Nel trattamento della vescica iperattiva non neurogenica ? comune il ricorso ai farmaci anticolinergici. Attualmente esistono diversi composti, disponibili in varie formulazioni, dosaggi e vie di somministrazione, ma mancano linee guida che orientino il medico nella scelta dell?opzione pi? efficace e sicura. Per migliorare l?approccio al problema i ricercatori dell?Istituto oncologico veneto e dell?Universit? di Padova hanno condotto una revisione e metanalisi della letteratura disponibile sull?argomento, giungendo a selezionare cinquanta trial controllati randomizzati e tre analisi combinate. ? risultato che in generale andrebbero preferiti gli antagonisti dei recettori muscarinici a rilascio prolungato, perch? hanno un miglior profilo di sicurezza e di efficacia (valutata in base a minzioni in 24 ore, volume di svuotamento, ed episodi di urgenza e di incontinenza). Nel caso si impieghino composti a rilascio immediato, invece, l?aumento progressivo della dose migliora l?efficacia, ma a costo di un significativo aumento degli eventi avversi. In particolare, nei pazienti naive si dovrebbero usare oxibutinina, tolterodina 4 mg oppure solifenacina 5 o 10 mg, favorendo la somministrazione per via orale. Pi? difficile la scelta in caso di fallimento terapeutico della prima opzione. ?La mancanza di trial controllati per i farmaci di seconda linea rende impossibile fare una scelta basata sulle evidenze? scrivono su European urology (2008; 54:740-764) gli autori della metanalisi. ?Dai dati disponibili si pu? solo suggerire il ricorso a fesoterodina 8 mg o solifenacina 10 mg in caso di fallimento con tolteridina. Sono quindi indispensabili nuovi studi che definiscano quali farmaci usare in prima, seconda e terza linea?. Fonte: European urology
WASHINGTON- Un popolare farmaco anti-colesterolo usato da circa tre milioni di persone nel mondo potrebbe aumentare i rischi di tumore. Venduto negli Usa con il nome commerciale di ?Vytorin?, il prodotto unisce i principi attivi di due diversi farmaci: la simvastatina e l’ezetimibe. Le statine vengono usate da lungo tempo e considerate sicure per la salute, i sospetti dei ricercatori si appuntano per ora quindi sul secondo principio attivo. La ricerca condotta all’universit? norvegese Ulleval, ha studiato 1.873 pazienti sofferenti alle valvole cardiache per verificare se il trattamento fosse in grado di diminuire la necesst? di interventi chirurgici. Ma i risultati ottenuti dagli scienziati non hanno evidenziato alcun beneficio in termine di minor ricorso ad operazioni tra i pazienti che prendevano il farmaco. Inoltre, tra questi malati, 102 hanno sviluppato tumori, contro 67 nuovi casi di cancro registrati tra i volontari che prendevano invece il placebo (farmaco finto utilizzato come termine di paragone). Gli scienziati osservano che ricerche precedenti non avevano evidenziato alcun rischio simile dall’uso del prodotto ma rilevano che statisticamente, la probabilit? che i casi di tumore registrati tra i pazienti sotto Vytorin siano frutto del caso sono meno del 5%. DUBBI SUL RISCHIO – Cauto il professor Silvio Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri, di Milano: ?La potenziale cancerogenicit? dell’ezetimibe era gi? stata ipotizzata dopo uno studio britannico, ma era alla fine risultata poco credibile perch? nella sperimentazione era stato osservato un aumento di tutti i tipi di tumore, mentre se una sostanza ? cancerogena di solito determina l’incremento di un solo genere di tumori. Resta da dire che, visto che l’ezetimibe non ha dimostrato di aumentare significativamente l’effetto della simvastatina pu? valere un criterio di prudenza? Dal canto suo la Schering Plough, una delle due aziende che distribuiscono l’ezetimibe , sottolinea che studi condotti su oltre 20mila persone mostrano tassi di rischio per i tumori addirittura ribaltati (cio? un maggior rischio nel gruppo placebo), e che l’ezetimibe ha mostrato di agire efficacemente sulla riduzione del colesterolo assorbito per via alimentare (la simvastatina agisce invece sulla produzione endogena, cio? ?interna?, del colesterolo).
