Rischio di infarto miocardico negli uomini con bassi livelli di 25-Idrossivitami

La deficienza di vitamina D pu? essere coinvolta nello sviluppo di aterosclerosi e di malattia coronarica negli esseri umani.

Ricercatori dell?Haverd School of Public Heath a Boston negli Stati Uniti, hanno valutato in modo prospettico se le concentrazioni plasmatiche di 25-Idrossivitamina D [ 25(OH)D ] fossero associate al rischio di malattia coronarica.

Uno studio caso-controllo nested ? stato condotto su 18.225 uominidi et? compresa tra 40 e 74 anni, senza diagnosi di malattia cardiovascolare al momento del prelievo ematico.

Nel corso del periodo osservazionale di 10 anni, 454 uomini hanno sviluppato infarto miocardico non-fatale o malattia coronarica fatale.

E? stato osservato che gli uomini carenti di 25(OH)D ( valori uguali o inferiori a 15 ng/mL ) presentavano un aumentato rischio di infarto miocardico, rispetto a quelli con quantit? sufficienti di 25(OH)D ( valori maggiori o uguali a 30 ng/mL ) ( rischio relativo, RR=2.42; p<0.001 per trend ). Dopo aggiustamento per la storia familiare di infarto miocardico, indice di massa corporea, assunzione di alcol, attivit? fisica, storia di diabete mellito ed ipertensione, assunzione di acidi grassi omega-3 marini, livelli di colesterolo LDL ed HDL, e livelli di trigliceridi, la relazione ? rimasta significativa ( RR=2.09; p=0.02 per trend ). Anche gli uomini con livelli intermedi di 25(OH)D erano ad elevato rischio relativo, rispetto alle persone con livelli sufficienti di 25(OH)D ( 22.6-29.9 ng/mL; RR=1,60; 15.0-22.5 ng/ml; RR=1.43, rispettivamente ). Dallo studio ? emerso che bassi livelli di 25-Idrossivitamina D sono associati ad unj pi? alto rischio di infarto miocardico, anche dopo aggiustamento per fattori noti essere associati alla malattia coronarica. Giovannucci E et al; Arch Intern Med 2008; 168: 1174-1180

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Ipersecrezione acida: deficienza di vitamina B12 durante trattamento per lungo p

Gli inibitori della pompa protonica possono causare malassorbimento della cianocobalamina ( vitamina B12 ), ma la misurazione dei valori plasmatici della vitamina sottostima l?evento.

La deficienza di vitamina B12 aumenta i livelli di acido metilmalonico e di omocisteina, entrambi marker di deficienza di vitamina B12.

Ricercatori dell?University of Alabama School of Medicine a Birmingham negli Stati Uniti, si sono posti l?obiettivo di definire la prevalenza di deficienza di vitamina B12, e se la soppressione acida da parte degli inibitori della pompa protonica fossero la causa di questo.

Sono stati studiati 61 pazienti con ipersecrezione acida ( secrezione acida basale >15 mmol/ora ), 46 con gastrinoma ( sindrome di Zollinger-Ellison ) e 15 senza ( ipersecrezione acida senza gastrinoma; pseudo sindrome di Zollinger-Ellison ).

I pazienti sono stati trattati con Lansoprazolo ( Lansox ) per determinare la sua efficacia e la sua sicurezza nel lungo periodo ( fino a 18 anni ).

Dei 61 pazienti, 6 ( 10% ) hanno presentato bassi livelli plasmatici di B12.
Esami aggiuntivi hanno evidenziato deficienza di B12 in altri 13 ( 31% ), nonostante normali livelli plasmatici di cianocobalamina.

La terapia di supplementazione con vitamina B12 ha permesso di ridurre gli elevati livelli di omocisteina e di acido metilmalonico.

Lo studio ha mostrato che in coloro che fanno uso, per lungo periodo, degli inibitori della pompa protonica, la deficienza di vitamina B12 ? pi? frequente ( 29% ), rispetto alla sola misurazione dei livelli plasmatici di B12.
Tuttavia la soppressione acida indotta dai farmaci non era sufficiente a spiegare questa deficienza.

Hirschowitz BI et al, Aliment Pharmacol Ther 2008; 27: 1110-1121

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Donne: i bassi e gli alti livelli di TSH associati alla malattia di Alzheimer

Alti o bassi livelli di tireotropina possono essere associati ad un aumentato rischio di malattia di Alzheimer nelle donne.

