Ictus: analisi delle urine determina sottotipo

La ricerca di globuli bianchi e rossi nelle urine può aiutare a discriminare le forme cardioemboliche di ictus da quelle non cardioemboliche. Conoscere il sottotipo dell’ictus è importante nella valutazione della prognosi e nella scelta del trattamento ottimale, ma al momento distinguere le forme cardioemboliche dalle altre può essere difficile. Date queste difficoltà, nonché l’elevata e diffusa disponibilità dell’esame delle urine e gli scarsi costi ad esso associati, la potenzialità del contributo dell’analisi delle urine alla classificazione dell’ictus cardioembolico necessita di studi di conferma in popolazioni indipendenti.

(Arch Neurol 2007; 64: 557-70)

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Morbo di Parkinson: esposizione a pesticidi connessa al rischio

L’esposizione ai pesticidi è associata al rischio di morbo di Parkinson. Sembra che quest’ultimo non sia una singola malattia, ma un insieme di patologie fenotipicamente simili: una gamma variabile di interazioni genetiche ed ambientali potrebbe produrre queste patologie, e può darsi che ogni singolo fattore di rischio influenzi soltanto i soggetti suscettibili. L’associazione fra esposizione a pesticidi e morbo di Parkinson potrebbe essere causale, e la perdita di coscienza di natura traumatica ripetuta è associata ad un aumento del rischio. L’esposizione a pesticidi, comunque, rappresenta un fattore di rischio potenzialmente modificabile.

(Occup Environ Med online 2007, pubblicato il 30/5)

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Nuova tecnica per diagnosticare l’Alzheimer

Alla ricerca di strumenti per diagnosticare in modo sicuro, affidabile e non invasivo l’Alzheimer, due studi prendono in esame un innovativo tipo di risonanza magnetica, l’Arterial spin labeling, che permette di rilevare flusso sanguigno cerebrale, con costi molto inferiori alla Fdg-Pet

Un tipo innovativo di risonanza magnetica chiamato arterial spin labeling (Asl) è stato utilizzato da ricercatori della Perelman school of medicine presso la university of Pennsylvania per misurare i cambiamenti nelle funzionalità cerebrali e, in tal modo, diagnosticare la malattia di Alzheimer. L’Asl-Mri si è dimostrata una valida alternativa agli attuali standard, che affidano la diagnosi alla tomografia a emissione di positroni con Fluoro-desossi-glucosio (Fdg-Pet). Mentre l’Fdg-Pet permette di misurare il metabolismo del glucosio nel cervello, l’Asl-Mri è in grado di rilevare il flusso sanguigno cerebrale; ma, come fa notare John A. Detre, professore di neurologia e radiologia alla Penn university, si tratta di fenomeni strettamente collegati. «Aumenti e cali delle funzionalità cerebrali» ricorda Detre «si accompagnano a variazioni sia del flusso sanguigno che del metabolismo del glucosio». Il team ha pubblicato contemporaneamente due studi in cui si mettono a confronto le due tecniche di imaging in pazienti affetti da malattia di Alzheimer rispetto a soggetti di età simile inseriti in un gruppo di controllo. Il flusso sanguigno cerebrale e il metabolismo del glucosio sono stati misurati in simultanea, iniettando il tracciante Pet durante lo studio di risonanza magnetica. Se la procedura è stata analoga nei due protocolli di ricerca, diverse sono state le modalità di analisi.

L’analisi degli esperti
Nel primo studio, comparso sulle pagine di Alzheimer’s and dementia, le immagini di 13 pazienti con l’Alzheimer e di altri 18 di controllo sono state analizzate tramite esame visivo. Una revisione effettuata in modo indipendente e in cieco da esperti in medicina nucleare, non ha evidenziato differenze tra i due tipi di test nelle capacità di escludere (sensibilità) o di diagnosticare (specificità) l’Alzheimer.

