Prediabete da scoprire

Il diabete di tipo 2 non ? abbastanza diagnosticato e trattato, specie dalla Medicina di famiglia. ? questo il messaggio emerso chiaramente dal rapporto britannico sullo screening del diabete di tipo 2 pubblicato a settembre dall`Health Technology Assessment. Gli autori del trattato sono stati ancora pi? irremovibili della precedente review del National Screening Committee e le loro conclusioni sono state recentemente riprese in un commento su Lancet a cura di tre esperti del dipartimento di Medicina generale dell`universit? di Auckland in Nuova Zelanda.

Uscire allo scoperto, perch?
La mancanza di Linee guida precise o di criteri condivisi per lo screening del diabete ha relegato il prediabete nell`ombra ma ora l`efficacia delle statine nella prevenzione cardiovascolare, da un lato, e l`impennata nella prevalenza di obesit? e diabete di tipo 2 dall`altro dimostrano che il problema deve essere affrontato in maniera pi? seria.
L`intolleranza al glucosio aumenta il rischio cardiovascolare di circa il 60% e un`alterata glicemia a digiuno lo incrementa del 30%; per ogni soggetto diabetico ce ne sono almeno 4 in fase prediabetica, due dei quali progrediranno verso il diabete conclamato. Tutto questo per? si pu? prevenire, o almeno ritardare, con la dieta, l`esercizio fisico e alcuni farmaci. Gli interventi, sullo stile di vita sono tanto pi? efficaci quando effettuati su soggetti selezionati, mentre i farmaci possono meno e, del resto, non sono impiegati adeguatamente neanche nel diabete, il cui controllo non ? ancora ottimale.

Screening, come
Il test plasmatico del glucosio a digiuno individua il diabete e le anomalie glicemiche ma non l`intolleranza al glucosio. Analisi random sul glucosio plasmatico hanno meno specificit? e sensibilit?. Il test di tolleranza orale al glucosio (test di carico) ? considerato troppo impegnativo per il paziente ed ? poco riproducibile. La misurazione dell`emoglobina glicosilata (HbA1C) non rientra nelle indagini di routine, ma si correla bene sia con lo stato diabetico (si usa infatti per monitorare la glicemia dei pazienti) sia con le alterazioni del prediabete e, ad oggi, sono anche stati risolti i problemi di standardizzazione che lo rendevano poco affidabile. ? questo l`esame che gli autori dell`Health Technology Assessment consigliano per individuare i pazienti a rischio, impostando valori di cut off inferiori del 5,9% a quelli impiegati per la diagnosi del diabete. Naturalmente il medico di famiglia deve fare una prima selezione dei pazienti, sulla base dei fattori di rischio noti (et?, indice di massa corporea o circonferenza addominale, familiarit?, etnia, iperlipidemia, ipertensione), per scegliere quali sottoporre allo screening.

Trattare subito
Selezionare i soggetti a rischio e confermare lo stato prediabetico con i test a disposizione dovrebbe diventare una delle priorit? dei medici di Medicina generale. Perch? prediabete, diabete e malattie cardiovascolari colpiscono di pi? le classi socialmente ed economicamente svantaggiate. Quelle classi che accedono quasi esclusivamente all?assistenza sanitaria pubblica e per le quali la correzione degli stili di vita rappresenta l`intervento pi? importante, economico e quindi realizzabile.
Resta ancora da stabilire ogni quanto tempo andrebbe ripetuto lo screening e come debbano essere dei programmi d`esercizio applicabili ad un gran numero di soggetti. Ma non sono scuse sufficienti per ignorare il problema.

Elisabetta Lucchesini
(Kenealy T et al. Screening for diabetes and prediabetes. The Lancet 2007; 370: 1888-1889)

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Se ? lieve passa da sola

Secondo uno studio britannico, ogni anno un ambulatorio di medicina generale (uno studio associato, che l? ? la forma prevalente) vede una cinquantina di casi di sinusite acuta, principalmente del seno macellare. La sinusite pu? quindi, a ragione, essere considerata uno dei disturbi delle alte vie respiratorie pi? frequenti. Eppure, sul modo di affrontare la malattia non c?? concordia, e finora sono mancati risultati che dessero un?indicazione definitiva. In effetti, anche tra gli specialisti vi ? sempre stata una duplice considerazione della sinusite: c?? chi la considera una malattia a componente prevalentemente infiammatoria, e chi vi vede soprattutto la componente infettiva. La cosa non ? indifferente dal punto di vista del trattamento: se si parte da un?ipotesi infiammatoria ? chiaro che viene data la precedenza ad antinfiammatori, soprattutto cortisonici per uso locale, se si parte dalla componente infettiva la prima linea sono gli antibiotici sistemici.

