Astenia nella donna in premenopausa con ferritina bassa. Efficacia del trattamento con ferro endovena

L’astenia è un sintomo di comune riscontro nella pratica clinica del MMG e interessa circa un terzo di tutta la popolazione. Analogamente la carenza di ferro, riscontrabile in un quarto delle donne con mestruazioni regolari, è caratterizzata da concentrazioni di ferritina serica <15 ng/ml.  La donna è particolarmente a rischio per entrambe queste condizioni e numerosi studi hanno prospettato che il deficit di ferro possa essere alla base dell’astenia. Esistono evidenze relative all’efficacia terapeutica della supplementazione orale con ferro nel migliorare l’astenia in donne non anemiche con riduzione delle riserve parenchimali e/o midollari di ferro1, 2 11 13. Purtroppo la via di somministrazione orale di ferro è condizionata dagli effetti collaterali gastrointestinali e dal fatto che solo il 10% del ferro assunto è assorbito dall’organismo. Inoltre capire quanto questo approccio terapeutico possa ridurre l’astenia è fortemente  condizionato dall’effetto placebo.

Uno studio randomizzato controllato, in doppio cieco, verso placebo e pubblicato su Bloodsembra dirimere la questione. Allo scopo sono state analizzate 90 donne in pre-menopausa che presentavano astenia, ferritina sierica <50 ng/ml, ed emoglobina >12,0 g/dl, randomizzate a ricevere 800 mg di ferro o placebo per via endovenosa. Il grado di astenia e lo stato del ferro sierico sono stati valutati in basale e dopo 6 e 12 settimane.  Mediante uno score di valutazione dell’astenia da 0 a 10 era definito un valore basale di 4,5 che dopo 6 settimane subiva una riduzione di 1,1 nel gruppo in trattamento con ferro rispetto a 0,7 nel gruppo placebo (P=0.07). Nel gruppo di pazienti con ferritina <15ng/ml era significativa la riduzione dello score per l’astenia tra i due gruppi (1,8 vs 1,4 p<0.005) con la quasi totalità di donne trattate che avvertiva un miglioramento soggettivo del sintomo (84% vs 47% p<0.03). Il profilo di tollerabilità e sicurezza del ferro endovena era buono rispetto al placebo con una differenza di eventi avversi (non gravi) ai limiti della significatività statistica (21% vs 7% p=0,05) e limitati al periodo di somministrazione.

La somministrazione di una dose totale di 8000 mg di ferro e.v. somministrata in due settimane ha provocato un marcato aumento delle concentrazioni di ferritina (98 ng/ml) a conferma di sostanziale incremento delle riserve marziali di ferro corporeo senza influenzare i livelli di emoglobina, che sono rimasti nella norma e costanti nei due gruppi durante il periodo di osservazione.  Questi risultati forniscono la prima prova che la supplementazione di ferro per via endovenosa può migliorare l’astenia nelle donne non anemiche in premenopausa. La concentrazione di ferritina serica <15 ng/ml e la saturazione di transferrina del 20% in soggetti con ferritina di 50 ng/ml sono risultati predittivi di un beneficio significativo di questo trattamento, anche se la ferritina sembra più adatta nella pratica clinica. Tuttavia, a causa dell’esiguo numero del campione, non è attualmente possibile stabilire un cut-off della ferritina sotto il quale le pazienti possono trarre beneficio dalla terapia con ferro.

Comunque viene confermata l’importanza delle funzioni non ematologiche del ferro. In particolare il suo ruolo come componente essenziale di un gran numero di enzimi metabolici come la ribonucleotide-reduttasi, la NADH-deidrogenasi, la succinato-deidrogenasi e il citocromo C-reduttasi/ossidasi. Tutti enzimi che catalizzano processi biochimici essenziali come la formazione di desossiribonucleotidi  e l’ossidazione aerobica dei carboidrati.

Questi risultati sono in accordo con studi precedenti con ferro per os, ma documentano una miglior efficacia della via di somministrazione endovenosa nel normalizzare le riserve marziali mantenendo un buon profilo di sicurezza e tollerabilità.

Un aspetto critico dello studio è il dato del miglioramento dell’astenia in circa il 40% delle donne trattate con placebo, con una risposta più evidente in donne con livelli di astenia iniziale elevata. Il risultato conferma la difficoltà di discriminare il ruolo della componente emotiva nella valutazione di donne che si considerano gravemente asteniche.  La definizione della carenza di ferro può essere accurata in una popolazione sana, ma non in altre popolazioni dove, per esempio, l’astenia è l’epifenomeno di una neoplasia.  Quindi nel work up di un’astenia è sempre consigliabile la ricerca delle cause somatiche, oltre a quelle psicologiche e sociali, perché di fronte a bassi valori di ferritina sierica nella donna in premenopausa vanno escluse prioritariamente importanti cause di carenza marziale come il sanguinamento gastrointestinale, le sindromi da malassorbimento e le patologie della sfera ginecologica.

 

Bibliografia

  1. Cathe´bras PJ, et al.Fatigue in primary care: prevalence,psychiatric comorbidity, illness behavior, and outcome. J Gen Intern Med. 1992;7:276-286
  2. Verdon F, et al.Iron supplementation for unexplained fatigue in non-anaemic women: double blind randomised placebo controlled trial.BMJ.  2003;326(7399):1124-1126
  3. Krayenbuehl PA, et al. Intravenous iron for the treatment of fatigue in nonanemic premenopausal women with low serum ferritin concentration Blood 2011;118:3222-7

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Soggetti che assumono farmaci beta bloccanti nella terapia antipertensiva presentavano minori probabilità di sviluppare nel tempo patologie cerebrali

Un recente studio che verrà presentato a San Diego in occasione dell’American Academy of Neurology ha recentemente dimostrato che i soggetti che assumono farmaci beta bloccanti nella terapia antipertensiva presentavano minori probabilità di sviluppare nel tempo patologie cerebrali come l’Alzheimer o altri tipi di demenza.