L’analisi automatizzata
La sperimentazione riportata su Neurology, invece, si riferisce a un’analisi eseguita in automatico da un apposito software. I dati di 15 pazienti di Alzheimer sono stati confrontati con 19 persone sane e anche in questo caso i pattern di ridotto metabolismo del glucosio e di ridotto flusso sanguigno cerebrale evidenziati rispettivamente da Fdg-Pet e da Asl-Mri sono risultati identici.

Conclusioni
Quest’ultima tecnica presenta però alcuni vantaggi importanti. «Dato che la risonanza magnetica con arterial spin labeling è completamente non invasiva» spiegano gli autori «e non comporta esposizione a radiazioni, è potenzialmente più adatta per uno screening rispetto alla tomografia ». Un altro non trascurabile elemento a favore della tecnica proposta dagli esperti americani è il costo: l’Asl-Mri è quattro volte meno onerosa rispetto alla Fdg-Pet. 

Alzheimer’s and Dementia, 2011; Oct 20. [Epub ahead of print]
Neurology, 2011 Nov 29;77(22):1977-85

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Inefficace memantina contro demenza nel Down over 40

12 Mar 2012 Neurologia

«C’è una sorprendente mancanza di evidenza riguardo al trattamento farmacologico del deterioramento cognitivo e della demenza nelle persone con più di 40 anni con sindrome di Down. Nonostante indicazioni promettenti, la memantina non è un trattamento efficace. Le terapie efficaci per l’Alzheimer non lo sono necessariamente in questo gruppo di pazienti». È questa la conclusione di uno studio randomizzato e controllato in doppio cieco con placebo condotto in Gran Bretagna da Clive Ballarddel King’s college di Londra e collaboratori. Gli scienziati hanno selezionato adulti ultra 40enni con diagnosi clinica o cariotipica di sindrome di Down con e senza demenza in 4 centri per disabili in UK e Norvegia e li hanno randomizzati a ricevere memantina (n=88) oppure un placebo (n=85) per 52 settimane. L’outcome primario era costituto da modificazioni della cognizione e della funzione motoria, misurati con i punteggi Dames e la scala Abs (adaptive behaviour scale) parte I e II. In entrambi i gruppi si sono rilevati deterioramenti cognitivi e funzionali, ma i tassi non differivano tra i gruppi per nessun outcome. Dopo correzione per il punteggio basale, si sono viste differenze non significative tra i due gruppi in relazione al punteggio Dames (-4,1), Abs I (-8,5) e Abs II (2,0), tutti in favore dei controlli. Infine, si sono avuti eventi avversi gravi nell’11% dei partecipanti al gruppo memantina contro il 7% dei soggetti di controllo.

Lancet, 2012; 379(9815):528-36

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La vitamina D ha un importante ruolo protettivo nelle patologie neurologiche