La tireotropina, o TSH, ? l?ormone stimolante la tiroide.

Tra il 1977 ed il 1979, i Ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center ed Harvard Medical School, negli Stati Uniti, hanno misurato i livelli di TSH su 1.864 persone di et? media 71 anni, senza problemi cognitivi al basale.

A cadenza biennale, i partecipanti dello studio sono stati sottoposti a valutazione della funzione cognitiva.

Dopo in media 12.7 anni di follow-up, 209 partecipanti hanno sviluppato malattia di Alzheimer.

E? stato osservato che le donne con i pi? bassi ( < 1.0 mUI/L ) ed i pi? alti ( > 2.1 mUI/L ) livelli di tireotropina presentavano un rischio 2 volte maggiore di malattia di Alzheimer.

Nessuna associazione tra livelli di tireotropina e rischio di Alzheimer ? stata riscontrata negli uomini.

Non ? chiaro se le alterazioni dei livelli di tireotropina si presentano prima o dopo l?insorgenza della malattia di Alzheimer.
I cambiamenti cerebrali prodotti dalla malattia di Alzheimer potrebbero causare una riduzione della quantit? di tireotropina rilasciata, o cambiamenti della responsivit? dell?organismo nei confronti dell?ormone.
Un?altra ipotesi ? che gli alti ed i bassi livelli di tireotropina producano danni ai neuroni o ai vasi sanguigni, causando problemi cognitivi.

Fonte: Archives of Internal Medicine, 2008

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Le donne con policistosi ovarica presentano un?aumentata calcificazione dell?arteria coronaria

La sindrome dell?ovaio policistico ( PCOS ), una comune condizione endocrina riproduttiva che si manifesta durante la pubert?, ? caratterizzata da iperaldosteronismo, anovulazione cronica ed obesit?.

Le persone affette da policistosi ovarica mostrano un profilo sfavorevole di malattia coronarica in et? precoce, inclusa la resistenza all?insulina, la dislipidemia e l?aumento dell?adiposit? centrale.
E? possibile ipotizzare che la transizione menopausale, sia naturale o chirurgica, possa prevedere un?ulteriore insulto, con conseguente maggiore rischio cumulativo al sistema vascolare.

La calcificazione dell?arteria coronaria, una misura dell?aterosclerosi subclinica, ? stata misurata mediante tomografia a fascio di elettroni in 149 pazienti con sindrome ovarica policistica ed in 166 controlli ( et? media 47.3 e 49.4 anni, rispettivamente ).

E? stato osservato che i pazienti avevano una pi? alta prevalenza di calcificazione dell?arteria coronaria ( 63.1% ), rispetto ai controlli ( 41.0% ) ( p= 0.037 ), dopo aggiustamento per et? ed indice di massa corporea ( BMI ).

Un totale di 22 pazienti e 39 controlli sono andati incontro a menopausa naturale, e 12 pazienti e 26 controlli hanno subito una menopausa chirurgica ( con conferma biochimica ), e 115 pazienti e 101 controlli hanno riportato di essere attualmente in premenopausa.

C?erano significative differenze nei valori di calcificazione dell?arteria coronaria tra i pazienti ed i controlli in tutte e tre le categorie di menopausa, la premenopausa, la menopausa indotta chirurgicamente e la menopausa naturale. ( p<0.001 ). La durata in anni della menopausa e l?uso della terapia ormonale sostitutiva non erano differenti tra i pazienti ed i controlli per i due gruppi di menopausa. E? stato osservato che le donne con sindrome dell?ovaio policistico presentavano un aumento significativo della calcificazione dell?arteria coronaria rispetto ai controlli dopo aggiustamento per et? ed indice BMI, e stato menopausale.
Lo stato della policistosi ovarica e la glicemia a digiuno erano fattori di rischio significativi per la calcificazione dell?arteria coronaria ( p<0.05 ).
Sia la menopausa chirurgica che la menopausa naturale erano anche indipendenti fattori di rischio per la calcificazione dell?arteria coronaria ( p<0.01 ). Talbott EO et al, Vasc Health Risk Manag 2008; 4: 453-462