Aumento dell’adiposit? sottocutanea e viscerale, depressione, affaticabilit?, riduzione della massa ossea, con rischio di osteoporosi, diabete, patologie cardiovascolari e, naturalmente, disfunzioni sessuali, con riduzione della libido e della capacit? erettile. Sono molto pi? di un milione le persone in Italia che soffrono di questi disturbi e patologie per ragioni in qualche modo connesse a una diminuzione dei livelli di testosterone, una condizione chiamata ipogonadismo maschile. In particolare, il 33% dei pazienti affetti da diabete di tipo 2 – che come ? noto ? caratterizzato da una ridotta sensibilit? all’insulina – presenta bassi livelli di testosterone. Questi ultimi, a loro volta, sono un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di diabete di tipo 2 e di sindrome metabolica, anche in pazienti normopeso, perch? causano insulino-resistenza, iperglicemia e alterazione del profilo lipidico. E anche l’obesit? addominale – di cui tanto si parla, e a ragione, in questi giorni come responsabile di primo piano del rischio cardiovascolare – ? associata a bassi livelli di testosterone. “Ormai vi sono chiare evidenze scientifiche a sostegno di una stretta correlazione tra et? avanzata (over 65), presenza di adiposit? viscerale, aumento della resistenza insulinica e sindrome metabolica e bassi livelli di testosterone, sia totale che nella sua frazione libera, – chiarisce il Prof. Giovanni Spera, endocrinologo e ordinario di Medicina Interna all’Universit? “La Sapienza” di Roma. – Un rapporto di causa-effetto ? osservabile anche, a prescindere dall’et?, quando i livelli di testosterone si riducono per altre cause, per esempio a seguito di terapia farmacologica del tumore prostatico. E la controprova ? che, in tutti gli ipogonadismi, sia legati all’et? che ad altre cause, i parametri metabolici migliorano quando viene ripristinato un livello adeguato di testosterone”. Un importante studio multicentrico condotto in otto paesi europei tra cui l’Italia – il TIMES2, del quale sono stati anticipati i risultati il 18 giugno scorso alla ENDO 2008 Conference in San Francisco (http://www.endo-society.org/endo/index.cfm) – dimostra che la terapia sostitutiva a base di testosterone migliora in modo significativo la sensibilit? all’insulina e la funzione sessuale negli uomini affetti di ipogonadismo e diabete di tipo 2 e/o sindrome metabolica. “L’obiettivo clinico dello studio era di verificare se, ripristinando livelli di testosterone pi? vicini alla normalit?, fosse possibile migliorare le condizioni dei pazienti con diabete mellito e/o con sindrome metabolica. Un obiettivo che, almeno stando ai risultati preliminari, sembra raggiunto. Nella nostra sperimentazione? precisa il Prof. Spera il cui Centro ha coordinato la sperimentazione per l’Italia – nessuno dei pazienti studiati ha riportato effetti collaterali di una certa importanza n? ha mostrato ricadute negative a livello dell’apparato genito-urinario. E molti di loro hanno dichiarato di aver sperimentato un miglioramento della qualit? di vita, dell’umore e del tono muscolare”. “La scoperta dell’efficacia della terapia sostitutiva con testosterone per migliorare la sensibilit? all’insulina e che tale efficacia persiste per almeno un anno ? molto interessante, ? sottolinea il Prof. Hugh Jones, endocrinologo presso la Medical School dell’Universit? di Sheffield in Scozia e autore dello studio. ? L’insulino-resistenza, infatti, ? associata non soltanto allo sviluppo di elevata glicemia, ma anche a numerosi disturbi e alterazioni, primi fra tutti l’aumento del rischio cardiovascolare. Circa tre quarti degli uomini con diabete subisce un evento cardiovascolare fatale. E, verosimilmente, ogni terapia in grado di ridurre