circa 40 anni.
    La determinazione degli anticorpi anti-transglutaminasi e anti-endomisio ha dimostrato una sensibilità del 78% ed una specificità del 100% per la diagnosi di celiachia (Br Med J 2007, 335: 1244-1247).
    La biopsia intestinale mediante endoscopia per accertare la diagnosi può essere rifiutata dai pazienti in quanto esame invasivo e inoltre l’esito istologico riscontrabile nella celiachia è riscontrabile anche in altre patologie ( tabella 1), ma esistono forme di celiachia sieronegative in cui la biopsia è determinante per la diagnosi. Perciò è stato proposto e validato un iter diagnostico che distingue i soggetti ad alto e basso rischio di celiachia in base alla sintomatologia riferita, proponendo quindi a coloro che presentano disturbi aspecifici come dolore addominale, dispepsia, nausea e vomito solo la determinazione degli anticorpi specifici, proponendo invece a coloro che presentano perdita di peso, anemia e diarrea la determinazione degli anticorpi specifici seguita sempre, anche in caso di loro negatività, dalla biopsia digiunale (Br Med J 2007, 334: 729).
  13. Terapia
    La dieta priva di glutine è l’unica terapia efficace per la celiachia (www.celiachia.it).Il glutine è presente, ad esempio, nelle farine di frumento, orzo, segale, nel malto, crusca, pane, pasta, pizza, dadi da brodo, lievito di birra, birra, caffè solubile, olio di semi vari, margarina, formaggini, dolciumi, biscotti, cioccolate, gelati confezionati che quindi sono cibi vietati. L’avena non contiene glutine, ma può essere contaminata dal glutine. Così pure i cibi industriali preconfezionati o surgelati.
    Sono cibi consentiti nella dieta: riso, mais, miglio, fecola di patate, grano saraceno, soia, tapioca, olio d’oliva, olio di mais e di arachide e di girasole, carni e pesce (non impanati con farine vietate), uova, verdura e frutta fresca, latte e derivati se non è presente un’intolleranza al lattosio secondaria, tè, caffè, spremute e succhi di frutta, vino.
    L’associazione dei pazienti celiaci fornisce un’informazione dettagliata sui cibi permessi che di norma presentano sulle confezioni un logo con la spiga barrata attestante che il prodotto è privo di glutine (www.celiachia.it).Il Sistema Sanitario ai sensi della legge n. 123 del 4 luglio 2005 fornisce gratuitamente ai soggetti con diagnosi accertata prodotti alimentari privi di glutine attraverso le farmacie cui si accede con prescrizione del medico curante facente riferimento al Decreto Ministeriale n.279 del 18 maggio 2001 e prevede la possibilità di fornire alimenti senza glutine nelle mense scolastiche, ospedaliere e di strutture pubbliche.
  14. 01-12-UNV-2009-IT-2647-W
  15. Alopecia androgenica: linee guida per la diagnosi
  16. Raccomandazioni utili per la gestione competente dei pazienti che manifestano perdita di capelli
  17. Key words: alopecia,  linee guida
  18. L’Alopecia androgenetica (AGA) è la più comune condizione che provoca perdita di capelli e colpisce sia gli uomini che le donne. A causa della sua frequenza e della compromissione spesso significativa della vita percepita dai pazienti che ne sono affetti, richiede una consulenza competente del medico, per una corretta diagnosi e un appropriato trattamento. In generale l’AGA è una diagnosi clinica in cui l’anamnesi del paziente e la sua valutazione obiettiva possono orientare ad ulteriori test diagnostici. Considerando che sul problema della perdita dei capelli esistono poche linee guida basate sull’evidenza il Gruppo di Consenso Europeo ha deciso di formulare delle linee guida S1 (1) per la diagnosi di AGA pubblicate sul British Journal of Dermatology e delle linee guida S3 (2) per il trattamento di AGA pubblicate sul Journal of the German Society of Dermatology.
  19. Il documento definisce AGA una progressiva miniaturizzazione non cicatriziale del follicolo pilifero con una distribuzione secondo uno schema caratteristico negli uomini e nelle donne geneticamente predisposti. Negli uomini, l’AGA mostra un modello di distribuzione tipico, ma a volte è possibile osservare nel maschio un modello femminile. Nelle donne, l’AGA si presenta tipicamente con una diffusa riduzione della densità dei capelli nelle aree frontale e centrale, ma possono essere coinvolte anche le regioni parietali ed occipitali. E’ possibile che l’AGA si manifesti nelle donne con un modello maschile. Poiché la diagnosi è clinica, vanno escluse altre malattie che possono coinvolgere il cuoio capelluto e la crescita dei capelli. Poiché esistono trattamenti selettivamente efficaci nell’AGA, come la finasteride, si può considerarne l’impiego per escludere il coinvolgimento di altre patologie con le stesse modalità di caduta dei capelli.
  20. La prevalenza nel maschio di AGA è più elevata nella popolazione caucasica, raggiungendo l’80% negli uomini > 70 anni, rispetto al 60% nella popolazione asiatica. Mancano informazioni per gli uomini africani, mentre negli afro -americani la calvizie è 4 volte meno comune rispetto ai caucasici. La gravità della calvizie del maschio aumenta con l’aumentare dell’età in tutti i gruppi etnici, con i primi segni di profonda recessione frontale e alle tempie che si possono manifestare durante l’adolescenza anche se, nella maggior parte dei casi, l’esordio inizia successivamente. Dopo i 70 anni circa il 60% dei maschi caucasici è calvo. Anche nelle donne la frequenza e la gravità dell’AGA aumentano con l’età. I tassi di prevalenza variano dal 3-6% al di sotto dei 30 anni fino al 29-42% in donne di età > 70 anni, con una frequenza inferiore delle donne orientali rispetto alle europee. Mancano i dati sulle donne africane.