12 Mar 2012 Neurologia

In occasione del 63° Congresso dell’American Academy of Neurology (Honolulu, 9-16/4/2011) sono stati presentati diversi studi sul ruolo della vitamina D in diverse patologie neurologiche e psichiatriche. Emerge oramai chiaramente che la vitamina D si comporta come un neurosteroide in grado di regolare la neurotrasmissione. Sembra inoltre, che essa possieda anche proprietà neuroprotettive e neuroimmunomodulatrici. Va inoltre sottolineato, che i recettori cerebrali per la vitamina D sono posti in aree critiche per le funzioni cognitive quali la corteccia cerebrale e l’ippocampo. Il Framingham Offspring Study, condotto su una coorte di 1382 pazienti con età media di 60 anni, ha evidenziato che bassi livelli di vitamina D sono associati a riduzione del volume dell’ippocampo ed a peggiori prestazioni cognitive1 . Un ulteriore studio condotto su una coorte di 5.596 pazienti di sesso femminile con età media di 80 anni, distinta in due gruppi sulla base dell’assunzione settimanale di vitamina D (inadeguata: minore di 35 microgrammi/settimana; adeguata: maggiore o uguale di 35 microgrammi/settimana), ha dimostrato una ridotta funzione cognitiva nelle pazienti con assunzione inadeguata di vitamina D sulla base della valutazione del punteggio “Short Portable Mental State Questionnaire” (SPMSQ)2. I livelli di vitamina D sembrano anche influenzare il controllo dell’andatura. L’indagine, svolta su 411 pazienti di entrambi i sessi con età media di 70 anni, ha dimostrato una correlazione inversa tra i livelli della vitamina ed il coefficiente di variabilità dello “stride time” (tempo intercorrente tra l’inizio del contatto con il suolo di un piede e l’inizio del contatto successivo dello stesso piede), misura sensibile del controllo dell’andatura3. La vitamina D ha mostrato di modulare i livelli di cAMP e la produzione di citochine proinfiammatorie, chiarendo ulteriormente il suo possibile ruolo protettivo nella sclerosi multipla4. Inoltre, bassi livelli di vitamina D risultano di più frequente riscontro in pazienti con mielite traversa ricorrente/neuromielite ottica rispetto a soggetti con mielite traversa idiopatica5. Infine, uno studio caso-controllo retrospettivo che ha confrontato 86 pazienti colpiti da ictus ischemico acuto (età media 69 anni) con un gruppo di pazienti senza ictus, ma con simili comorbidità, ha dimostrato un livello di vitamina D significativamente più basso nei pazienti con ictus, indicando che bassi livelli di vitamina D sono da considerare possibili fattori di rischio per la patologia cerebrovascolare ischemica acuta6.

Bibliografia

  1. Karakis I et al. Serum vitamin D concentrations and subclinical indices of brain aging: the Framingham Offspring Study. Neurology 2011(suppl 4):76:A2.
  2. Annweiler C et al. Dietary Intake of vitamin D predict cognitive function among older community-dwellers. Neurology 2011(suppl 4):76:A5.
  3. Allali G et a. The influence of vitamin D on gait control in older adults. Neurology 2011(suppl 4):76:A74.
  4. Salinthone S et al. Vitamin D treatment modulates cyclic AMP levels and production of pro-inflammatory cytokines: implications for MS. Neurology 2011(suppl 4):76:A188.
  5. Mealy MA et al. A comparison of vitamin D levels in patients with idiopathic TM and NMO/recurrent TM. Neurology 2011(suppl 4):76:A536.
  6. Azar L et al. Vitamin D Deficiency and the risk of acute ischemic stroke. Neurology 2011(suppl 4):76:A92.

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Stato epilettico, terapia intramuscolare pari a quella endovena

12 Mar 2012 Neurologia

Nei soggetti in stato epilettico, il midazolam somministrato per via intramuscolare è almeno altrettanto efficace e sicuro del lorazepam endovenoso per interrompere la crisi in corso. Lo dimostra uno studio randomizzato in doppio cieco – coordinato da Robert Silberglet della University of Michigan ad Ann Arbor (Usa) – su 893 pazienti che erano stati accompagnati al locale dipartimento di medicina di emergenza dopo aver ricevuto uno dei due trattamenti da parte di personale paramedico. Come outcome primario è stata scelta l’assenza di convulsioni al momento dell’arrivo al pronto soccorso, tale da non richiedere ulteriori trattamenti. Questo risultato positivo si è avuto in 329 dei 448 pazienti trattati con midazolam intramuscolare e in 282 del 445 a cui era stato somministrato lorazepam per  via endovenosa: riportate le cifre in percentuale, si tratta rispettivamente del 73,4% e del 63,4%. I due trattamenti hanno comportato percentuali simili riguardo alla necessità di ricorrere a intubazione endotracheale (14,1% nel gruppo midazolam e 14,4% nel gruppo lorazepam) e nella recidiva delle convulsioni (11,4% e 10,6% rispettivamente). Tra i soggetti in cui le convulsioni si sono placate con successo prima dell’arrivo al reparto di emergenza, il tempo medio di attivazione del trattamento è stato di 1,2 minuti per l’iniezione intramuscolare di midazolam e di 4,8 minuti per l’endovena di lorazepam, mentre le convulsioni sono cessate rispettivamente in 3,3 e 1,6 minuti di media. Infine i ricercatori non hanno riscontrato effetti avversi nei due gruppi.