l’insulino-resistenza contribuir? a ridurre il rischio cardiovascolare globale”. Lo studio TIMES2 ? stato condotto in doppio cieco, randomizzato vs placebo, su 220 uomini over 40 con ipogonadismo e diabete di tipo 2 e/o sindrome metabolica, sottoposti a terapia sostitutiva con gel transdermico a base di testosterone al 2%. Il principale end-point dello studio consisteva nel valutare l’efficacia del farmaco in gel transdermico a base di testosterone al 2%, sulla sensibilit? all’insulina dopo 6 e 12 mesi. L’end point secondario consisteva nel valutare le variazioni di una serie di parametri, tra i quali l’obesit? addominale, il profilo lipidico, il controllo glicemico, la funzione sessuale e la libido, gli eventi cardiovascolari e, naturalmente, la sicurezza e la tollerabilit?. Dai risultati preliminari dello studio, il testosterone al 2% in gel transdermico: aumenta significativamente la sensibilit? all’insulina rispetto ai controlli, sia a 6 mesi che a 12 mesi, aumenta in misura significativa la funzione sessuale sia a 6 mesi che a 12 mesi, si ? dimostrato ben tollerabile. ?In base alla mia esperienza clinica, vedo senza dubbio un futuro per la terapia sostitutiva a base di testosterone nell’anziano ipogonadico, – aggiunge il prof. Spera. – Anche perch?, proprio a causa dell’invecchiamento generale della popolazione, ? interesse di tutti garantire una migliore qualit? di vita e, soprattutto, la riduzione pi? ampia possibile del rischio di malattia, specie rispetto a condizioni come il diabete e la sindrome metabolica, che rappresentano fattori importantissimi di rischio cardiovascolare e di danno d’organo. Il testosterone, in questa ottica, potrebbe addirittura rappresentare una sorta di scorciatoia in termini di prevenzione”. A questo proposito, va ricordato chei preparati per terapia sostitutiva a base di testosterone non sono tutti uguali. Rispetto ad altri preparati in gel, il testosterone al 2% utilizzato nello studio TIMES2 permette, tra l’altro, di: personalizzare la terapia, potendo somministrare, grazie all?originale dispenser, una dose precisa di testosterone adeguata al singolo paziente evitando, inoltre, sprechi di prodotto, dimezzare il quantitativo di gel da applicare, a parit? di testosterone rispetto agli altri gel, grazie alla concentrazione al 2%, coprire le 24 ore con una sola applicazione, raggiungere livelli plasmatici adeguati di testosterone mantenendoli nel tempo, indurre meno effetti collaterali cutanei. Il TIMES2 ? uno dei pi? ampi studi scientifici condotti in questo campo e dimostra come i benefici effetti della terapia sostitutiva a base di testosterone possano essere raggiunti anche in pazienti affetti da patologie importanti e diffuse come il diabete mellito e la sindrome metabolica, le quali, a loro volta, rappresentano fattori di rischio cardiovascolare. ? anche per questo che ? importante che l’ipogonadismo maschile sia diagnosticato correttamente e adeguatamente trattato con positivi risultati sia sulla qualit? della vita che sul profilo di rischio globale di chi ne ? affetto. “Vi ? poi da considerare che l’et? media della popolazione si allunga per tutti, – conclude il Prof. Spera, – e aumenta il numero di uomini i quali, a seguito di una riduzione progressiva dei livelli di testosterone subiscono disturbi non dissimili da quelli a cui ? soggetta la donna, quando entra in menopausa, come la depressione e i disturbi dell’umore, uno scadimento della qualit? di vita, un calo della massa e del tono muscolare e cos? via. Perch? non ipotizzare, quando il testosterone totale scende al di sotto di un determinato cut-off, stimato intorno a 320 mg/dL, una terapia sostitutiva testosteronica per l’uomo, al pari di quella estrogenica per la donna?”