E’ stata condotta una ricerca su 774 pazienti, tra questi 610 in trattamento con farmaci contro la pressione sanguigna alta, il quindici per cento di questi ultimi solo con beta bloccanti, il 18 per cento con beta bloccanti in associazione e i rimanenti erano in terapia con altri farmaci anti-ipertensivi. Il confronto tra i vari gruppi di trattamento ha fornito risultati simili: in tutti i pazienti si è evidenziata una diminuita tendenza allo sviluppo di demenze senili rispetto al placebo. I pazienti sottoposti esclusivamente a farmaci beta bloccanti hanno mostrato il più basso profilo di alterazioni neuronali correlabili all’Alzheimer.
 

Bibliografia: Lon White del Pacific Health Research and Education Institute di Honolulu. Abstract American Academy of Neurology. San Diego. 2013 

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Ormonoterapia sostitutiva in menopausa: elementi di attenzione nella pratica clinica

Per decenni, la terapia ormonale sostitutiva (HRT), più recentemente conosciuta come terapia ormonale in menopausa (MHT), è stata il trattamento principale utilizzato dalla medicina convenzionale per curare i sintomi indotti dalla menopausa. Nel 2002, i risultati di un trial randomizzato in doppio cieco di grandi dimensioni denominato Women’s Health Initiative (WHI)1 hanno sollevato una serie preoccupazioni circa la sicurezza a lungo termine della MHT, in particolare relativamente al riscontro di un aumentato rischio per tumore della mammella nelle donne in terapia. Questi risultati hanno progressivamente modificato l’atteggiamento dei medici verso l’utilizzo della MHT riservando particolare attenzione alla selezione e al monitoraggio delle donne eleggibili alla terapia.

Attualmente la HRT è raccomandata in soggetti con presenza di sintomi rilevanti correlati alla menopausa e solo per il tempo necessario ad alleviarli. Il più comune tra gli effetti collaterali che si manifestano nelle donne in terapia è la tensione mammaria. Il significato della sua comparsa nelle donne sottoposte a MHT è stata analizzata in uno studio pubblicato sugli Annals of Internal Medicine 2 che ha riscontrato un’incidenza tensione mammaria a 12 mesi tre volte superiore nelle partecipanti assegnate a MHT rispetto a quelle assegnate al gruppo placebo (36,1% vs 11,8%; P<0,001). Le donne che hanno riferito comparsa di tensione al seno erano più anziane e il sintomo si era manifestato nei tre quarti dei casi nel gruppo in terapia. Queste donne con comparsa de novo di tensione al seno avevano un rischio per il tumore della mammella >48% rispetto a donne in MHT asintomatiche (P= 0.02). Al contrario, la tensione mammaria di nuovo esordio in donne che erano state assegnate al placebo non era correlata ad un rischio elevato di tumore della mammella. Gli autori hanno correlato la tensione mammaria alla alta densità mammografica, un fattore di rischio indipendente per il tumore al seno e sottolineano che una tensione mammaria all’esordio è nelle donne che iniziano la MHT ed è in genere dose-dipendente. La comparsa di questo sintomi dovrebbe indurre la donna a discutere di questa condizione con il proprio medico di fiducia, in quanto potrebbe condizionare sulle decisioni circa la scelta della MHT, la dose e la durata, così come le strategie da attuare per la sorveglianza rispetto al tumore della mammella.

Ma se si decide si sospendere la MHT è meglio interromperla bruscamente o gradualmente?
La risposta a questa domanda è apparsa su Menopause 3 da parte di un gruppo di ricercatori svedesi che ha condotto uno studio multicentrico su 81 donne con età media di 59 anni che avevano usato MHT da 3 a 11 anni. Le donne partecipanti sono state randomizzate per interrompere la MHT bruscamente oppure gradualmente con interruzione dopo 4 settimane. I risultati hanno dimostrato che né il numero né la gravità delle vampate di calore e la qualità della vita (determinato mediante questionario) differivano nel corso dei 12 mesi di follow-up. Inoltre, quasi la metà delle donne (in genere quelli con più grave vampate di calore) riprendeva la MHT 1 anno dopo l’interruzione. Questi dati vanno ad aggiungersi alla crescente corpo di evidenze che indicano che MHT può essere interrotta bruscamente o gradualmente, e che in alcune donne la ripresa di sintomi vasomotori ricorrenti e gravi indurrà le pazienti a riprendere la terapia. Non è certo che tali conclusioni valide per le donne che prendono MHT per il trattamento di sintomi vasomotori possano valere anche per le donne che stanno usando HRT per altri motivi.