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All?erta contro l?epatite B

Contro l?epatite B occorre rialzare la guardia. ? un indubbio successo il continuo calo dei tassi d?infezione dagli anni Ottanta: merito della vaccinazione, che l?Italia per prima ha reso obbligatoria nel 1991 in neonati e dodicenni venendo in seguito copiata da altri, e poi dello screening sul sangue, dell?uso di materiale sanitario a perdere, di una certa prudenza di comportamenti con l?insorgere della paura dell?AIDS. La prevalenza infatti ? scesa dal 2,4-3% degli anni Settanta allo 0,8% degli anni recenti. ?La popolazione sopra i 29 anni d?et?, che aveva cio? pi? di 12 anni nel 1991, non ha ricevuto la protezione? spiega Massimo Colombo, direttore 1? Divisione di Gastroenterologia del Policlinico, Mangiagalli, Regina Elena di Milano, in un incontro sulle strategie terapeutiche di gestione dell?epatite B ?perci?, escludendo i molti che venuti a contatto con il virus hanno sviluppato l?anticorpo, milioni di persone restano formalmente esposte. Se il continuo calo d?incidenza e prevalenza dovrebbe rassicurare, negli ultimi anni tuttavia c?? evidenza di una ripresa dell?epatite B, soprattutto trasmessa per via sessuale, cio? quella principale da noi, seguita dall?uso di strumenti contaminati, di droghe per via venosa e di pratiche come piercing e tatuaggi?. Va ricordato che il virus dell?epatite B ? cento volte pi? contagioso dell?HIV. ?La ripresa sembra dovuta essenzialmente a due motivi? prosegue Colombo. ?In parte c?? un calo d?attenzione alla prevenzione legato all?idea che comunque ci si pu? curare. Inoltre nel nostro paese sono immigrate molte persone provenienti da aree dove l?infezione ? endemica, non solo Asia e Africa, ma anche paesi dell?Europa orientale ed ex Unione Sovietica, importanti serbatoi dell?epatite B e anche della Delta che le si associa nel 5% dei casi. Un numero crescente di adulti/anziani non immunizzati viene contagiata sessualmente da portatori dell?infezione e sviluppa una forma acuta che a volte cronicizza. E aumentano casi prima rari, epatiti B croniche antigene positive, ad alto livello di replicazione virale e quindi contagiosit? gi? in fase precoce (primi 10-15 anni)?.

Casi sfuggenti a lungo asintomatici
I nuovi casi si aggiungono ai circa 500 mila portatori cronici di epatite B che si ritiene ci siano nel nostro paese, dei quali almeno met? ha qualche forma di malattia del fegato. La condizione di portatore non significa malattia ma pu? diventare epatite cronica attiva quando si arriva all?attacco del sistema immunitario che provoca l?infiammazione e i danni successivi. Il rischio ? che la forma cronica evolva in cirrosi e altre complicanze, fino all?epatocarcinoma. Il fatto ? che molto spesso la malattia non viene diagnosticata per anni o decenni, in quanto resta a lungo asintomatica; solo se progredisce cominciano segni dagli iniziali stanchezza e mancanza d?appetito ai successivi ittero, nausea, urine scure e feci chiare. ?Fattori che accelerano il decorso? aggiunge Colombo ?sono sesso maschile, et? meno giovane, sovrappeso, abuso alcolico, fumo e probabilmente modalit? dell?infezione, tipo genetico del virus, co-infezione virale (agente Delta e in quota minore virus dell?epatite C)?. Una conseguenza dell?importazione di nuovi portatori ? anche l?arrivo in Italia di genotipi virali diversi, in particolare le nuove epatiti HBeAg positive, invece del genotipo D predominante da noi, vedono in causa il B e il C, asiatici e africani. Questo ha ripercussioni sul piano terapeutico: poich? la risposta ai diversi farmaci cambia, ? necessario tipizzare geneticamente il virus; inoltre pone il problema di come rivedere la strategia vaccinale, che era rivolta ai soggetti a maggior rischio di cronicizzazione, come i bambini.