Trattamenti a confronto
Malgrado siano relativamente pochi i casi in cui si arriva alle indagini di laboratorio per stabilire l?effettiva presenza di un batterio responsabile, i medici di medicina generale sono piuttosto propensi a ricorrere agli antibiotici in prima battuta: il 92% in Gran Bretagna, dall?85% al 98% negli Stati Uniti e solo poco meno in Olanda, 80%, e in Norvegia, 75%. E questo malgrado anche gli steroidi topici abbiano un loro ruolo anche in caso di infezione batterica: diminuendo la congestione possono favorire il deflusso del materiale purulento presente nel seno e, quindi, aiutare la risoluzione dell?infezione.
Una recente ricerca ha dunque cercato di valutare quale sia l?approccio migliore tra i tre possibili: antibiotico pi? steroide topico, solo antibiotico e solo steroide. Per farlo hanno raccolto il campione tra i pazienti che si rivolgevano al medico di famiglia, quindi una popolazione rappresentativa dei casi pi? diffusi, con interessamento di un solo seno mascellare. Come trattamenti sono stati scelti amoxicillina, 500 mg tre volte al giorno per sette giorni, e budesonide, a 200 mcg per narice una volta al giorno per 10 giorni. Per valutare il risultato della cura si ? ricorsi alla tenuta di un diario da parte dei pazienti, poco pi? di 200, di et? uguale o superiore a 16 anni. In definitiva sono stati costituiti quattro gruppi: uno che assumeva entrambi i farmaci, uno che assumeva l?antibiotico e un placebo che simulava lo steroide inalatorio, uno che assumeva lo steroide e il placebo dell?antibiotico e infine quello di controllo che assumeva solo due forme diverse di placebo. Il risultato, valutato in termini di scomparsa dei sintomi entro il decimo giorno,

Poca resa in ogni caso
Ed ecco i risultati: i pazienti che al decimo giorno accusavano ancora una sintomatologia importante erano il 29% tra quelli che avevano assunto l?antibiotico e il 33,6% tra coloro che non l?avevano assunto; erano poi il 31,4% tra coloro che avevano assunto lo steroide e il 31,4% tra coloro che non lo avevano assunto. Anche dopo le diverse analisi statistiche, entrambi i farmaci non mostravano un effetto significativo, nemmeno in associazione. O meglio, lo steroide topico, nei casi meno gravi, presentava qualche benefico in pi?. Gli autori concludono dunque che nelle forme meno gravi, quelle che non giungono allo specialista e non sono ricorrenti, non modificano sostanzialmente il corso naturale del disturbo. Considerando il costo degli antibiotici, e il pericolo sempre presente di sviluppare resistenze, gli autori dello studio sconsigliano questo approccio. ? chiaro che tutto cambia quando il medico ha di fronte un?infezione grave, con febbre e dolore molto forti e, magari, con esami radiografici che confermano l?interessamento di pi? seni. In questi casi il ricorso all?antibiotico, meglio se mirato sull?analisi delle secrezioni purulente, ? d?obbligo.

Maurizio Imperiali
(Williamson IG et al. Antibiotics and Topical Nasal Steroid for Treatment of Acute Maxillary Sinusitis A Randomized Controlled Trial. JAMA 2007; 298: 2487-2496)

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Per salvare il fegato

Quando il fegato ? colpito da patologie, in particolare da cirrosi, la strategia pi? efficace per salvarlo ? sospendere il consumo di alcool: astenersi del tutto pu? anche portare a una regressione della fibrosi, e ricondurre la cirrosi a uno stadio iniziale. Ma rinunciare al bere ? forse la cosa pi? complicata e ardua che si possa proporre a un alcolista che ha anche un secondo problema da risolvere: la dipendenza. Questa, per?, resta la modalit? pi? adeguata per gestire il paziente alcolista con cirrosi epatica. Potrebbe essere sufficiente sapere che perseverare nell?abuso ? causa diretta di complicanze correlate alla cirrosi, incluso il carcinoma epatico e un ostacolo irremovibile al trapianto di fegato. Ma non sempre ? sufficiente informare.