Bibliografia

  1. Writing Group for the Women’s Health Initiative Investigators. Risks and benefits of estrogen plus progestin in healthy postmenopausal women: Principal results from the Women’s Health Initiative randomized controlled trial. JAMA 2002; 288:321-33.
  2. Crandall CJ et al. New-onset breast tenderness after initiation of estrogen plus progestin therapy and breast cancer risk. Arch Intern Med 2009; 169:1684.
  3. Lindh-Åstrand L et al. A randomized controlled study of taper-down or abrupt discontinuation of hormone therapy in women treated for vasomotor symptoms Menopause 2010; 17:72 

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Tendinite del bicipite: regole utili per la diagnosi e la decisione terapeutica

La tendinite del bicipite è una affezione infiammatoria che coinvolge il tendine del capo lungo del muscolo bicipite. La tendinosi del bicipite è causata dalla degenerazione del tendine in soggetti che svolgono attività con sollecitazione tendinea ripetuta, piuttosto che riferibile ad un normale processo di invecchiamento. Nella pratica clinica è facile riscontrare questa condizione che è stata oggetto di una recente revisione pubblicata sull’American Family Physician e orientata a fornire semplici regole utili al medico di famiglia per una corretta diagnosi e scelta terapeutica.

I pazienti affetti sia da tendinite che da tendinosi del bicipite, accusano un profondo dolore lancinante nella parte anteriore della spalla, provocato o aggravato da sovraccarico ripetitivo nel movimento del braccio. All’esame obiettivo è rilevabile un punto doloroso, a livello del bicipite, quando il braccio è posto a 10 gradi di rotazione interna. Gli individui con più probabilità di sviluppare condizioni patologiche del tendine del bicipite sono i giovani adulti dai 18 ai 35 anni che svolgono attività sportiva regolare, nuoto, ginnastica e arti marziali. Una lesione secondaria del tendine del bicipite può derivare da instabilità della scapola, delle sue strutture legamentose e da lassità della capsula anteriore o posteriore. Negli individui più anziani, come gli atleti di età superiore ai 35 anni o soggetti che non svolgono attività sportiva con più di 65 anni, la tendinite acuta del bicipite può essere causata da un uso eccessivo e improvviso, o all’uso ripetitivo che con il tempo determina una tendinosi del bicipite.

La causa più comune di tendinosi o tenosinovite del bicipite (infiammazione della guaina tendinea) è da impingement primario, che si riferisce ad un urto meccanico sotto l’arco coraco-acromiale. Le cause includono l’osteofitosi dell’acromion, l’ispessimento del legamento coraco-acromiale, speroni osteoartrosici con interferenza del tendine del bicipite. La lesione della cuffia dei rotatori o SLAP (anteriore labbro superiore a quello posteriore) accompagna spesso la tendinite e la tendinosi del bicipite. Infatti di conseguenza alla lesione della cuffia il tendine del bicipite si espone all’arco coraco-acromiale che può determinare un impingement secondario. Negli atleti di età superiore ai 35 anni, l’impingement primario da rottura della cuffia dei rotatori è più frequente che negli atleti più giovani.
Per la visualizzazione globale del tendine bicipite, l’ecografia è la procedura di imaging preferibile. Tuttavia, la risonanza magnetica o l’artro-TAC visualizzano meglio il tendine a livello intra-articolare e l’eventuale presenza di processi patologici.

L’iniezione di anestetico locale (ad esempio, lidocaina 1%, con o senza corticosteroide) nella guaina del tendine del bicipite può essere diagnostica, nonché terapeutica e può essere utile per alleviare il dolore. Le opzioni di trattamento conservativo per la tendinite del bicipite comprendono riposo, l’applicazione di ghiaccio, analgesici orali come farmaci anti-infiammatori o paracetamolo, terapia fisica o iniezioni di corticosteroidi nella guaina del tendine bicipite.

Le 4 fasi di riabilitazione da attivare in soggetti che fanno attività atletica con spalla dolorosa sono:

  1. riposo,
  2. esercizi di stretching della scapola, cuffia dei rotatori e della capsula posteriore,
  3. rafforzamento muscolare
  4. programma di lancio progressivamente impegnativo.

L’esercizio fisico può essere avviato dopo che la spalla è indolore. L’obiettivo dello stretching è quello di ripristinare la gamma di movimenti senza produrre rigidità o dolore in qualsiasi posizione. Perché anche una perdita minore di movimento nella parte bassa della schiena e muscoli posteriori della coscia può causare uno squilibrio importante della spalla stabilizzante legamenti e la scapola, il programma di stretching deve inoltre avere come obiettivo i tendini del ginocchio e la parte bassa della schiena.
Una volta che la cuffia dei rotatori, rotatori scapolari e gran pettorale, gran dorsale e deltoide sono sufficientemente forti, può essere avviato un programma di lancio. Per i soggetti che non fanno attività atletica, la riabilitazione è simile, con meno enfasi del punto 4 (lancio) del programma riabilitativo.

Il clinico dovrebbe prendere in considerazione la chirurgia se il trattamento conservativo non si traduce in un miglioramento dopo 3 mesi, o se vi sono gravi danni al tendine del bicipite. Le opzioni comprendono la rimozione delle strutture che determinano l’impingement primario e secondario, e la riparazione del tendine del bicipite, se necessario. Se la rottura del tendine del bicipite è <50%, è indicato il debridement chirurgico.
Per lesioni gravi o rottura, si considera la tenodesi , con l’attaccamento del tendine del bicipite al legamento omerale con ancore di sutura o viti. Questa procedura può essere eseguita nei pazienti di età inferiore ai 60 anni, così come in pazienti attivi, atleti, lavoratori manuali, e pazienti che non accettano un rigonfiamento delle masse muscolari al di sopra del gomito. Per i pazienti sedentari > di 60 anni che presentano una rottura del tendine del bicipite, la procedura di scelta è la tenotomia con rimozione del tendine del bicipite dal legamento gleno-omerale e senza perdita significativa di funzionalità del braccio.