Sfuggente e spesso asintomatica, difficile da diagnosticare e da curare. L’epatite C ? una malattia spesso sottovalutata ma il cui decorso pu? portare all’insorgenza di gravi disturbi a carico del fegato come la cirrosi epatica o il carcinoma epatocellulare. Secondo una recente stima statunitense, circa 140 milioni di individui al mondo sono portatori del virus dell’epatite C ma soltanto il 30 per cento di questi ne ? consapevole. Un recente fascicolo degli Annals of Internal Medicine dedica all’epatite C tutta la sua attenzione clinica, sottolineando le migliori strategie di prevenzione, diagnosi e gestione della malattia nelle diverse tipologie di soggetti, in base ai recenti progressi della ricerca medica.
Nella lotta all’epatite C grande importanza ? affidata alle strategie di prevenzione, tra cui la migliore resta quella di evitare l’esposizione a sangue infetto, l’unico e solo veicolo di trasmissione riconosciuto del virus HCV, e ad una corretta interpretazione dei sintomi. Alla luce dei progressi medici compiuti negli ultimi anni, il trattamento e la gestione della malattia sono invece strettamente correlati alla tipologia d’infezione. Fino ad oggi, infatti, sono stati identificati sei differenti genotipi del virus HCV e il loro riconoscimento tramite test HCV RNA ? indispensabile per la scelta e la durata della terapia da intraprendere sui pazienti. I genotipi 1 e 4, ad esempio, sono caratterizzati da una scarsa risposta al trattamento e in questi casi ? consigliato valutare con una biopsia epatica la necessit? di intraprendere una terapia farmacologica sul paziente, verificando la progressione della malattia a livello epatico. Secondo le raccomandazioni degli Annals, la biopsia risulta utile anche nel caso di particolari controindicazioni dei soggetti alla terapia farmacologica. Il trattamento consigliato attualmente prevede la combinazione di interferone pegilato alfa per via sottocutanea associato all?assunzione orale di ribavirina a dosi e tempi legati ai differenti genotipi del virus e alle caratteristiche del paziente. La risposta al trattamento pu? essere valutata a sei mesi dalla cessazione della terapia tramite un test HCV RNA, che risulta negativo nel caso di risposta completa.
In base alle raccomandazioni degli Annals, i pazienti sottoposti a terapia farmacologica devono essere costantemente monitorati e deve essere verificata l’insorgenza di eventuali effetti collaterali, i quali risultano particolarmente frequenti e accentuati con l’utilizzo di interferone e ribavirina. Infine va raccomandato a tutti i soggetti affetti da epatite C di evitare assolutamente l’assunzione di alcol e di farmaci epatotossici come il paracetamolo, nonch? di rispettare una dieta particolarmente povera di sodio. Condizioni base per mantenere una buon quadro clinico a dispetto di una malattia cronica e dal decorso pericoloso, ma con la quale ? possibile sopravvivere dignitosamente.
Bibliografia. Jou JH, Muir AJ. In The Clinic. Hepatitis C. Ann Intern Med 2008; 148(11):ITC6-1-ITC6-16.
Roma, 24 lug. (Adnkronos Salute) – La soia riduce la fertilit? maschile. Il consumo di questo alimento, infatti, farebbe diminuire il numero di spermatozoi, e non di poco: gli uomini che ne mangiano di pi? – mezza porzione al giorno – hanno 41 milioni di spermatozoi in meno per millilitro di sperma, rispetto a chi non ne mangia affatto. A sostenerlo sono i ricercatori americani, guidati dal Jorge Chavarro, della Harvard School of Public Health di Boston, in uno studio pubblicato su Human Reproduction. Gli isoflavonoidi, presenti nella soia, sono estrogeni naturali e la ricerca ha indagato, nel dettaglio, proprio sul rapporto tra consumo di fitoestrogeni e qualit? del liquido seminale.