La cirrosi esclude
Il sostegno psicologico, l?approccio motivazionale, l?informazione e gli incontri regolari, da soli non sono sufficienti per eliminare la dipendenza e arrivare a un?astinenza dall?alcool prolungata. Tuttavia non sono in corso studi per testare farmaci su pazienti con cirrosi provocata dall?alcool; tra i motivi anche il profilo clinico dei pazienti e quello metabolico dei farmaci che riducono il desiderio di bere. Si tratta di pazienti con fegato compromesso ed elevati livelli di aminotransferasi e le molecole in questione hanno un esteso metabolismo epatico, cio? la loro eliminazione avviene attraverso il fegato. L?incompatibilit? porterebbe all?esclusione dei pazienti dal campione e quindi a non avere una popolazione rappresentativa. Non a caso le molecole con indicazione per il trattamento della dipendenza da alcool sono controindicate per i soggetti con malattie del fegato. Il naltrexone ha dimostrato di essere causa di danni epatici dovuti al trattamento, il topiramato ? un agente promettente ma non ci sono studi condotti su pazienti con cirrosi, e inoltre pu? indurre iperammoniemia e variazioni rilevanti nella funzionalit? epatica.

Test sul candidato
Un principio con maggiori prospettive di impiego ? il baclofene: agisce da agonista con alcuni recettori nervosi specifici (GABAergici), come il topiramato, ma ha un ridotto metabolismo epatico, che interessa solo il 15% della dose assunta, mentre il resto viene eliminato immodificato dal rene. Ha dimostrato di non avere effetti collaterali sia nei pazienti con dipendenza da alcool sia in quelli con disturbi neurologici. Un candidato ideale per trattare anche alcolisti con cirrosi epatica, le cui prove di efficacia e sicurezza sono state raccolte presso l?Istituto di Medicina Interna dell?Universit? Cattolica di Roma. Nel gruppo sono stati inclusi pazienti, con diagnosi di cirrosi, rispondenti al profilo di alcolista secondo i criteri del DSM-IV, cio? bevevano pesantemente (almeno cinque drink gli uomini, almeno quattro le donne) per almeno due giorni alla settimana e con un totale settimanale di 21 drink per gli uomini e di 14 per le donne. Circa 80 soggetti sono stati avviati, in doppio cieco, al farmaco o a un placebo, tutti sostenuti da sedute di psicoterapia, per 12 settimane, e poi monitorati per altre quattro.

Astinenza sostenuta
I due gruppi hanno riportato risultati diversi rispetto alla capacit? di astenersi dal bere nel periodo di osservazione: il 71% del braccio farmaco ci era riuscito contro il 29% del braccio placebo. E ci? che i pazienti dichiaravano di aver fatto era comprovato da analisi di laboratorio che avevano rilevato una riduzione significativa dei marcatori di danno epatico (alanina-aminotransferasi, gamma-glutamiltransferasi, bilirubina). Un calo del desiderio di bere era stato registrato anche nel gruppo trattato con placebo, ma in misura minore e di certo attribuibile al sostegno psicologico, e con una quota di abbandoni pi? alta (31% vs 14% nel gruppo baclofene).
Non sono stati notati effetti epatotossici e nemmeno effetti collaterali a carico del rene o del sistema nervoso. Il sospetto di quest?ultimo tipo di danno ? dovuto all?azione su recettori nervosi, ma si tratta di un?azione selettiva sui recettori GABA che non aumenta i rischi di encefalopatie. I successi ottenuti hanno quindi confermato i dati di studi preliminari sul baclofene, elevandolo a regime farmacologico adatto ad alcolisti con danno epatico. Inoltre riportano il problema in una dimensione pi? realistica in cui il paziente non ha solo il problema dell?alcool da risolvere, e tale complessit? andr? inclusa nei criteri di arruolamento e studiata.

Simona Zazzetta
(Addolorato G. et al. Effectiveness and safety of baclofen for maintenance of alcohol abstinence in alcohol-dependent patients with liver cirrhosis: randomised, double-blind controlled study. Lancet 2007; 370: 1915-22)

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La terapia con Vitamina D riduce la mortalit