  21. L’AGA è un tratto androgeno-dipendente che porta alla progressiva miniaturizzazione dei follicoli dei capelli negli uomini predisposti geneticamente e con un’aumentata densità dei recettori degli androgeni e/o aumento dell’attività della 5 alfa -reduttasi di tipo II. In questi soggetti i livelli circolanti di androgeni sono normali e l’analisi della famiglia mostra un aumento significativo del rischio di sviluppare AGA negli uomini con padre affetto. Attualmente le evidenze sono a sostegno della tesi che l’AGA sia un tratto poligenico, inoltre sono state riportate associazioni significative con la regione variabile del gene per il recettore degli androgeni sul cromosoma X ed è stato identificato un locus di suscettibilità sul cromosoma 20p11. Il ruolo degli androgeni nella donna è meno certo ed è possibile che le forme di AGA femminile ad esordio precoce e tardivo rappresentino due entità geneticamente distinte. Il Gruppo di Consenso Europeo ha cercato di definire un subset di donne con AGA associata ad alterazioni ormonali.
  22. Sotto il profilo clinico, nella maggior parte degli uomini, l’AGA coinvolge la zona fronto -temporale e il vertice secondo il modello della scala di Hamilton -Norwood, mentre in alcuni casi si sviluppa un assottigliamento diffuso della corona con mantenimento dell’attaccatura frontale analoga al pattern di Ludwig osservato nelle donne. Nella donna si osservano essenzialmente 3 patterns di perdita di capelli: nel primo si evidenzia un diffuso assottigliamento della corona frontale con attaccatura conservata. Il processo viene rappresentato sia dalla scala di Ludwig (a 3 punti) che dalla scala di Sinclair (a 5 punti); il secondo vede un assottigliamento e ampliamento della parte centrale del cuoio capelluto con compromissione della linea frontale come nella scala di Olsen; nel terzo modello si assiste ad un diradamento associato a recessione bitemporale, secondo la scala di Hamilton -Norwood.
  23. Nella valutazione clinica è fondamentale registrare quando si è verificata la prima manifestazione di caduta dei capelli e le sue caratteristiche (cronica o intermittente). I primi sintomi di AGA possono essere il prurito e la tricodinia. Spesso è presente una familiarità, anche se la sua negatività non esclude la diagnosi. Vanno escluse condizioni concomitanti come la carenza di ferro, che spesso determina perdita diffusa di capelli nelle donne, o altre cause di effluvium diffuso come infezioni gravi o disfuzioni della tiroide. E’ opportuno sondare il comportamento alimentare che, per diete carenti o rapida perdita di peso, può innescare l’effluvium diffuso. L’anamnesi farmacologica è importante perché molti farmaci possono indurre la perdita dei capelli (chemioterapici, steroidi anabolizzanti, ormoni con azione antitiroidea) Un ruolo significativo può esser giocato da alcuni stili di vita come acconciature speciali, fumo, esposizione a raggi UV. Le donne con AGA solitamente hanno una fisiologica funzione ormonale, ma questo non esclude un’attenta anamnesi ginecologica orientata a definire menarca, tipo di ciclo, presenza di menopausa, amenorrea, uso di contraccezione ormonale orale o sistemica, fertilità, gravidanze, chirurgia ginecologica, segni di iperandrogenismo. Negli adolescenti è fondamentale discriminare una perdita di capelli congenita da un’acquisita. L’AGA è una perdita di capelli di tipo acquisito con una distribuzione caratteristica e differisce dall’effluvium diffuso da fattori nutrizionali, dall’alopecia indotta o dal’ipotricosi simplex (congenita). L’AGA senza segni di pubertà precoce comunque non deve esimere dall’acquisire il parere dell’endocrinologo pediatra.
  24. La valutazione clinica comprende l’esame del cuoio capelluto che nell’AGA di solito è normale. Può essere associata una dermatite seborroica che potenzialmente è un fattore aggravante. E’ importante la ricerca dei segni di flogosi, seborrea e di cicatrici. L’alopecia areata e l’alopecia cicatriziale possono mimare un AGA specialmente frontale. E’ possibile che il cuoio capelluto sia atrofico in AGA di lunga durata. Si raccomanda di esaminare la distribuzione dell’alopecia confrontando le aree frontale occipitale e temporale. In alcune donne con AGA è possibile osservare un’atrichia focale di pochi millimetri di diametro. Nei maschi l’AGA si presenta con una distribuzione di tipo maschile per recessione bitemporale e/o recessione e diradamento di vertice e talvolta anteriore. Nel 10% degli uomini l’AGA si presenta con un modello femminile. La distribuzione della perdita nelle donne è più diffusa, accentuata nel cuoio capelluto frontale, ma con conservazione dell’attaccatura. Le scale di valutazione più usate nella pratica clinica sono per l’uomo la scala di Hamilton -Norwood e per la donna le scale di Ludwig e di Olsen. Nella donna che consulta il medico in una fase precoce di perdita dei capelli la scala di Sinclair offre più possibilità di categorizzare la paziente rispetto alle altre scale. L’esame della peluria del viso e del corpo, la sua densità e la sua distribuzione orientano verso un’alopecia areata in assenza o netta riduzione delle ciglia e sopracciglia, reperto che può far pensare anche all’alopecia frontale fibrotica. Una crescita di peluria con distribuzione nelle aree terminali del corpo orienta all’ipertricosi etnica, o farmacologica, o all’irsutismo. Acne, seborrea e obesità sono suggestivi di iperandrogenismo. Le alterazioni ungueali possono essere presenti nell’alopecia areata, nel lichen planus e in alcune forme di carenza.