L’equipe ha analizzato l’apporto alimentare di 15 prodotti a base di soia in 99 uomini che, tra il 2000 e il 2006, si erano sottoposti a controlli per la valutazione della loro fertilit?. Ai pazienti ? stato proposto un questionario sulla frequenza e la quantit? del consumo di alimenti a base di soia e isoflavonoidi nei tre mesi precedenti. Gli uomini sono stati divisi in quattro gruppi in funzione del loro consumo di questi alimenti.
Dopo aver analizzato i dati, introducendo correzioni legate ad altri fattori in grado di ridurre la fertilit? (et?, durata dell’astinenza sessuale, massa corporea, consumo di alcol, fumo ) i ricercatori hanno osservato che gli uomini con una dieta ricca di soia (almeno una mezza porzione al giorno o una porzione pi? di due volte la settimana) avevano, rispetto a chi non ne assumeva per niente, circa 41 milioni di spermatozoi in meno per millilitro di liquido seminale. E il rapporto tra consumo di soia e minor numero di spermatozoi risultava pi? marcato negli uomini obesi o sovrappeso.
La deprivazione androgenica primaria, utilizzata da sola al posto di chirurgia o radiazioni, non migliora la sopravvivenza pi? del trattamento conservativo nella maggior parte degli uomini anziani con tumore prostatico localizzato. Ci? dunque mette in discussione il recente uso comune di questa strategia, soprattutto considerando i suoi costi ed effetti collaterali significativi. Quando la deprivazione androgenica viene usata in congiunzione con chirurgia o radiazioni, comunque, essa ? davvero in grado di migliorare la sopravivenza complessiva. Essa ? di beneficio in sottogruppi specifici di pazienti, come quelli con tumori poco differenziati, ma necessita di un razionale ben giustificato. JAMA. 2008; 300: 173-81
Nel 2007 negli Stati Uniti sono stati diagnosticati circa 30.200 casi di carcinoma tiroideo, ma secondo stime recenti la prevalenza di noduli tiroidei ? pi? elevata (circa il 5% della popolazione ne ? affetto), sopratutto se si considerano quelli subclinici. Anche se nell`85% dei pazienti le lesioni si rivelano benigne, la caratterizzazione preoperatoria dei noduli follicolari della tiroide risulta complessa e spesso incerta, malgrado l`impiego di indagini citologiche sull`ago aspirato. Infatti, questa tecnica non ? in grado di distinguere la natura del nodulo (benigna o maligna) nel 15-30% dei pazienti valutati. Conseguentemente, numerosi soggetti che presentano proliferazioni follicolari sono sottoposti a tiroidectomia, ma senza una reale necessit? terapeutica. Basti pensare che i risultati istologici finali confermano la malignit? solo nel 10-15% delle lesioni analizzate.
Quando si esprime, la proteina ? un marker Per migliorare l`accuratezza diagnostica nei confronti dei noduli follicolari tiroidei e, di conseguenza, la selezione dei candidati per l`intervento chirurgico, un gruppo di ricercatori italiani ha condotto uno studio multicentrico per valutare l`efficacia di un test basato sull`analisi dell`espressione della galectina 3, una molecola appartenente al gruppo delle lectine coinvolta in numerosi processi biologici, tra cui l`adesione cellulare, la regolazione del ciclo cellulare, l`apoptosi e la progressione tumorale. Infatti, come noto in letteratura, questa proteina non ? fisiologicamente espressa nel citoplasma delle cellule tiroidee, ma, se presente, indurrebbe un fenotipo trasformato. L`indagine, che ha coinvolto 11 centri localizzati sull`intero territorio italiano per un totale di 544 pazienti che presentavano un nodulo tiroideo follicolare classificato come Thy3, ha paragonato la diagnosi finale formulata in base ai risultati istologici (che rappresenta attualmente il gold standard) e quella preoperatoria ottenuta con il test della galectina 3. Dei 465 soggetti selezionati per l`intervento chirurgico, 70 mostravano anomalie cellulari all`esame istologico e il 71% non esprimeva la galectina 3: nell`85% dei casi queste lesioni galectina 3 negative sono state classificate come benigne al termine dello studio. Per quanto riguarda i pazienti (134) le cui cellule tiroidee esprimevano la galectina 3, in 101 la diagnosi finale ha confermato la presenza di una neoplasia maligna. Inoltre, la ricerca ha dimostrato l`elevata sensibilit? (78%) e specificit? (93%) del test della galectina 3 che, quindi, potrebbe essere introdotto quanto prima nella pratica clinica, permettendo una distinzione preoperatoria tra i pazienti che necessitano di una tiroidectomia e quelli in cui questa opzione terapeutica sarebbe superflua.