La relazione tra carenza di vitamina D (vit.D) e rachitismo ? un dato acquisito accanto al quale si sta consolidando un ruolo non tradizionale della vit. D rispetto a diverse patologie croniche come le malattie cardiovascolari, il diabete e le neoplasie che da sole sostengono, nei paesi ad alto reddito, il 60-70% della mortalit? totale in soggetti di et? ≥50 anni 1.
In diverse popolazioni i livelli di vit. D, preormone che viene normalmente prodotto nella pelle quando i raggi UVB attivano la conversione del 7-deidrocolesterolo, sembrano inadeguati per il mantenimento di uno stato di salute ottimale. Studi ecologici ed osservazionali hanno evidenziato che il tasso di mortalit? per malattie croniche ? tanto pi? grande quanto ? maggiore la distanza dall?equatore delle popolazioni studiate e che la sopravvivenza dei soggetti con malattie cardiovascolari o neoplastiche (polmone, mammella, colon ecc) risulta pi? elevata quando la diagnosi ? formulata nei mesi estivi rispetto ad altri periodi stagionali 2,3.
Queste evidenze rendono ipotizzabile un nesso di causalit? tra le variazioni della sintesi di vit. D e la mortalit? per patologia cronica. Dati biologici hanno confermato la presenza dei recettori della vit. D in vari organi. La 1α,25 idrossivitamina D3 (calcitriolo) ? in grado, attraverso l?attivazione recettoriale, di indurre la differenziazione, inibire la proliferazione cellulare e l?angiogenesi, che rappresentano meccanismi peculiari della cancerogenesi, ma altrettanto coinvolti nelle malattie cardiovascolari.
Una metanalisi condotta dai ricercatori dell?International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione e dell?Istituto Europeo Oncologico (IEO) di Milano e pubblicata sugli Archives of Internal Medicine ha identificato 18 studi randomizzati, controllati, indipendenti che hanno valutato l?impatto della supplementazione con vit.D sulla mortalit? per ogni causa di 57.311 soggetti. I gruppi di pazienti studiati erano complessivamente sani, anche se molti dei trial studiavano soggetti ad alto rischio di fratture. La compliance variava dal 47,7 al 95%. I dosaggi di vit. D differivano da 300 a 2000 UI/die, con una dose media corretta di 528 UI/die. In 9 trial ? stata misurata la concentrazione serica di calcitriolo che nel gruppo di intervento variava da 1,4 a 5,2 volte rispetto ai controlli. Sono state identificate 4777 morti durante un follow up medio corretto per la grandezza dei trial di 5,7 anni. Gli individui randomizzati per la supplemetazione con vit. D presentavano una riduzione di mortalit? del 7% significativa per ogni causa (RR=0,97 IC95% 0,77-0,99) che, nei gruppi di intervento, non subiva variazioni per l?associazione di terapia con calcio.
Nonostante tutte queste differenze non ? stata rilevata eterogeneit? tra gli studi (p= 0,52) o bias di pubblicazione (p= 0,77).
I motivi per cui la vit. D pu? ridurre la mortalit? per tutte le cause non sono chiari. Diversi trials hanno studiato soggetti anziani fragili ad alto rischio di cadute e fratture non traumatiche. In questi casi la vit.D aumenta la stabilit? posturale e riduce l?incidenza di fratture del 22% permettendo di evitare una caduta per 15 soggetti trattati. Questo effetto per? non pu? essere messo in relazione con la mortalit? ridotta del 7%, poich? il trial Women?s Health Iniziative (4) da solo rappresenta pi? della met? dei partecipanti presi in considerazione nella metanalisi e include donne giovani con bassa probabilit? di morire per una caduta. Gli effetti pleiotropici extra-scheletrici del calcitriolo, mediati attraverso l?attivazione dei recettori della vit.D e implicati nel ridurre l?aggressivit? dei processi neoplastici e l?espansione delle lesioni ateromasiche, potrebbero essere anche coinvolti nella riduzione di mortalit? indotta dalle statine attraverso un aumento dei livelli di vit. D e di stimolazione di recettori analoghi.
Questi e altri aspetti dello studio hanno permesso agli autori di affermare che:
la terapia con dosi convenzionali di vit.D ? associata ad una riduzione di mortalit?
la relazione tra lo status iniziale di vit.D, le dosi terapeutiche e la mortalit? totale sono oggetto di ulteriori studi
? necessario confermare questi dati con un trial di popolazione randomizzato controllato in soggetti ≥50 anni della durata di almeno 6 anni che abbia come end point primario la mortalit? totale
Quindi, in un corpo di evidenze che associano numerosi ed eterogenei problemi di salute con la carenza di vit.D, questa metanalisi fornisce al medico uno stimolo ulteriore per identificare, prevenire e trattare questa condizione.
Fonte
Autier P, Gandini S Vitamin D Supplementation and Total Mortality Arch Intern Med. 2007;167:1730-7

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Risparmi da statine precoci

Tenere a bada il colesterolo ha vantaggi anche economici. Controllando adeguatamente i livelli di colesterolo LDL, il sistema sanitario potrebbe ottenere ogni anno risparmi fino a 3,3 miliardi di euro gi? dal 2010 per arrivare a 4,5 miliardi nel 2040. Sono i risultati dell’indagine promossa dalla Fondazione SIMG, che fa capo alla Societ? italiana di medicina generale, e realizzata da Vincenzo Atella della Facolt? di Economia dell’universit? di Roma Tor Vergata, che ha presentato i dati ieri a Roma.?Nel corso dell’incontro si sono confrontati medici, politici ed economisti concordi su un principio: “non fare prevenzione fa spendere di pi? al SSN. Ed ? altrettanto dispendioso curare male”.