Resistenze sul lungo periodo
Quanto a interrompere la progressione con i farmaci attuali ? possibile oltre che con gli interferoni (terapia a tempo), che riducono l?attivit? virale ma con una buona parte di soggetti non responder e risultati nel lungo termine bassi, con gli analoghi di nucleotidi o nucleosidi che vanno per? somministrati a tempo indeterminato. ?La strategia terapeutica va ben ponderata in base al paziente e al farmaco? sottolinea Stefano Fagioli, direttore USC Gastroenterologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo. ?Il soggetto pi? delicato ? quello pi? giovane con decenni di trattamento davanti a s?, per il quale la strategia terapeutica sar? pi? decisa; vanno poi considerate gravit? ed evolutivit? distinguendo forma HBeAg positiva o negativa, presenza di cirrosi compensata o scompensata. Nel trattamento a lungo termine il rischio ? quello delle mutazioni del virus e quindi delle farmaco-resistenze. Si sa che pi? precocemente e decisamente si abbassa la viremia, cio? il farmaco ? potente e rapido, meno probabilmente insorgeranno mutazioni. In quest?ottica si inseriscono molecole di nuova generazione che sembrano pi? efficaci nell?impedire lo sviluppo di mutazioni virali: come il pi? recente, tenofovir, che sopprime rapidamente la viremia, con risposte gi? nel primo anno dell?80% nei pazienti e positivi e del 100% negli e negativi?. La nuova opzione ? stata appena approvato dall?EMEA per la terapia dell?epatite B cronica sia in soggetti mai trattati sia in malati farmaco-resistenti.

Elettra Vecchia
(Conferenza stampa “Nuove strategie terapeutiche per la gestione dell?epatite B”. Milano, 18 giugno 2008)

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Il diametro della lesione

Per la diagnosi precoce del melanoma cutaneo, che ogni anno nel mondo causa il decesso di oltre 37.000 individui, nel 1985 un gruppo di specialisti introdusse i criteri ABCD, linee guida basate sull`evidenza clinica in cui si sottolineano le principali caratteristiche di questo tumore: asimmetria, margini irregolari, variazioni del colore e diametro superiore ai 6 mm.
Da pubblicazioni recenti, ? emersa la necessit? di includere un ulteriore criterio (E, come evoluzione) che ricordi l`importanza dei concetti di cambiamento morfologico e crescita della lesione nella diagnosi del melanoma, sopratutto per quei casi (come il melanoma nodulare) in cui il tumore cresce rapidamente, ma non soddisfa i criteri ABCD.
Tuttavia, numerosi autori hanno identificato in coorti di pazienti americani, australiani, israeliani e anche italiani, piccoli melanomi, con un diametro inferiore ai 6 mm, che rappresenterebbero dal 3 al 14% di tutti i casi di melanoma cutanei, ma raramente darebbero origine a metastasi o al decesso. Comunque, proprio l`esistenza di queste forme di melanoma complicherebbe la corretta valutazione delle lesioni pigmentate e, secondo alcuni autori, la stretta aderenza al criterio D (diametro superiore ai 6 mm) potrebbe contribuire a una mancata biopsia e, di conseguenza, diagnosi dei piccoli melanomi. Al contrario, altri specialisti sottolineano come il 99% delle lesioni melanocitiche atipiche sia benigno, difendendo, quindi, l`efficacia degli attuali criteri diagnostici ABCDE.

Misure precise e accurate
Per valutare l`effettiva utilit? del criterio D nella diagnosi precoce del melanoma, un gruppo di ricercatori americani ha valutato 1.323 pazienti (reclutati nell`ambito dello studio multicentrico MelaFind) sottoposti a biopsia cutanea di 1.657 lesioni pigmentate potenzialmente predittive di melanoma. In particolare, per il calcolo del diametro di ciascuna lesione, ? stato utilizzato un particolare sistema computerizzato (EOS) in grado di acquisire immagini accurate dell`area interessata e, di conseguenza, di misurare precisamente il diametro.
Dai risultati dello studio ? emerso che circa la met? (51%) delle lesioni analizzate presentava un diametro uguale o inferiore ai 6 mm. In particolare, in quest`ultimo caso una diagnosi di melanoma invasivo era stata formulata nell`1,5% dei casi, rispetto al 5,1% osservato per le lesioni con diametro superiore ai 6 mm. Inoltre, per quanto riguarda l`identificazioni delle lesioni indicative di melanoma in situ, la diagnosi era stata posta nel 2,6% e 7,7% dei casi, rispettivamente per diametri uguali o minori, e maggiori di 6 mm.
Gli autori, poi, hanno osservato un notevole incremento (circa del 100%) della percentuale di casi di melanoma all`aumentare del diametro della lesione, sia per la forma invasiva, sia per quella in situ.