Bibliografia

  • Churgay CA Diagnosis and treatment of biceps tendinitis and tendinosis Am Fam Physician. 2009;80(5):470-6.

aso dev��srС���rato nella decisione in pazienti molto anziani. Richard Deyo in un editoriale di commento si pone la domanda finale: ma allora quando è necessaria la chirurgia? Senza deficit neurologici maggiori, i soggetti con ernia del disco, spondilolistesi degenerativa o stenosi del canale spinale non necessitano della chirurgia, anche se va considerato che tecniche appropriate possono essere attualmente molto efficaci nella terapia del dolore in questi pazienti.

 

Bibliografia

  1. Kinkade S Evaluation and Treatment of Acute Low Back Pain Am Fam Phys 2007;75:1181-8
  2. Pengel LHM et al Physiotherapist-Direct Exercise, Advice, or Both for Low Back Pain Ann Intern Med 2007;146:787-96
  3. Peul WC et al Surgery versus Prolonged Conservative Treatment for Sciatica N Engl J Med 2007;356:2245-56
  4. Weinstein JN et al Surgical versus Non Surgical Treatment for Lumbar Degenerative Spondylolisthesis N Engl J Med 2007;356:2257-70

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L’Osteoporosi si vince così

La Società scientifica SIOMMMS pubblica le nuove Linee guida per la diagnosi, prevenzione e terapia della malattia, di cui soffrono oltre cinque milioni di italiani

Roma – La Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS) ha pubblicato le nuove Linee guida per la diagnosi, prevenzione e terapia dell’osteoporosi, malattia di cui nel nostro paese soffrono circa 5 milioni di persone, per due terzi donne.
Il documento rappresenta un fondamentale contributo nella gestione clinica dell’osteoporosi e delle altre malattie metaboliche dello scheletro. Le raccomandazioni contenute nella pubblicazione nascono sulla base di rigorosi criteri, che assegnano livelli di evidenza agli articoli della letteratura usati per l’applicazione delle linee guida nella pratica clinica.
Il documento si articola in una serie di sessioni, che definiscono l’osteoporosi primitiva e secondaria, sottolineano l’importanza della diagnosi densitometrica della malattia attraverso l’utilizzo della DXA (densitometria a raggi) e analizzano il ruolo di molteplici fattori di rischio nel contribuire alla riduzione della massa ossea.
Notevole importanza è data alla diagnosi differenziale dell’osteoporosi, con particolare riguardo alle malattie che, con meccanismi più o meno diretti, possono aumentare il rischio di frattura. In questo ambito si sottolinea la necessità di sottoporre tutti i pazienti all’esame clinico e a una serie di semplici indagini biochimiche destinate a escludere le osteoporosi secondarie, ribadendo l’assoluta inutilità della scelta, spesso irrazionale, di ulteriori indagini, a volte molto costose e non efficacemente orientate.
Le linee guida concedono inoltre largo spazio alla diagnosi strumentale dell’osteoporosi attraverso la densitometria ossea, definendo anche il ruolo delle indagini (ultrasonografia e tomografia computerizzata) che valutano il trofismo osseo. In più, si sottolinea la capacità predittiva del rischio di frattura delle varie metodiche, il loro ruolo nel monitoraggio terapeutico e i livelli di evidenza circa le raccomandazioni sul loro impiego diagnostico. In proposito, due punti molto importanti riguardano:

  • A) l’individuazione dei soggetti da sottoporre a densitometria ossea,
  • B) il monitoraggio nel tempo.

Un ampio capitolo delle linee guida è infine dedicato sia ai provvedimenti non farmacologici di prevenzione e trattamento, sia alla terapia farmacologica dell’osteoporosi. Si evidenzia, tra l’altro, l’importanza dello stile di vita nell’impedire o rallentare la perdita di massa ossea: dieta congrua, attività fisica sufficiente, apporto adeguato di calcio e vitamina D e/o correzione dei fattori di rischio modificabili quali fumo e abuso di alcool.
Nell’ambito della terapia farmacologica si ribadisce invece l’importanza di sottoporre al trattamento soggetti già osteoporotici, con o senza fratture preesistenti, comunque seriamente a rischio di una prima frattura o di ulteriori fratture.
Al riguardo, una novità importante sottolineata nelle linee guida è il possibile sviluppo e utilizzo di modelli, o algoritmi, sia internazionali che nazionali, capaci di stimare il rischio frattura. Questi modelli si sviluppano attraverso la combinazione del risultato densitometrico con i fattori di rischio del singolo soggetto, e possono così fornire informazioni utili circa la necessità, per quell’individuo, di sottoporsi a terapia specifica. Il documento si conclude con un ampio esame delle terapie attualmente approvate in Italia per il trattamento dell’osteoporosi nei due sessi.

SIOMMMS: Dipartimento di Scienze Cliniche Università di Roma ‘Sapienza’, viale del Policlinico 155, 00161 Roma
Tel. 06.49978388, salvatore.minisola@uniroma1.itwww.siommms.it
Ufficio stampa: Catola & Partners, Firenze, 055.5522892 / 867, riccardo@catola.comwww.catola.com

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Osteoporosi e modalità di monitoraggio dell’efficacia della terapia

Le fratture da fragilità ossea secondaria ad osteoporosi sono comuni nelle donne in postmenopausa e, nel solo anno 2000, si stima che in tutto il mondo si siano verificate circa 9 milioni di fratture da osteoporosi. Le linee guida basate sulle evidenze scientifiche forniscono indicazioni utili al clinico per identificare e trattare i soggetti ad alto rischio. Il trattamento con bifosfonati rappresenta un ausilio efficace nel ridurre il rischio di fratture da fragilità ossea anche se rimane incerta la definizione di quanto tempo dopo l’inizio del trattamento debba passare per poter valutare la risposta terapeutica. Le raccomandazioni delle linee guida sulla frequenza di monitoraggio della BMD dopo l’inizio di terapia sono differenti con un generico consenso solo sull’utilità di controlli periodici.
L’utilizzo della Densitometria Ossea (DEXA) per individuare l’osteoporosi è una strategia economicamente efficace nelle donne di età > 65 anni, ma non esistono analisi costo/beneficio del follow-up con DEXA dopo inizio terapia.