Per guadagnare in salute e denaro bisogna dunque fare in modo che le terapie vengano anche ben seguite dai pazienti. La stima, oltre a indicare che i risparmi annui complessivi nel nostro Paese che potrebbero superare nel 2040 i 4,5 miliardi di euro l’anno, offre anche una panoramica sui risparmi possibili, sempre nel campo delle malattie cardiovascolari, da ciascuna Regione italiana, considerando le particolarit? demografiche, con la maggiore o minore presenza di anziani. E sommando tutti gli importi, nell’arco dei prossimi 20 anni – spiega Atella – sarebbe possibile realizzare un risparmio complessivo netto di oltre 60 miliardi di euro, e di oltre 120 miliardi fino al 2050. Il calcolo del risparmio potenziale viene ottenuto moltiplicando il costo totale unitario (costi diretti + indiretti) di un evento cardiovascolare per il numero di eventi potenzialmente evitabili attraverso il miglioramento della terapia farmacologica in ogni Regione”. “Uno degli aspetti pi? interessanti emerso dall’indagine – spiega l’esperto – ? che i benefici che deriverebbero da questo tipo di strategia di prevenzione sono immediatamente disponibili. Basti pensare che se si potesse avviare subito una prevenzione primaria e secondaria ottimale, gi? a fine anno sarebbe possibile registrare risparmi pari a circa 1,5 miliardi di euro”.

“Questi dati – ha detto Claudio Cricelli, presidente della Simg – invitano a una riflessione sulla necessit? di puntare di pi? sulla prevenzione, pensando non solo alla salute del cittadino-paziente, primo obiettivo, ma anche alla sostenibilit? del sistema sanitario. Bisogna pensare a una prevenzione globale, a partire dall’educazione dei bambini a stili di vita sani”.

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Amenorrea primaria

La sindrome dell`ovaio policistico (PCOS), una condizione patologica estremamente eterogenea, comprende una serie di sintomi, tra cui anovulazione, iperandrogenismo e presenza di cisti ovariche. L`insorgenza di questa sindrome ? stata associata alla presenza di insulinoresistenza, iperinsulinemia e di alcune caratteristiche tipiche della sindrome metabolica; mentre l`obesit? sembra essere implicata nel 35-50% dei casi di PCOS.
Spesso, i primi segni di PCOS compaiono durante la prima adolescenza e si manifestano come amenorrea secondaria (SA) o oligomenorrea (OM), acne e irsutismo, mentre l`amenorrea primaria (PA) costituisce un`anomalia estremamente rara (la percentuale varia tra l`1,4 e il 14%). I soggetti affetti da PA potrebbero, quindi, costituire un sottogruppo di pazienti che presentano una forma pi? severa di PCOS, caratterizzata sopratutto da un elevato grado di iperandrogenemia e disturbi metabolici.
Poich? ad oggi gli studi che prendono in considerazione questo aspetto sono scarsi, alcuni ricercatori hanno indagato le caratteristiche cliniche, biochimiche e ultrasonografiche delle adolescenti colpite da PA e PCOS rispetto a quelle di pazienti affette da OM/SA e PCOS.

I gruppi di confronto
Lo studio, del tipo caso-controllo, ? stato condotto in Canada tra novembre 2003 e maggio 2006 e ha coinvolto ragazze con et? compresa tra i 14 e i 18 anni. Di queste, 9 adolescenti lamentavano PA e PCOS, e 18, che costituivano il gruppo di controllo, erano affette da OM/SA e PCOS.
Dai risultati ottenuti revisionando le cartelle cliniche di tutte le partecipanti all`indagine, ? emerso che le giovani con PA presentavano un`et? pi? elevata al pubarca, maggiori livelli di androstenedione, una tendenza a una scarsa risposta al test di scatenamento con il progesterone, un incremento statisticamente significativo per quanto riguarda la storia familiare di obesit? e i sintomi associati alla sindrome metabolica. In particolare, tra questi ultimi, sono stati riscontrati acantosi nigricans, elevati valori di pressione diastolica e minori livelli di colesterolo HDL.
Al contrario, non sono state identificate differenze tra i due gruppi nei profili ormonali (eccetto per l`androstenedione), nelle manifestazioni di iperandrogenismo e nei risultati delle valutazioni ultrasonografiche.