Revisione inutile
Un diametro superiore ai 6 mm costituisce, dunque, un parametro estremamente utile che dovrebbe essere tenuto in considerazione, in associazione agli altri criteri diagnostici, per identificare le lesioni cutanee tipiche di un melanoma. Infatti, il rischio di non diagnosticare i piccoli melanomi non ? elevato, poich? queste forme si manifestano raramente, anche in una coorte di lesioni cutanee pigmentate che potrebbero far sospettare la presenza di melanoma.
Inoltre, grazie all`utilizzo del sistema computerizzato, ? stato possibile ottenere misure precise del diametro delle lesioni che, se valutato ex vivo, ? generalmente sottostimato del 20%. Anche alla luce dell`incremento del tasso di insorgenza di melanomi negli ultimi decenni, non sarebbe necessaria una revisione del criterio diagnostico D che riguarda il diametro della lesione che, insieme agli altri, ? indispensabile per la scelta da parte dello specialista di eseguire o meno una biopsia cutanea.

Ilaria Ponte
(Health Promotion Programs for Melanoma Prevention. Arch Dermatol 2008; 144 (4): 538-540
Abbasi NR et al. Utility of Lesion Diameter in the Clinical Diagnosis of Cutaneous Melanoma. Arch Dermatol 2008; 144 (4): 469-474)

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Prevedere l?aborto

In linea generale, circa il 40-50% dei concepimenti, nella specie umana, non va a buon fine, cio? si va incontro a un aborto spontaneo. Se si calcola che le possibilit? di concepimento per ogni singolo rapporto sono pari a 1 su 5, ? evidente che l?uomo non ? un animale particolarmente prolifico. Il quadro potrebbe anche peggiorare, per lo meno nel mondo industrializzato, visto il progressivo invecchiare delle primipare. ? senz?altro possibile sventare la minaccia di aborto, e stabilire anche chi vi ? pi? esposto. Tuttavia sono cure che hanno un qualche costo, umano ed economico, e richiedono test che potrebbero essere pi? semplici. A quest?ultima necessit? potrebbe ovviare il particolare test oggetto di uno studio pilota pubblicato su JAMA. Si tratta del dosaggio di una sostanza fisiologica, un endocannabinoide chiamato anandamide. L?anandamide, in base ai risultati dello studio nell?animale, contribuisce allo sviluppo sia della blastocisti sia dell?endometrio, che devono avvenire in sincrono per rendere possibile l?annidamento dell?uovo fecondato. Per la precisione, perch? l?annidamento avvenga vi devono essere bassi livelli di anandamide. Questa sostanza infatti viene metabolizzata in acido arachidonico ed etanolamina da un enzima chiamato FAAH, enzima che dunque regola i livelli di anandamide e la cui produzione ? regolata dal progesterone. Riassumendo, se vi ? un?elevata espressione dell?enzima e quindi un basso livello dell?endocannabinoide, il concepimento avviene regolarmente.

Nessun rischio sotto 2
Di qui, i ricercatori si sono impegnati a controllare se, in un gruppo di gravide sane non fumatrici, era possibile predire l?eventuale aborto spontaneo soltanto sulla base dei livelli di anandamide. Hanno cos? arruolato 45 donne in gravidanza con fattori di rischio per aborto spontaneo, delle quali 36 hanno ultimato regolarmente la gestazione e 9 hanno invece perso il bambino. Tutte presentavano le medesime caratteristiche e tutte sono state trattate nello stesso modo, compresa l?esecuzione del dosaggio dell?anandamide nel sangue. Il valore mediano riscontrato (cio? quello che divide in due un gruppo) era tre volte pi? elevato nel gruppo delle donne che hanno abortito rispetto a quelle con gravidanza normale. Comunque, tutte le donne che hanno presentato un livello di anandamide superiore a 2,0 nanomoli hanno abortito, mentre questo valore era presente solo in due donne tra coloro che avevano partorito regolarmente, tuttavia in costoro il parto ? avvenuto alla 33sima settimana, con sviluppo di grave preeclampsia e peso alla nascita del bambino di 1,85 kg. In definitiva usare il valore 2 nanomoli come soglia consente di avere un test con una sensibilit? del 100% e una specificit? del 94%. In altri termini se il test ? negativo, cio? il livello di anandamide della gestante ? inferiore a 2, sicuramente non si avr? un aborto, al contrario se il valore ? superiore vi ? un 98% di probabilit? di parto normale.