Il British Medical Journal ha pubblicato i risultati dell’analisi secondaria del Fracture Intervention Trial (FIT), studio clinico randomizzato iniziato nel 1993 in cui sono state randomizzate 6.457 donne di età compresa tra 55-80 anni, con bassa BMD misurata all’anca, al trattamento con alendronato vs placebo. La dose iniziale di alendronato era di 5 mg/die, successivamente aumentata a 10 mg/die, quando le evidenze derivate da altri studi hanno dimostrato che il dosaggio più elevato era più efficace. Lo studio FIT ha dimostrato che l’alendronato aumenta la BMD, riduce il rischio di fratture (end point primario) del femore e del polso (end point secondari) e mediante un modello statistico misto ha potuto confrontare nel tempo le variazioni individuali di BMD (variazione soggettive dei risultati di DEXA) e tra soggetti diversi (variazione dei valori di DEXA nella popolazione). La BMD di tutti i partecipanti allo studio FIT in entrambi i gruppi di controllo e di trattamento è stata misurata al basale e, ogni anno, per 3 anni. Ogni individuo è stato testato con lo stesso strumento per ridurre al minimo le differenze dovute alla metodica d’indagine. I risultati hanno dimostrato che la variazione intraindividuale era di circa 10 volte superiore a quella interindividuale suggerendo che la precisione delle misurazioni DEXA è molto limitata. L’incremento medio annuo di BMD nei pazienti nel gruppo alendronato è stato di 0,0085 g/cm2 , valore inferiore alla variabilità rilevata nei singoli soggetti che era di 0,013 g/cm2 . Questo dato ha reso difficile distinguere l’effetto del farmaci dalla variabilità casuale correlata alla metodologia di valutazione con scansioni DEXA nello spazio temporale di un anno. I risultati ottenuti dall’analisi a lungo termine sono apparsi più affidabili. Infatti dopo 3 anni di trattamento il 97,5% dei pazienti trattati con alendronato aveva un aumento della BMD di 0,019 g/cm2 misurata all’anca, con una stretta correlazione con le misurazioni ottenute alla colonna vertebrale. Questi risultati, anche se identificano modificazioni quantitative molto piccole, possono essere considerati come una risposta favorevole e a sostengono del proseguimento di un trattamento efficace.

In conclusione l’analisi dei dati dello studio FIT sostengono che non è necessario ricontrollare la BMD in donne in post menopausa e in terapia con bifosfonati per almeno 3 anni dopo l’inizio dal trattamento. Questo, in un sistema sanitario sempre più attento all’appropriatezza delle decisioni mediche, sarebbe in grado di evitare l’esecuzione di esami DEXA in tempi troppo brevi perché non in grado di fornire informazioni utili nella pratica clinica per il monitoraggio dei pazienti con osteoporosi in terapia con bifosfonati. I medici comunque devono essere consapevoli del fatto che tali conclusioni non sono in linea con le raccomandazioni di autorevoli società scientifiche (American Association of Clinical Endocrinology, National Osteoporosis Foundation, North American Menopause Society) che consigliamo il follow-up con DEXA ogni 1 o 2 anni. Inoltre va sottolineato che il ritardo nella ripetizione test DEXA può non essere appropriato nei casi di follow up in pazienti ad alto rischio di riduzione della BMD. Infine andrebbero valutate le richieste dei pazienti di effettuare il test prima dei 3 anni tenendo conto che, con le attuali tecnologie DEXA l’esecuzione dell’esame in tempi brevi (< 24 mesi) potrebbe aumentare la probabilità di risultati che orientano verso una mancata risposta al trattamento e tali da indurre il paziente alla inopportuna sospensione di una terapia la cui efficacia sarebbe documentabile solo nel tempo.

Bibliografia

  • Bell KL, Hayen A, Macaskill P, et al. Value of routine monitoring of bone mineral density after starting bisphosphonate treatment: secondary analysis of treatment data. BMJ 2009;338:b2266.

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Mal di schiena e Sciatica: valutazione clinica e opzioni terapeutiche

Il mal di schiena (MdS) rappresenta una condizione comune che ogni giorno affligge il 5.6% della popolazione adulta degli Stati Uniti così come in Europa. Spesso i pazienti si trattano da soli e solo il 25-30% si rivolge al proprio medico di famiglia (MMG). L’obiettivo primario del trattamento è rappresentato da una riduzione del dolore che permette al paziente di ritornare il più rapidamente possibile alla sua normale attività lavorativa. Quasi sempre il MdS è gestito direttamente dal MMG senza ulteriori richieste di consulenze dell’ortopedico o del neurochirurgo.

Clinica
Una recente revisione pubblicata dall’American Family Physician 1 ha preso in considerazione i problemi che il MMG incontra nel management di questa condizione che, nel 70% dei casi, è causata da una contrattura dolorosa secondaria ad un trauma distorsivo dei muscoli paravertebrali lombari e solo marginalmente da altre condizioni che comunque è sempre opportuno considerare in diagnosi differenziale.