  25. Tra gli esami di laboratorio Ferritina e TSH trovano indicazione solo se supportati dalla storia del paziente e in presenza di un effluvium diffuso. Nei maschi non c’è indicazione all’esecuzione di esami di laboratorio per la diagnosi di AGA. Nei soggetti > 45 anni è raccomandabile il dosaggio del PSA prima di iniziare la terapia con finasteride, farmaco in grado di ridurne la concentrazione sierica e potenzialmente ritardare la diagnosi in caso di neoplasia prostatica. Nelle donne non è necessario esegire un work up endocrinologico e una valutazione interdisciplinare (ginecologo, endocrinologo, dermatologo). E’ necessaria solo se esiste un sospetto clinico di eccesso di androgeni (es. s. ovaio policistico). Sono considerati solo due test di screening: il testosterone totale e la SHBG, utili per l’identificazione dell’iperandrogenismo, ricordando che i dosaggi vanno eseguiti solo in donne che non assumono ormoni come ad esempio i contraccettivi orali per almeno due mesi.
    Nei bambini e negli adolescenti con un’insorgenza precoce di AGA si impone un approccio multidisciplinare tra dermatologo, pediatra ed endocrinologo. Diversi test possono essere impiegati per confermare la diagnosi di AGA come il pull test, la dermatoscopia, la fotografia globale, il tricoscan, il tricogramma, la biopsia, ma l’AGA è essenzialmente una diagnosi clinica e queste linee guida offrono al medico pratico le raccomandazioni essenziali per un rapido e corretto inquadramento.
  26. Bibliografia
    (1) U. Blume -Peytavi; A. Blumeyer; A. Tosti; A. Finner; V. Marmol; M. Trakatelli; P. Reygagne; A. Messenger S1 Guideline for Diagnostic Evaluation in Androgenetic Alopecia in Men, Women and Adolescents Br J Derm 2011;164(1):5 -15
    (2) A. Blumeyer, A. Tosti, A. Messenger, P. Reygagne,V. del Marmol, P. I. Spuls, M. Trakatelli, A.Finner, F. Kiesewetter, R.Trüeb, B.Rzany, U. Blume -Peytavi Evidence -based (S3) guideline for the treatment of androgenetic alopecia in women and in men
  27. DERM-1026727 – 0000-UNV -W-02/2014
  28. Riso bianco e diabete 2, il link c’è
  29. Esiste una correlazione diretta tra consumo di riso bianco e rischio di diabete 2, e questo soprattutto in Asia, dove un massiccio consumo di questo alimento è estremamente diffuso e ha un impatto epidemiologico importante, sul quale si potrebbe intervenire modificando le abitudini alimentari della popolazione. Lo rivela una meta-analisi pubblicata dal British Medical Journal.
  30. Nel mondo esistono più di 140.000 differenti varietà di riso, ma è possibile operare una distinzione amonte tra riso bianco (più correttamente definito “raffinato”) e integrale: nel primo caso il chicco di risoviene lavorato per liberarlo dalle parti tegumentali (lolla o pula). Il riso bianco è quello più consumato in ogni regione del mondo ed è un alimento con elevato indice glicemico (IG), e sono ormai numerosi gli studi che associano una dieta ricca di alimenti con IG alto adun più elevato rischio di insorgenza di diabete 2.
  31. Poiché il consumo pro capite di riso bianco si diversifica molto tra Asia e Paesi occidentali (in Cina, per fare un esempio, il consumo medio è di 4 porzioni al giorno, mentre in Europa si viaggia sotto alle 5 porzioni a settimana) e il rischio di eterogeneità dei dati era in agguato, i ricercatori della Harvard School ofPublic Health coordinati da Qi Sun hanno effettuato una meta-analisi prendendo in esame i dati relativi a 4 studi di coorte prospettici (due svolti in Asia – e precisamente in Cina e Giappone – uno svolto negli Usa euno in Australia) su complessive 352.384 persone, seguite con un follow-up di 4-22 anni.
  32. In tutto 13.284 casi di diabete 2 sono stati accertati nella popolazione dei quattro studi, per un rischio combinato di 1,55 (95% CI 1,20-2,01) in Asia e un rischio relativo 1,12 (0,94-1,33) nei Paesi occidentali. Nella popolazione generale, la meta-analisi dose-rispostaindica che ad ogni porzione quotidiana di riso bianco consumata in più corrisponde un rischio relativo didiabete 2 di 1,11 (1,08-1,14), cioè in sostanza a un aumento del 10% del rischio.
  33. “Un intake elevato di riso raffinato è associato a un significativo innalzamento del rischio di insorgenza di diabete di tipo 2”, concludono gli autori. Essendo stata rilevata una correlazione diretta tra intake e rischio, ovvio che le popolazioni asiatiche siano più esposte, ma la riflessione è generale: occorre innalzare il consumo di cereali integrali diminuendo al contempo quello di cereali raffinati.
  34. ▼Sun Q, Hu EA, Pan A, Malik V. White rice consumption and risk of type 2 diabetes: meta-analysis and systematic review. BMJ 2012;344 doi: 10.1136/bmj.e1454
  35. DIAB-1035041-0000-UNV-W-04/2014 