Un test pi? semplice
Questi risultati confermano altri indizi che si erano raccolti precedentemente: per esempio, bassi livelli dell?enzima FAAH erano stati riscontrati nelle cellule ematiche mononucleate di donne che partite con gravidanze normali avevano poi abortito; oppure gli elevati livelli di anandamide riscontrati nelle donne che si erano sottoposte senza successo alla fertilizzazione in vitro con trasferimento dell?embrione. Rispetto al dosaggio dell?FAAH, la ricerca dell?andanamide ? pi? semplice e rapida, visto che si pu? usare il sangue intero senza sottoporlo a separazione. Quello che occorre, ora, ? mettere alla prova il test in una popolazione pi? ampia.

Maurizio Imperiali
(Habayeb OM et al. Plasma anandamide concentration and pregnancy outcome in women with threatened miscarriage. JAMA 2008; 299(10):1135-6)

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Per un?appendicite trascurata si pu? infiammare la membrana addominale

La peritonite ? un processo infiammatorio di origine batterica, acuto o cronico, che interessa il peritoneo, la membrana sierosa sottile e trasparente, composta di due foglietti: uno parietale, che riveste le pareti interne della cavit? addominale, l?altro viscerale, che riveste i visceri della cavit?. La peritonite pu? essere diffusa o localizzata.
CAUSE – La causa principale ? la perforazione del tratto gastrointestinale, che causa la contaminazione della cavit? addominale con il contenuto dei visceri e la flora batterica. Spesso la perforazione ? dovuta all?aggravarsi di un?appendicite, che per questo in genere viene trattata in fretta con l?asportazione dell?appendice.
SINTOMI – Il quadro clinico delle forme acute diffuse ? composto da: dolore addominale che si accentua alla palpazione e al rilascio della mano, con comparsa di contrattura, febbre elevata, gonfiore addominale, occlusione intestinale, nausea, vomito, tachicardia, ipotensione, sete, possibile shock. Nelle forme acute localizzate il dolore e la contrattura sono limitati a un solo quadrante, la febbre e i sintomi generali possono essere pi? attenuati. Le forme croniche hanno decorso subdolo: tipica ? la peritonite tubercolare, che inizia con un versamento ascitico, evolvendo poi verso una fibrosi.
DIAGNOSI – Gi? i sintomi sono in grado di orientare verso una infiammazione peritoneale. Esami radiologici (ecografia, Tac) possono aiutare a definire la causa. Si pu? anche prelevare il versamento peritoneale, per effettuare ricerche batteriologiche e definire la natura del liquido. Terapia. Nelle forme non perforative, la terapia pu? essere medica, con reidratazione e somministrazione endovenosa di alte dosi di antibiotici. Nelle varianti (localizzate o diffuse) dovute a perforazioni di organi, o nelle forme con gravi condizioni generali, ? necessario intervenire chirurgicamente, per eliminare la fonte della contaminazione o per asportare l?organo dal quale ha avuto origine l?infiammazione (per esempio, la colecisti o l?appendice).

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Controllo colesterolemia, un documento per i medici di base