La storia naturale del mal di schiena generalmente hau n decorso favorevole, con il 30-60% dei pazienti che guariscono in una settimanae, 60-90% in sei settimane e 95% in 12 settimane. Nell’arco di 6 mesi nel 40% dei pazienti si presentano recidive o episodi ricorrenti di MdS. Nel contesto dell’evolutività temporale, le sei settimane di durata dei sintomi sembrano definire un’ideale linea di confine tra un banale mal di schiena gestibile con terapia conservativa e una problema più complesso, meritevole di un approfondimento diagnostico-terapeutico.

L’esame fisico è in grado di discriminare i soggetti che richiedono una valutazione immediata nel sospetto di una indicazione chirurgica urgente, come i pazienti con sindrome della coda equina, sciatalgia bilaterale e progressivo deficit neurologico periferico con interessamento degli sfinteri. E’ importante saper individuare fra la quasi totalità di casi banali i casi critici attribuibili a un mal di schiena

mal di schiena da “codice rosso ” e prendere una decisione corretta e tempestiva.

Solo il 4% dei soggetti con sciatalgia ha un’ ernia del disco

ernia del disco intervertebrale, mentre il 2% presenta gradi variabili di spondilolistesi.

spondilolistesi. Il 95% di coloro che hanno un’ernia del disco hanno una sciatalgia e la probabilità che un disco erniato sintomatico dia solo mal di schiena senza sintomi di sciatica è di 1 a 500. Quindi il tipo di dolore è un sintomo che identifica con buona accuratezza una sofferenza radicolare lombo-sacrale secondaria all’ernia del disco intervertebrale.

In questi casi non è ancora univoco il consenso sulla durata di una terapia conservativa iniziale e la successiva opzione chirurgica. Negli USA e in Olanda il tasso di interventi chirurgici precoci è molto elevato, mentre le linee guida tedesche consigliano la chirurgia solo dopo un tentativo di 6 settimane di trattamento conservativo.

Terapia
Per il mal di schiena vengono consigliate terapie conservative con farmaci antidolorifici, FANS e miorilassanti, associati a fisiokinesiterapia (esercizi, massaggi e manipolazioni) e indicazioni educazionali per il recupero funzionale. Nella maggior parte dei casi queste opzioni risultano efficaci anche se non è chiaro quanto l’effetto delle terapie possa persistere nel tempo. Un recente studio pubblicato sugli Annals of Internal Medicine 2 ha dimostrato che la combinazione di terapie fisiche e consigli sono efficaci nel migliorare il dolore e recuperare la funzionalità a breve termine (6 settimane) più dei singoli interventi separati.

Per la sciatica si sono consolidate nuove e sosfisticate tecniche di chirurgia della colonna vertebrale che possono fornire nuove prospettive per una scelta terapeutica ottimale in casi selezionati. Il New England Journal of Medicine ha pubblicato due articoli su studi di confronto dei trattamenti conservativi e chirurgici nella sciatica3 e nella spondilolistesi4 .

Il primo studio ha valutato pazienti con sciatica per oltre sei settimane che vengono spesso sottoposti a discectomia lombare, con l’intento di capire meglio quale sia il momento più opportuno per effettuare l’intervento. Sono stati randomizzati 283 pazienti che avevano presentato una grave sciatica per un periodo da sei a dodici settimane, a essere sottoposti a intervento immediato o a trattamento conservativo prolungato, con possibilità di intervento chirurgico se necessario. Dei 141 pazienti assegnati all’intervento immediato, 125 (89%) sono stati sottoposti a microdiscectomia dopo 2,2 settimane in media. Dei 142 pazienti destinati a ricevere il trattamento conservativo, 55 (39%) sono stati trattati chirurgicamente dopo 18,7 settimane in media. Nel primo anno di follow up non sono state osservate differenze significative nei punteggi relativi alla disabilità (p=0,13). Il dolore alle gambe è migliorato più rapidamente nei pazienti sottoposti a intervento chirurgico immediato (p<0,001), i quali hanno anche segnalato una maggiore velocità di guarigione percepita (RR 1,97; IC95%, da 1,72 a 2,22; p<0,001) che tuttavia, dopo un anno di follow-up, era uguale al 95% in entrambi i gruppi.

Il secondo studio ha affrontato il tema della gestione della spondilolistesi degenerativa con stenosi spinale dove la chirurgia trova ampio impiego, ma la sua efficacia rispetto al trattamento non chirurgico non è stata dimostrata in studi controllati. I trattamenti previsti erano laminectomia decompressiva standard (con o senza fusione) oppure il trattamento non chirurgico convenzionale. Sono stati arruolati 304 pazienti nella coorte randomizzata e 303 in quella di osservazione. L’analisi “as-treated” per entrambe le coorti ha mostrato un vantaggio significativo a tre mesi per la chirurgia, che aumentava ad un anno per poi leggermente diminuire dopo due anni. Gli effetti del trattamento a due anni sono stati 18,1 per il dolore fisico (IC95%, da 14,5 a 21,7), 18,3 per la funzionalità fisica (IC al 95%, da 14,6 a 21,9) e –16,7 per l’indice di disabilità Oswestry Disability Index (IC al 95%, da –19,5 a –13,9). Pertanto i pazienti affetti da spondilolistesi degenerativa e stenosi spinale trattati chirurgicamente hanno ottenuto un sollievo notevolmente superiore rispetto al dolore e alla funzionalità nell’arco di due anni rispetto ai pazienti trattati con metodi non chirurgici

In conclusione entrambi i trial dimostrano un miglioramento del dolore muscolare e del dolore sciatico con la chirurgia. Rimangono alcune aree di incertezza se si considera il tipo di pazienti (più giovani quelli che hanno sintomi da ernia del disco rispetto a quelli con spondilolistesi) e la differente complessità degli interventi di discectomia e di chirurgia di fusione, condizionanti un tasso di complicazioni che nel secondo caso deve essere considerato nella decisione in pazienti molto anziani. Richard Deyo in un editoriale di commento si pone la domanda finale: ma allora quando è necessaria la chirurgia? Senza deficit neurologici maggiori, i soggetti con ernia del disco, spondilolistesi degenerativa o stenosi del canale spinale non necessitano della chirurgia, anche se va considerato che tecniche appropriate possono essere attualmente molto efficaci nella terapia del dolore in questi pazienti.