 989 total views

Statine e osteoartrite

La terapia a base di statine può rallentare la progressione dell’osteoartrite del ginocchio. Lo suggerisce uno studio prospettico pubblicato dagli Annals of the Rheumatic Diseases.

I ricercatori coordinati da Bruno H. Ch. Stricker dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam hanno preso in esame i 2.921 partecipanti al Rotterdam Cohort Study per un follow-up medio di 6,5 anni (il 10,9% del campione era in terapia con statine). All’inizio dello studio, evidenza radiografica di osteoartrite era stata riscontrata in 677 ginocchia e 335 anche dei pazienti, numeri che alla fine dello studio erano arrivati rispettivamente a 939 e 508. Nei pazienti con osteoartrite al ginocchio è stata riscontrata una progressione di malattia più lenta correlata alla terapia con statine:

▼in terapia da meno di 4 mesi: OR 1,77 (95% CI 0,71-4,44, P=0,22)
▼in terapia da 4 a 12 mesi: OR 0,30 (95% CI 0,08-1,19, P=0,09)
▼in terapia da più di 12 mesi: OR 0,49 (95% CI 0,26-0,92, P=0,03).

Nessun rallentamento invece nel caso dell’osteoartrite all’anca. “La differenza di effetti terapeutici tra ginocchio e anca indica una diversa patogenesi”, spiega Stricker. “I nostri dati suggeriscono che l’osteoartrite del ginocchio sia maggiormente influenzata da fattori metabolici quali la secrezione di citochine e adipochine da parte del tessuto adiposo, le patologie vascolari nell’osso subcondrale o gli effetti diretti dei lipidi sui tessuti del ginocchio”.

▼Clockaerts S, Bastiaansen-Jenniskens YM, Stricker BHC, Bierma-Zeinstra SM et al. Statin use is associated with reduced incidence and progression of knee osteoarthritis in the Rotterdam study. Ann Rheum Dis 2012; 71:642-647 doi:10.1136/annrheumdis-2011-200092

CORP-1039653-0000-UNV-W-05/2014 

 564 total views

1 7 8 9 10 11 143

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?