Secondo i dati dell?Istituto Superiore di Sanit?, i valori medi della colesterolemia rilevati nella popolazione italiana sono superiori al limite dei 200 mg/dL, dunque oltre la met? della popolazione ha valori ?non ottimali? di questo parametro. Per questo, esperti del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), della Nutrition Foundation of Italy (NFI) e di altre istituzioni e associazioni scientifiche italiane hanno redatto e pubblicato su Nutrition Metabolism & Cardiovascular Diseases un documento dal titolo “Non-pharmacological control of plasma cholesterol levels”, basato sulle evidenze scientifiche della letteratura, relativo al controllo della colesterolemia attraverso una corretta alimentazione e stile di vita.
Il documento, oltre a ribadire concetti gi? noti, come la moderazione nell?apporto giornaliero di grassi saturi, di acidi grassi insaturi della serie trans e di colesterolo, privilegiando soprattutto gli oli extravergini di oliva, ricchi di acidi grassi monoinsaturi, ma anche gli oli di semi ad elevato tenore di polinsaturi della serie n-6, fornisce anche indicazioni su altri nutrienti. Ad esempio, Andrea Poli, direttore scientifico della NFI, evidenzia come ?le fibre, in particolare quelle solubili come pectine, gomme e betaglucani contenute in cereali e legumi, possano avere un effetto di riduzione del colesterolo se introdotte nell?organismo in quantit? di circa 25-30 g al giorno. Anche l?integrazione nella dieta di 25 grammi di proteine di soia, in parziale sostituzione delle proteine animali, riduce la colesterolemia totale e LDL?. Ma gli effetti igienico-sanitari non si devono limitare alla riduzione del colesterolo totale e LDL, ma devono avere una ricaduta positiva anche sul colesterolo HDL. Gli interventi sui macronutrienti della dieta (essenzialmente sulla quota lipidica) inducono mediamente un calo della colesterolemia totale e LDL di ampiezza variabile, ma in genere dell?ordine del 5-10 per cento. ?Ma?, spiega Roberto Volpe del Servizio Prevenzione e Protezione (Spp) del CNR di Roma, ?qualora questo risultato non sia sufficiente per ricondurre la colesterolemia di singoli individui ai valori obiettivo in relazione al loro livello individuale di rischio, e non sussista l?indicazione ad un trattamento farmacologico ipocolesterolemizzante, ? possibile introdurre, in aggiunta alle correzioni dietetiche prima ricordate, alimenti arricchiti in fitosteroli. L?integrazione nella dieta di prodotti a base di latte o yogurt (i cosiddetti minidrink) che contengano almeno 2 grammi di fitosteroli, riduce il colesterolo totale e LDL del 10-15 per cento circa?. Infine, sono state anche esaminate alcune specifiche situazioni (come quella delle donne ipercolesterolemiche in menopausa), nelle quali interventi di riduzione dei formaggi possono teoricamente associarsi al rischio di osteoporosi. Per Roberto Volpe ?una dieta alimentare a basso contenuto di grassi finalizzata a diminuire il rischio cardiovascolare, deve tenere in conto anche il fabbisogno di calcio, fondamentale per la prevenzione dell?osteoporosi?. In questo senso pu? essere utile la scelta di alimenti a contenuto lipidico non elevato, come latte scremato e yogurt magri o alcuni tipi di pesce (per esempio calamari e polpo) e di verdure (rughetta, radicchio e broccoletti) e quelle acque con un buon contenuto di calcio. ?Quindi?, replica Poli, ?la scelta di alimenti ad adeguato tenore calcico e a ridotto contenuto lipidico, un appropriato apporto di vitamina D ed una regolare attivit? fisica, meglio se all?aria aperta, permettono di prevenire sia le malattie cardiovascolari che l?osteoporosi?. ?L?obiettivo del documento ? stato quello di fornire ai medici coinvolti nella prevenzione cardiovascolare uno strumento, non solo completo e aggiornato, ma anche facile da consultare?, spiega Roberto Volpe. ?In effetti?, conclude Andrea Poli, ?il controllo dietetico della colesterolemia ? un obiettivo spesso raggiungibile, partendo proprio da una corretta informazione del pubblico e degli operatori sanitari?.

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Ipotesi antinfiammatoria nella cura dell’Alzheimer

Un?iniezione perispinale di etanercept, nella regione cervicale, una volta alla settimana. Potrebbe essere questa la risposta ad alcune forme di demenza senile, in primo luogo a quelle legate alla malattia di Alzheimer. A suggerirlo, sono i risultati di uno studio clinico pilota in aperto su 12 soggetti con probabile diagnosi di Alzheimer e alterazioni a livello di linguaggio, memoria recente e a lungo termine, abilit? manuali o di svolgimento di comuni attivit? quotidiane, con o senza disturbi dell?umore o del comportamento. Pochi minuti dopo aver iniettato 25-50 mg dell?inibitore del Tnf-a, il gruppo guidato da Edward Tobinick dell?Institute for Neurological research e Hyman Gross del Dipartimento di Neurologia dell?Usc School of medicine di Los Angeles (Stati Uniti) avrebbe registrato, per tutti i parametri citati, un miglioramento evidente e quantificabile con test di valutazione collaudati quali il California verbal learning test-Second edition, Adult version; il Logical memory I e II (Wms-Lm-II); il Comprehensive trail making test (Tmt); il Boston naming test; il Letter and category verbal fluency (Fas). Il vantaggio osservato, confermato dai familiari, sarebbe maggiore nei 5-10 giorni successivi al trattamento, mantenendosi poi stabile su un periodo di sei mesi grazie a richiami settimanali (Tobinick EL et al. Bmc Neurology, 2008, 8; DOI:10.1186/1471-2377-8-27). ? una strategia che pu? funzionare davvero? Su quali basi? E con quali ripercussioni cliniche? Abbiamo chiesto un commento a Gianluigi Forloni, responsabile del Laboratorio di Biologia delle Malattie neurodegenerative dell?Istituto Mario Negri di Milano.