Per dirimere i casi dubbi Nonostante l`impiego di questa metodica diagnostica abbia permesso di formulare una diagnosi preoperatoria corretta nell`88% dei pazienti, non va dimenticato che in 29 casi su 130 il carcinoma non ? stato identificato con il test della galectina 3. Se la scelta di intervenire chirurgicamente si basasse esclusivamente sull`espressione della galectina 3, da un lato si sarebbero eseguiti solo 134 interventi in 465 pazienti, evitando una vasta proporzione (il 71%) di procedure non necessarie, ma dall`altro non sarebbero stati diagnosticati i casi di carcinoma galectina 3 negativi. Inoltre, con elevata probabilit?, la mancata diagnosi di carcinoma tiroideo in fase preoperatoria ? attribuibile a problemi tecnici nell`esecuzione del test, come dimostra il fatto che nel 28% di queste proliferazioni l`espressione della galectina 3 ? stata successivamente osservata mediante immunoistochimica.
Un regime insulinico intensivo nei soggetti con nuova diagnosi di diabete di tipo 2 sembra capace di restaurare la funzionalit? fisiologica delle cellule beta pancreatiche. Da questa premessa sono partiti alcuni ricercatori cinesi per un nuovo studio, multicentrico e randomizzato, per identificare quale fosse il trattamento pi? efficace, tra due diversi protocolli di somministrazione dell`insulina rispetto alla terapia con ipoglicemizzanti orali. End point primario del trial ? stato il tempo intercorso dall`inizio della terapia alla comparsa della remissione del diabete di tipo 2. Gli autori hanno anche valutato il profilo quantitativo e qualitativo della funzionalit? recuperata dalle cellule beta e la durata dei periodi di remissione.
Disegno e partecipanti Dalla collaborazione di nove ospedali universitari distribuiti in varie province della Cina, tra settembre 2004 e ottobre 2006 sono stati reclutati 382 adulti che avevano valori di glicemia a digiuno compresi tra 7,0 e 16,7 mmol/l. Questi pazienti sono stati randomizzati in tre gruppi di trattamento: insulina per infusione (CSII); pi? iniezioni giornaliere d`insulina (MDI), con il tipo rapido prima dei tre pasti e con quella lenta la sera; ipoglicemizzanti orali (gliclazide o metformina o entrambe). La terapia si ? protratta per due settimane dopo che i livelli di glicemia erano tornati normali e poi ? stata sospesa in tutti e tre i gruppi, e i pazienti sono stati controllati per un anno.
Risultati Il ripristino dello stato euglicemico, come ci si poteva attendere, ? avvenuto pi? rapidamente nei pazienti trattati con insulina: 4 giorni per il gruppo CSII e 5,6 giorni per l`MDI verso i 9,3 giorni del gruppo ipoglicemizzanti orali. Tuttavia quando il trattamento con ipoglicemizzanti orali ? sufficientemente aggressivo, e il paziente responsivo, la regressione del diabete si ottiene egualmente (nell`83,5% dei casi, mentre con l`insulina si supera il 95%), ma non ? altrettanto duratura. A distanza di un anno, infatti, si mantenevano in remissione il 51,1% dei pazienti CSII, il 44,9% del gruppo MDI e solo il 26,7% del gruppo trattato con farmaci ipoglicemizzanti. Questi dati suggeriscono il ricorso immediato all`insulina, mentre attualmente il suo utilizzo nei soggetti con diabete di tipo 2 ? riservato alla seconda fase della malattia, quando l`iperglicemia non ? pi? controllabile con gli ipoglicemizzanti orali.