Pi? grave con la PA
Tra le pazienti con diagnosi di PCOS, le adolescenti con PA, pur essendo simili in numerosi aspetti alle coetanee affette da OM/SA, sono quelle che manifestano pi? sintomi riconducibili alla sindrome metabolica, anche se la prevalenza di questa patologia non varia tra i due gruppi confrontati. Questi risultati sono supportati dal fatto che nelle donne adulte con PCOS ? stato osservato un tasso pi? elevato di insorgenza di sindrome metabolica, di diabete di tipo 2 e di patologie cardiovascolari.
Inoltre, poich? le ragazze affette da PA presentano livelli serici di androstenedione pi? elevati e non rispondono al challenge con il progesterone, gli autori di questo studio supportano l`ipotesi che l`iperandrogenismo costituisca una rara causa alla base della mancata risposta al progesterone. Provocherebbe infatti un prolungato stato anovulatorio, a sua volta responsabile di endometrio decidualizzato persistente, insensibile al progesterone.
La consapevolezza che la PA potrebbe essere dovuta a PCOS dovrebbe favorire l`impiego di strategie, investigative e di management, appropriate.

Ilaria Ponte
(Rachmiel M et al. Primary Amenorrhea as a Manifestation of Polycystic Ovarian Syndrome in Adolescents. Arch Pediatr Adolesc Med 2008; 162 (6): 521-525)

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Dossier rischio cardio-vascolare: raccomandazioni, diabete, sindrome metabolica

Il 75% dei diabetici muoiono per incidenti vascolari e l?ischemia miocardica rappresenta il 50% di questi decessi.
Il diabete, definito in base ad una glicemia a digiuno superiore a 1.26 /l, ? un fattore di rischio di malattie cardiovascolari con un rischio relativo da 2 a 3 nei maschi e da 3 a 5 per le femmine.
Il rischio coronarico nella femmina diabetica raggiunge quello del maschio non diabetico.
Ogni aumento dell?1% di l?emoglobina glicata (HBA1c) corrisponde ad un aumento del rischio relativo del 10% di mortalit? cardiovascolare.
Certi studi, in particolare quello di Haffner, hanno mostrato che anche il rischio coronarico ? elevato tanto in un soggetto diabetico che non ha avuto un infarto del miocardio che in un non-diabetico che ne ha avuto uno
(Mortality from coronary heart disease in subjects with type 2 diabetes and in non diabetic subjects with and without prior myocardial infarction, Haffner SM and all; N.Eng.J.Med, 1998; 339: 229-234).
Lo studio UKPDS ha mostrato una diminuzione del 16% di infarti del miocardio provocato da una diminuzione dello 0.9% di emoglobina glicata
(al limite della significativit?) (UK Prospective Diabetes Study, UKPDS Group; Lancet 1998 ; 352 :837-853)
Il rischio relativo legato al diabete varia in base alla localizzazione dell?aterosclerosi: ? da 1.5 a 2 per gli eventi vascolari cerebrali, da 2 a 4 per l?insufficenza coronarica, da 5 a 10 per l?arteropatia agli arti inferiori.

Il diabete costituisce un fattore di gravit? della patologia coronaria e cerebrovascolare con:
– lesioni coronariche pi? gravi,
– mortalit? post-infarto raddoppiata,
– evoluzione pi? frequente verso l?insufficenza cardiaca la cui prognosi ? analogamente pi? grave.