Etanercept sembra offrire una soluzione semplice a un problema che da anni impegna ricercatori e clinici con scarsi risultati. Che cosa ne pensa?
I risultati dello studio di Tobinick sono senza dubbio interessanti, ma ? presto per dire che l?iniezione perispinale di etanercept rappresenter? quella risposta attesa da anni per la cura della malattia di Alzheimer. O, almeno, non nella misura e nei termini quasi miracolistici con i quali sembra presentarsi ora. Il principale aspetto che deve indurre alla cautela ? che si tratta di uno studio in aperto, quindi potenzialmente inficiato dalle attese dei medici e dei pazienti rispetto ai risultati. Per poterne confermare e definire pi? precisamente l?esito, la metodica dovr? essere valutata nell?ambito di trial in doppio cieco controllato con placebo o confrontato con un altro farmaco e su una popolazione pi? ampia. Ma, anche supponendo che le analisi successive confermino almeno in parte le evidenze cliniche preliminari, ? prevedibile che l?iniezione perispinale di etanercept non sar? una strategia risolutiva, universalmente efficace e applicabile. Pi? probabilmente, potr? migliorare le condizioni di alcuni pazienti, offrendo vantaggi di grado variabile in relazione alla storia di malattia e alle caratteristiche individuali. Come ? gi? avvenuto in passato per altri approcci farmacologici, per esempio quelli basati sugli anti-acetilcolinesterasici o sul vaccino anti-amiloide, le evidenze inizialmente straordinarie potrebbero essere ridimensionate da trial successivi.

Su quale razionale si fonda l?uso di etanercept nella cura dell?Alzheimer?
L?idea di usare antinfiammatori per contrastare la malattia di Alzheimer non ? nuova ed ? in linea con numerose evidenze epidemiologiche relative a una minore incidenza della patologia in popolazioni di pazienti in terapia cronica con antinfiammatori di diverso tipo per altre condizioni. Tuttavia, finora, quando si ? provato a testare questo approccio in ambito clinico nello specifico della malattia di Alzheimer non si sono ottenuti risultati apprezzabili a livello neurologico. Ci? potrebbe dipendere dal differente contesto e dall?azione richiesta all?antinfiammatorio: preventiva, nel primo caso, quando veniva assunto per anni in soggetti privi di diagnosi di Alzheimer; terapeutica, nel secondo, dove era proposto a pazienti con malattia di Alzheimer conclamata, nei quali il processo degenerativo era in atto da tempo. L?originalit? del lavoro di Tobinick, nonch? l?aspetto che potrebbe fare la differenza ai fini del risultato clinico, risiede per? principalmente nella via di somministrazione di etanercept. L?iniezione perispinale potrebbe consentire al farmaco di raggiungere in modo pi? diretto e in concentrazione maggiore le aree cerebrali nelle quali ? richiesta e pi? favorevole la sua azione.

A IMOLA, LA PRIMA CASA CHE ACCOGLIE E CURA
Anche le caratteristiche degli spazi di vita possono incidere sul decorso della malattia di Alzheimer. Per questa ragione, la Fondazione Cassa di risparmio di Imola, sollecitata dalla Federazione Alzheimer Italia, ha creato la prima struttura sociosanitaria specificamente progettata per assicurare ai pazienti un?assistenza e un benessere ottimali. Nella nuova Casa per l?Alzheimer Cassiano Tozzoli di Imola (foto) nulla ? lasciato al caso. La disposizione degli spazi ? improntata a criteri di efficienza e multifunzionalit?. La luce, i colori, i materiali, gli arredi e le suppellettili sono studiati per adattarsi alle esigenze del malato, facilitandone l?orientamento spazio-temporale e la mobilit?, migliorandone il tono dell?umore e le risposte comportamentali e conferendo una sensazione di familiarit? fin dal primo ingresso. C?? anche un Centro diurno.

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