Considerazioni Nel 1998 lo UK prospective diabetes study dimostr? come il decorso naturale del diabete di tipo 2 prevedesse un lento e progressivo deterioramento delle cellule beta, indipendente dallo stile di vita e dalla terapia farmacologica adottati. ? probabile che il declino funzionale sia accelerato dall`effetto tossico del glucosio nel sangue e, al contrario, che una rapida rimozione del glucosio in eccesso possa modificare il decorso della malattia, ritardandone temporaneamente le manifestazioni cliniche. I ricercatori cinesi per? hanno osservato che l`effetto di “ristoro” cio? di recupero funzionale delle cellule beta, era stabile nei soggetti trattati con insulina mentre decresceva progressivamente nei mesi d`osservazione nei pazienti curati con i farmaci orali. E infatti il tasso di remissione a un anno in questo gruppo si riduceva di molto, passando dall`83,5% al 26,7%
Nonostante in letteratura esistano numerose evidenze che suggeriscono come l`assunzione prolungata di cannabis sia associata alla comparsa di alcuni eventi avversi, molti utilizzatori sono convinti che questa sostanza sia relativamente pericolosa per la salute e che, quindi, dovrebbe essere legalmente disponibile. Nei Paesi sviluppati, la cannabis rappresenta la droga maggiormente utilizzata: negli Stati Uniti, per esempio, secondo stime recenti, gli utilizzatori sarebbero circa 15 milioni in un mese e, di questi, circa 3,4 milioni assumerebbero la cannabis quotidianamente per almeno un anno. Tuttavia, ad oggi, la maggior parte degli studi ? stata condotta in modelli animali e dai risultati ottenuti ? emerso come una somministrazione a lungo termine di cannabinoidi sia in grado di indurre cambiamenti neurotossici nell`ippocampo, inclusa una diminuzione del volume neuronale, della densit? neuronale e sinaptica, e della lunghezza dei dendriti dei neuroni piramidali.
Volumi minori Per questa ragione, un gruppo di ricercatori australiani ha indagato gli effetti di un consumo elevato (oltre 5 dosi al giorno) e prolungato (pi? di 10 anni) di cannabis in 15 soggetti con un`et? media di 39,8 anni e in 16 controlli. Dal campione in esame sono stati esclusi i pazienti affetti da disturbi mentali e neurologici e chi presentava una storia di abuso di molteplici droghe. In particolare, sono state prese in considerazione ippocampo e amigdala, due regioni cerebrali ricche di recettori per i cannabinoidi, e, tramite risonanza magnetica a elevata risoluzione, sono state misurate le eventuali variazioni volumetriche di queste aree. I ricercatori hanno, cos?, osservato che i consumatori di cannabis mostravano una riduzione bilaterale del volume sia dell`ippocampo, sia dell`amigdala (rispettivamente del 12% e del 7,1%) e hanno identificato un`associazione inversa tra il volume ippocampale dell`emisfero sinistro e l`esposizione alla droga durante il decennio precedente. Inoltre, i soggetti che assumevano la cannabis, rispetto agli appartenenti al gruppo di controllo, ottenevano una performance pi? scarsa per quanto riguardava l`apprendimento verbale ed erano esposti a un rischio pi? elevato di insorgenza di sintomi psicotici.
Conferme per l`uomo I risultati ottenuti confermano quanto osservato in vivo, dimostrando come l`assunzione prolungata di elevate dosi di cannabis induca una significativa riduzione del volume dell`ippocampo e dell`amigdala. Infatti, con elevata probabilit?, la mancanza di effetti osservata in alcuni studi precedenti era dovuta all`impiego di tecniche di imaging caratterizzate da basso potere risolutivo o da un periodo di esposizione alla sostanza stupefacente troppo breve. Tuttavia, resta da chiarire l`eziologia delle riduzioni volumetriche osservate, in quanto potrebbero essere dovute a una perdita di glia o neuroni, a un cambiamento delle dimensioni cellulari o a una diminuzione della densit? sinaptica, come suggeriscono i dati emersi da alcune ricerche eseguite in modelli murini.