N Engl J Med, 2012; 366(7):591-600

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Modificazioni cognitive e cerebrali nello scompenso cardiaco

20 Feb 2012 Neurologia

Lo scompenso cardiaco (Hf) si associa a un declino dei processi mentali e a una perdita di materia grigia cerebrale. Ciò può comportare difficoltà a ricordare le istruzioni sui farmaci da assumere. Lo rivela una ricerca coordinata da Osvaldo P. Almeida, della university of Western Australia di Crawley, Perth. Il team di ricercatori ha effettuato uno studio trasversale su 35 partecipanti con diagnosi accertata di Hf, disfunzione ventricolare sinistra e sintomi clinici compatibili con diagnosi di Hf di almeno 6 mesi di durata. Nello studio sono stati inclusi anche 56 pazienti con ischemia cardiaca (Ihd) e 64 controlli senza alcuna di tali patologie. La misura primaria di outcome considerata è stato il Cambridge cognitive examination of the elderly revised (Camcog): una batteria neuropsicologica  che esamina vari aspetti del funzionamento cognitivo, compreso l’orientamento, il linguaggio, la memoria, l’attenzione, la concentrazione, la percezione e il calcolo; il punteggio totale va da 0 a 105, corrispondente alle migliori performance. Gli score Camcog dei soggetti con Ihd e Hf sono stati di 1,8 e 2,8 punti inferiori, rispettivamente, a confronto di quelli dei soggetti sani. I partecipanti Hf, inoltre, hanno fatto registrare punteggi inferiori nelle misure di richiamo immediato e ritardato al California verbal learning test. Infine, tramite scansione Rm, il team ha evidenziato nel gruppo Hf rispetto ai controlli notevoli perdite di grigia al giro del cingolo a sinistra, al caudato destro, nelle regioni occipito-parietali, e in molte altre zone ritenute vitali per la memoria, il ragionamento e la pianificazione. Nel complesso, gli adulti con Hf hanno un peggioramento della memoria immediata e a lungo-termine e della velocità psicomotoria, e tale condizione si associa modificazioni di regioni cerebrali importanti per le funzioni cognitive e i processi emozionali. 

Eur Heart J, 2012 Jan 31. [Epub ahead of print]

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Abilità della mano destra trasferite alla sinistra

10 Feb 2012 Neurologia

Durante l’immobilizzazione del braccio destro, avvengono cambiamenti a livello corticale che si associano a un trasferimento delle abilità dalla mano destra alla mano sinistra. Lo mostra uno studio clinico condotto all’università di Zurigo (Svizzera) su 10 soggetti destrorsi che, in seguito a lesioni, erano stati costretti all’immobilizzazione dell’arto superiore destro per almeno 2 settimane. Gli autori dello studio hanno sottoposto i partecipanti a due esami di risonanza magnetica (Rm) funzionale, il primo entro le prime 48 ore successive al trauma e il secondo dopo un periodo medio di 16 giorni di immobilizzazione. Le immagini fornite dalla Rm hanno permesso di misurare lo spessore corticale dell’area motoria primaria sinistra, delle regioni sensorimotorie e l’anisotropia frazionaria dei tratti corticospinali (ossia le modificazioni plastiche strutturali nella materia grigia e in quella bianca). È stato così che il gruppo di studiosi, coordinato da Nicolas Langer, ha evidenziato alcune modificazioni nelle regioni cerebrali analizzate: lo spessore corticale nell’area motoria primaria e somatosensoriale dell’emisfero sinistro, così come l’anisotropia frazionaria nel tratto corticospinale sinistro (corrispondenti all’arto destro) si sono ridotti. Invece le capacità motorie della mano sinistra non lesa sono migliorate, in corrispondenza a un ispessimento corticale e a un aumento di anisotropia frazionaria nell’emisfero destro. Quindi l’immobilizzazione ha dato origine a una riorganizzazione del sistema sensorimotorio in tempi decisamente rapidi. 