Bibliografia

  1. Kinkade S Evaluation and Treatment of Acute Low Back Pain Am Fam Phys 2007;75:1181-8
  2. Pengel LHM et al Physiotherapist-Direct Exercise, Advice, or Both for Low Back Pain Ann Intern Med 2007;146:787-96
  3. Peul WC et al Surgery versus Prolonged Conservative Treatment for Sciatica N Engl J Med 2007;356:2245-56
  4. Weinstein JN et al Surgical versus Non Surgical Treatment for Lumbar Degenerative Spondylolisthesis N Engl J Med 2007;356:2257-70

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Linfadenopatia sospetta

In un editoriale apparso nell’agosto 2006 sull’American Family Physician (1 ) veniva proposto uno scenario clinico di un paziente di 48 anni con una storia di cancro del colon retto che si recava dal proprio medico di famiglia per la comparsa di astenia, febbricola e senso di costrizione retro-sternale. L’ecocardiogramma, l’ECG e l’esame clinico obiettivo erano normali, ma per il persistente disturbo toracico il medico aveva proposto un check-up cardiologico completo ed esami di routine i quali documentarono un’anemia. Visti gli esami veniva proposta la colonscopia. Alla visita successiva il paziente si presentò accompagnato dalla moglie che esordì affermando – Dottore credo che mio marito abbia un linfoma. – conclusione a cui erano arrivati dopo una ricerca approfondita via Internet sulle possibili cause dei sintomi riferiti dal marito. Una TC del torace confermò un ingrandimento dei linfonodi mediastinici conseguente ad un Linfoma non-Hodgkin.

Questo caso clinico permette di focalizzare l’attenzione su alcuni concetti generali utili nella pratica clinica, ovvero che:

  1. Il paziente è altamente motivato al raggiungimento della sua diagnosi
  2. Ha un rapporto molto stretto con i propri sintomi
  3. E’ disposto a dedicare più tempo del medico all’analisi delle diagnosi potenziali

Ne consegue che l’attenzione e il tempo medico dedicati al paziente in fase diagnostica hanno rappresentato due fattori critici per l’esito di questo processo decisionale, assunto che è possibile generalizzare. Nei linfomi spesso, come in buona parte dei tumori delle parti esterne (cute, tiroide, mammella, testicoli, cavo orale), è possibile orientarsi dopo una semplice visita che documenta un ingrandimento dei linfonodi superficiali, anche se l’esempio riportato rende l’idea della complessità in cui si opera nella pratica clinica.

In una revisione della letteratura scientifica apparsa sui Mayo Clinic Proceeding (2 ) è stato affrontato il tema dell’approccio clinico della linfadenopatia partendo dalla distinzione tra un reperto attribuibile ad una malattia autolimitante benigna rispetto a una patologia maligna. Di seguito è importante, nelle linfadenopatie maligne, poter discriminare tra il sospetto di un carcinoma o di un linfoma per le differenti competenze specialistiche coinvolte (oncologo o ematologo) per l’appropriato trattamento.
Gli studi condotti nell’ambito delle cure primarie hanno posto l’attenzione su alcuni fattori predittivi utili al Medico di Medicina Generale (MMG) nell’orientamento del giudizio clinico circa la malignità o meno di una linfadenopatia elencate nella

TAB.1.

Le malattie linfoproliferative non hanno predilezione per l’età, mentre è più facile che i carcinomi insorgano dopo i 50 anni. La diagnosi differenziale con la mononucleosi infettiva è prioritaria nei soggetti giovani, nei quali la dimensione dei linfonodi, la loro localizzazione e il tempo di insorgenza rappresentano i fattori che orientano all’esecuzione della biopsia. In generale i soggetti con linfonodi che si manifestano al di fuori della regione inguinale, di diametro >1 cm e con un tempo di insorgenza superiore ai 30 gg senza che si sia raggiunta una diagnosi plausibile sono da indirizzare rapidamente all’ematologo.

Il trattamento empirico della linfadenopatia con antibiotici o cortisone non è raccomandabile, anche se rappresenta una pratica comune in medicina generale.
L’associazione di segni e sintomi può essere molto variabile e il paziente può essere asintomatico. I sintomi sistemici (febbre <=38°C, sudorazione notturna, calo ponderale >10% ) sono suggestivi di malattia linfoproliferativa, ma va considerato che sono presenti anche nelle malattie infettive. Inoltre i pazienti con Malattia di Hodgkin possono accusare algie linfonodali dopo ingestione di bevande alcooliche.
Le caratteristiche di consistenza dei linfonodi non sono di particolare aiuto nel discriminare tra lesioni benigne o maligne, anche se linfonodi duro- lignei, confluenti e mal delimitabili sono spesso associati alle neoplasie solide o ai linfomi. La dolorabilità linfonodale alla palpazione può essere più suggestiva di una lesione infiammatoria, ma anche linfonodi maligni in rapida evoluzione possono essere dolenti per alterazioni strutturali secondarie a emorragia e necrosi.