Nel diabete di tipo 1, il rischio si manifesta da 15 a 20 anni di diab?te, e quanto pi? esista una nefropatia con proteiinuria.
Il diabete di tipo 2 ? frequentemente associato ad altri fattori di rischio cardiovascolare: l?HTA ? due volte pi? frequente in questa popolazione e l?iperlipidemia ? da 5 a 10 volte pi? frequente, e la stessa cosa vale per il il tabagismo.
L?iperglicemia s?associa ad anomalie quantitative delle lipoproteine: dal 20 al 50% dei diabetici presenta ipertrigliceridemia, aumentano le LDL piccole e dense molte aterogene e l?HDL diminuisce.
Non c?? un valore soglia di glicemia che determina il rischio di complicanze microvascolari.
Una meta-analisi ha mostrato che il rischio relativo di morbi-mortalit? coronarica ? dell?1.33 per una glicemia a digiuno dell?1.10 /l rispetto ad una glicemia a digiuno di 0.75 /l.
La presenza d?un?intolleranza al glucosio o d?un?iperglicemia a digiuno aumenta il rischio cardiovascolare.
La sindrome metabolica ? d?finita secondo il NCEP III (National Cholesterol Education Program Adult Treatement Panel (ATP) con l?associazione di almeno 3 tra i seguenti fattori:
– Giro di vita > 88 cm nella donna, 102 cm nell?uomo,
– HDL-Colesterolo< 40 mg/dl nell?uomo < 50 mg/dl nella donna.
– Trigliceridi a digiuno > 1.5 g/l
– Pressione arteriosa = 130/85mmHg o trattamento antiipertensivo.
– Glicemia a digiuno = 1,10 g/l o = 1.40 /l non a digiuno
La sindrome metabolica ? associata ad un aumento del rischio cardiovascolare, l?odd ratio ? di 2 e passa a 4 se esiste un antecedente di malattia cardiovascolare.

Source
Impact of the metabolic syndrome on mortality from coronary heart disease, cardiovascular disease, and all causes in United States adults. Malik S et coll. Circulation. 2004 Sep 7; 110(10):1245-50. Epub 2004 Aug 23 ; Clinical importance of obesity versus the metabolic syndrome in cardiovascular risk in women, Kip K and all ; Circulation.2004 ;109 :706-713)

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Screening del Cancro colon-rettale. Colonscopia Virtuale o Ottica?

Una delle armi pi? efficaci che abbiamo a disposizione per prevenire il cancro del colon retto (CCR) ? l’esecuzione regolare di un test di screening. Oggi la colonscopia virtuale con tomografia computerizzata (CTC) si pone potenzialmente come una procedura diagnostica alternativa alla colonscopia ottica (OC), anche se finora gli studi di stima sulla sua accuratezza nell’identificazione di polipi o tumori del colon hanno prodotto dati molto variabili. Le dimensioni delle lesioni (<10 mm) e la qualit? di preparazione sembra che siano tra i fattori che maggiormente interferiscono con la sensibilit? dell'esame (1) generando giudizi di incertezza rispetto al suo impiego come test di screening del CCR.
Il New England Journal of Medicine ha pubblicato uno studio dei ricercatori dell’Universit? del Wisconsin basato sul presupposto che il target primario di uno screening del CCR sia l’identificazione di neoplasie avanzate. Allo scopo sono stati confrontati due gruppi di soggetti non randomizzati, ma omogenei per sesso e et?. Il primo gruppo era di 3120 pazienti sottoposti a screening con CTC che, in caso di evidenza di un polipo ≥10 mm o di tre o pi? piccoli polipi (6-9 mm), erano immediatamente invitati ad effettuare una colonscopia nello stesso giorno, e il secondo gruppo di confronto composto da 3163 pazienti sottoposti a OC.
Nel gruppo CTC sono stati identificate 123 neoplasie di cui 12 carcinomi rispetto ai 121 del gruppo OC di cui 4 carcinomi, i casi di adenomi avanzati (adenomi con diametro ≥10 mm o con aspetti villosi o alto grado di displasia) erano simili nei due gruppi. Circa 8% dei pazienti che ha eseguito la CTC ? stato indirizzato alla OC con un numero di polipi rimossi chirurgicamente molto inferiore rispetto ai pazienti del gruppo colonscopia (561 vs 2434). Questi dati non tengono conto dei 158 soggetti in cui sono stati riscontrati 193 piccoli polipi alla CTC e hanno optato per controlli nel tempo. Nel gruppo sottoposto ad endoscopia (OC) si sono verificati 7 casi di perforazione, mentre non ci sono state complicanze nel gruppo CTC.
L’informazione deducibile da questo studio ? che la CTC di screening (seguita da colonscopia selettiva) esce favorevolmente dal confronto con la colonscopia universale nell’individuare neoplasie o adenomi avanzati del colon e minimizza i rischi di perforazione. Rimangono aperti alcuni problemi rilevanti tra cui il primo ? che lo studio non ? randomizzato. Inoltre la bassa percentuale di neoplasie identificate nel gruppo colonscopia suggerisce l’ipotesi della presenza di un bias di selezione per soggetti a basso rischio di carcinoma. Questo potrebbe essere determinato dalla qualit? sotto lo standard delle colonscopie in cui si registra anche un tasso di complicanze doppio rispetto a quello che ci si aspetta in uno screening di popolazione.
Infine va considerato che la colonscopia virtuale ha un’accuratezza ancora estremamente variabile da centro a centro e con problemi di esposizione alle radiazioni che rendono difficile la sua implementazione, in particolare in studi di follow up. Il probabile riscontro, durante la CTC, di altri reperti casuali al di fuori del colon rende ancora pi? problematica una valutazione sui rischi/benefici preliminare al suo impiego in una procedura di screening.
Fonte
Kim DH et al. CT colonography versus colonoscopy for the detection of advanced neoplasia. N Engl J Med 2007; 357:1403-12.
Bibliografia
1.Rockey DC et al. Analysis of air contrast barium enema, computed tomographic colonography, and colonoscopy: Prospective comparison. Lancet 2005;365:305-11.