Neurology, 2012; 78(3):182-8

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Lesioni intrauterine e neonatali: sequele a lungo termine

30 Gen 2012 Neurologia

Le lesioni neonatali e intrauterine comportano un elevato rischio di causare morbilità neurologiche gravi a lungo termine, secondo una revisione sistematica della letteratura condotta da un gruppo di ricercatori keniani, sudafricani e inglesi coordinati da Michael K. Mwaniki, del Kenya Medical Research Institute di Kilifi. Gli studi pubblicati sul tema sono molti: dopo una prima identificazione di oltre 28.000 articoli, gli autori ne hanno inclusi nell’analisi 153, che documentano un totale di 22.161 sopravvissuti a insulti intrauterini o neonatali. Ne risulta che il rischio medio di sviluppare almeno un disturbo neurologico in questi soggetti è del 39,4% (distinto in 18,5% per sequele severe, 5% per  conseguenze di media gravità, e 10% per deficit lievi). Il danno più comune tra quelli riportati è costituito da difficoltà di apprendimento, difetti di sviluppo cognitivo o ritardo generale dello sviluppo, riscontrati in 4.039 soggetti, corrispondenti al 59% di quanti hanno avuto una conseguenza patologica dall’insulto subito. Seguono, nell’ordine, paralisi cerebrale (21%), sordità o difficoltà nell’udito (20%), cecità o disturbi della vista (18%). Solo un sottoinsieme di 40 studi ha incluso dati relativi a danni multipli, per un totale di 2.815 soggetti analizzati. Ne emerge che in un’elevata percentuale di casi lo stesso soggetto presenta più di un disturbo: se in 1.048 casi si evidenza almeno un danno (37%), il 32% di questi risente di danni multipli.

Lancet, 2012 Jan 12.

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I fattori di sopravvivenza nella malattia di Parkinson

22 Gen 2012 Neurologia

La demenza ha un’alta prevalenza nei pazienti affetti da malattia di Parkinson (Pd) ed è associata a un incremento significativo della mortalità. È una delle conferme derivate da un ampio studio retrospettivo – condotto da Allison W. Willis e collaboratori della Washington university school of medicine, St Louis (Usa) – in cui sono stati coinvolti 138.000 pazienti con l’obiettivo di indagare le variabili cliniche e demografiche in grado di influenzarne la sopravvivenza. Si è analizzata la storia clinica dei partecipanti nel periodo 2002-2008, per determinare come il rischio di decesso fosse associato a tre gruppi di fattori: il primo comprendente origine etnica, genere ed età alla diagnosi; il secondo costituito da variabili ambientali e geografiche, e l’ultimo dalle condizioni cliniche dei pazienti. Tra i pazienti studiati, il 35% ha vissuto per più dei sei anni del periodo dello studio. Rispetto agli uomini di razza bianca, hanno evidenziato un rischio di decesso inferiore i pazienti di sesso femminile (Hr: 0,74), gli ispanici (Hr: 0,72) e gli asiatici (Hr: 0,86). Rilevante è stata la demenza, associata a un rischio di decesso più alto e diagnosticata nel 69,6% dei casi, con percentuali superiori nei pazienti afro-americani (78,2%) e nelle donne (71,5%). Il Pd ha presentato una mortalità superiore a quella di altre frequenti patologie causa di pericolo di vita. Inoltre, i soggetti con Pd in fase terminale sono risultati spesso ospedalizzati per patologie cardiovascolari (18,5%) o infezioni (20,9%), raramente per Pd (1%). I pazienti con Pd residenti in zone urbane e industriali hanno mostrato un rischio di decesso leggermente superiore alla media (Hr: 1,19).

Arch Neurol, 2012 Jan 2. [Epub ahead of print]

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