Si ? tenuta a Torino il 16 e 17 maggio 2008 la conferenza di consenso ?Quale informazione per la donna in menopausa sulla terapia ormonale sostitutiva? che ha visto la partecipazione di clinici, giornalisti e rappresentanti dei cittadini. La conferenza ? stata promossa dall`Istituto superiore di sanit? e dal progetto PartecipaSalute, coordinato dall?Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. I due giorni di presentazioni e dibattiti sono serviti a fare il punto sulle evidenze scientifiche disponibili in merito all?uso della terapia ormonale sostitutiva (TOS), a comprendere quali informazioni siano pi? necessarie alle donne e a valutare la qualit? dell?informazione che attualmente ? rivolta alla popolazione femminile e alla classe medica. Al termine, la giuria ha stilato il documento preliminare, che contiene una prima raccolta di raccomandazioni condivise, che si riporta qui di seguito.
Il testo preliminare Quali aspetti della menopausa possono essere divulgati come problemi di salute? La menopausa ? una delle tappe evolutive nella vita della donna, che talora pu? presentarsi in forma critica creando malessere. I problemi per i quali ? dimostrato un rapporto causale con la menopausa sono: ? sintomi vasomotori (sudorazione, vampate di calore), ? disturbi vaginali legati a secchezza delle mucose, ? disturbi del sonno. I sintomi vaso-motori e i disturbi del sonno sono generalmente temporanei e di intensit? variabile, ma in alcuni casi tali da influenzare negativamente la qualit? della vita della donna. Altri problemi frequentemente associati alla menopausa (quali ad esempio irritabilit?, depressione, dolori osteoarticolari, aumento di peso, etc.) non hanno con essa un sicuro nesso causale, ma sono ugualmente meritevoli di attenzione.
Per quali scopi si pu? consigliare la TOS, a quali donne, per quanto tempo? La TOS va riservata alle donne con menopausa precoce, che va considerato un quadro patologico, e a quelle che lamentano sintomi vasomotori e disturbi del sonno percepiti come importanti e persistenti, mentre l?atrofia della mucosa vaginale, che non ? un sintomo precoce, ? trattabile con preparati topici. Le donne devono essere preliminarmente ben informate della transitoriet? e benignit? dei sintomi, dei benefici e rischi della terapia e della frequente ricomparsa dei sintomi alla sospensione del trattamento, per permettere una decisione pienamente consapevole. La TOS sulla base degli studi attualmente disponibili, non ? consigliabile a scopo preventivo per uno sfavorevole rapporto fra benefici e rischi in quanto: ? il rischio specifico di tumore alla mammella ? correlato alla dose, durata, e tipo di trattamento estroprogestinico utilizzato; ? in ambito cardiovascolare non vi sono prove di efficacia preventiva derivanti da studi ? randomizzati riguardo l?infarto, mentre ? provata una aumentata incidenza di ictus e di episodi tromboembolici venosi, indipendentemente dall?et?; ? per quanto riguarda le fratture osteoporotiche, non sembra consigliabile un trattamento ? preventivo anticipato anche di decenni rispetto all?et? in cui le fratture diventano prevalenti; ? in ambito neurologico non vi sono prove di efficacia rispetto alle demenze e ai deterioramenti cognitivi. Il caso delle donne che, pur non avendo disturbi importanti hanno per? un vissuto negativo della menopausa e perci? desiderano fare uso della TOS, non pu? essere oggetto di una raccomandazione generalizzabile, ma va valutato nel rapporto con il medico curante. Alle donne devono essere fornite informazioni relative agli stili di vita opportuni e alle terapie nonfarmacologiche disponibili. Non vi sono dati di letteratura circa la durata di trattamento per il controllo dei sintomi.