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Predire gli eventi cardiovascolari: quale parametro usare?

Tremila studi pubblicati negli ultimi cinque anni sugli indicatori clinici che possono predire gli eventi cardiovascolari. Il quaranta per cento di questi lavori?sottolineava la necessit? di verificare la “stratificazione del rischio”. Questo approccio faciliterebbe la prevenzione di eventi cardiovascolari, oltre a?indicare quali sono gli interventi da attuare sul paziente. Per esempio nel caso di malattie coronariche i pazienti devono smettere di fumare, fare un’attivit? fisica regolare, controllare l’alimentazione, controllare i livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue, controllare il diabete e l’ipertensione – qualora presenti – con cure farmacologiche.
Ma la stratificazione del rischio come strumento della medicina basata sulle prove di efficacia necessita a monte di modelli predittivi che funzionino. Un interessante commento apparso sull’ultimo numero della rivista New England Journal of Medicine discute proprio di questo: quali parametri predittivi usare e perch??
I modelli che funzionano hanno buona calibrazione e discriminazione. La calibrazione indica quanto bene un modello predice la probabilit? di un evento analizzando i vari fattori di rischio. La discriminazione ? l’abilit? di predire quali soggetti avranno un evento cardiovascolare. L’obiettivo dell’evidence-based medicine?di oggi ? quello di individuare dei parametri che rendano un modello calibrato e discriminante. Uno dei parametri oggi indicato dai pi? come adatto ad aumentare la discriminazione ? la quantificazione del calcio coronarico. A questo si accompagna il vecchio test dalla concentrazione di proteina C-reattiva. Tuttavia nessuno dei parametri in uso sembra perfetto. O, almeno, non perfetto in ogni situazione.
Il commento del NEJM spinge a riflettere se sia realmente utile avere uno o pi? parametri oggettivi o se, invece, non si debba partire dall’assunto che ciascun caso clinico potrebbe essere diverso dall’altro, verificando l’opportunit? di utilizzare alcune analisi predittive nei casi in cui si ritiene possano fornire indicazioni utili.?
Bibliografia.?Weintraub WS et al. Predicting cardiovascular events with coronary calcium scoring. N Engl J Med 2008; 358:1394-6.

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Calcolosi delle vie urinarie, che ruolo hanno le linee-guida?

Linee-guida sulla calcolosi delle vie urinarie? Preziose, ma non possono essere seguite acriticamente e in tutti i casi. Lo afferma un abstract presentato durante il 23? Congresso annuale dell?Associazione Europea di Urologia (EAU), appena conclusosi a Milano.
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I ricercatori dell?University Hospital di Mannheim hanno preso in esame 30 pazienti ricoverati consecutivamente nella loro struttura con diagnosi di calcolosi delle vie urinarie, valutando se i regimi terapeutici applicati erano conformi alle linee-guida dell?European Association of Urology per quella patologia. Il trattamento ? risultato conforme alle linee-guida nel 76,7 per cento dei casi (23 su 30): in 3 dei 7 casi non conformi la difformit? ? risultata dovuta a volont? del paziente. Cos? concludono i ricercatori tedeschi: ?Le linee-guida offrono uno strumento potente per?standardizzare i regimi di trattamento e stabilire uno standard internazionale di assistenza. Ma non possono essere seguite come ricette di cucina ed esistono valide ragioni che possono spingere l?urologo a scegliere un approccio differente?.?
Bibliografia. Wendt-Nordhal G, Honeck P, Knoll T et al. The next 30 cases ? Guideline conformity of real life stone treatment. European Urology Supplements 2008; abstract 150.

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