La splenomegalia associata a linfadenopatia è frequente nella mononucleosi, nei linfomi Hodgkin e Non-Hodgkin e nella leucemia linfatica cronica; è rara nei carcinomi metastatici.Mentre la presenza di febbre apre un ampio ventaglio di diagnosi differenziali.Il tipo di localizzazione delle masse linfonodali è un fattore condizionante l’invio del paziente allo specialista per la biopsia. In questo caso il valore predittivo dell’esame varia al variare della sede di biopsia. Un prelievo bioptico ai linfonodi della regione inguinale è quello meno utile per raggiungere la diagnosi, mentre i linfonodi sovraclaveari sono i maggiormente predittivi di linfadenopatia maligna, come è stato dimostrato da una analisi su 550 pazienti pubblicata sul British Journal of Cancer (3 ) in cui questa ipotesi è stata confermata insieme ad altri indici di malignità rappresentati dal sesso maschile, l’età, la razza bianca e il contemporaneo coinvolgimento di 2 o più aree linfonodali.

In conclusione nel caso di una linfadenopatia è possibile che il paziente porti all’attenzione del medico non solo i sintomi, ma anche le proprie ipotesi diagnostiche fruendo dell’enorme mole di conoscenze disponibile sul web, ipotesi che possono a volte migliorare la gestione del rapporto medico-paziente.

Bibliografia

  1. Alper BS Curbside consultation Usefulness of Online Medical Information Am Fam Phys 2006;74:482
  2. Habermann TM, Steensma DP Lymphadenopthy Mayo Clinic Proc 2000;75:723-32
  3. Chau I et al Rapid access multidisciplinary lymph node diagnostic clinic: analisis of 550 patients Brit J Cancer 2003;88:354-61

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PSA e tumore della prostata. Nuove evidenze sullo screening.

Il cancro della prostata è una delle principali cause di morte per malattie oncologiche tra gli uomini dei paesi sviluppati. La disponibilità negli ultimi 25 anni di un test semplice e di facile esecuzione come il dosaggio dell’antigene prostatico specifico (PSA) ha indotto i medici prenderlo in considerazione per una strategia di screening orientata a diminuire il rischio di morte per questa malattia. Da alcuni anni l’entità del beneficio e del danno che tale screening determina è oggetto di un dibattito continuo.
L’aspetto critico del PSA è legato alla sua capacità di provocare sovra diagnosi attraverso l’identificazione di neoplasie prive di capacità evolutiva e che, una volta diagnosticate, inducono a un sovra trattamento attraverso interventi capaci di danneggiare la qualità di vita dei pazienti.

Recentemente sono stati pubblicati su The Lancet Oncology i primi risultati di uno studio di screening randomizzato controllato iniziato nel dicembre 1994 nel quale sono stati scelti 20.000 uomini, nati tra il 1930 e il 1944, dal registro della popolazione di Goteborg. Questi soggetti sono stati randomizzati in un rapporto di 1:1, tra un gruppo di screening per il PSA ogni 2 anni (n = 10 000) e un gruppo di controllo non invitato al test (n = 10 000). Il gruppo di screening comprendeva soggetti fino ad un limite superiore di età di 69 anni (range 67-71) e i test supplementari, come l’esplorazione rettale e le biopsie della prostata, erano proposti solo a chi presentava un incremento delle concentrazioni di PSA. L’end-point primario era la mortalità per cancro prostatico specifico.

Questi sono i primi dati cumulativi relativi a incidenza del cancro prostatico e di mortalità calcolati fino al 31 dicembre 2008. Durante un follow-up di 14 anni un tumore della prostata è stato diagnosticato in 1138 uomini nel gruppo di screening e in 718 nel gruppo controllo, con un’incidenza cumulativa rispettivamente del 12,7% e del 8,2% (hazard ratio HR=1,64, 95% CI 1,50 -1 – 80; p < 0,0001). La riduzione assoluta del rischio cumulativo di morte per cancro alla prostata a 14 anni era dello 0.40% (95% CI 0,17 -0,64), pari a 0,50% nel gruppo screening e 0,90% nel gruppo di controllo. Le morti registrate per cancro prostatico sono state 44 nel gruppo di screening e 78 nel gruppo di controllo un rapporto del tasso di mortalità RR=0,56 (95% CI 0,39 -0 82, p = 0,002). Inoltre, per prevenire una morte per cancro della prostata, dovevano essere invitati allo screening 293 uomini e doveva essere formulata la diagnosi in 12 di loro.

Lo studio dimostra come in questa popolazione la mortalità per carcinoma della prostata è stato ridotto quasi della metà (44%). Tuttavia il rischio di diagnosi in eccesso è rilevante, anche se il numero di soggetti da sottoporre a screening necessario per il trattamento (NNT) è paragonabile a quello degli screening per il tumore della mammella e con un beneficio migliore rispetto ad altri programmi di diagnosi precoce. Resta aperto il dibattito sulla riproducibilità dei risultati in altre popolazioni e altri contesti dove il dosaggio del PSA effettuato con modalità opportunistica è comune nella pratica clinica, a differenza della Svezia. Questi risultati ricordano al MMG che è facile, in soggetti maschi al di sopra dei 50 anni, prescrivere tra gli altri esami il PSA, ma non è poi facile decidere che cosa fare di fronte ad un PSA alterato.

  • Jonas Hugosson et al Mortality results from the Goteborg randomized population-based prostate-cancer screening trial The Lancet Oncology 2010;8:725-32 

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Carcinoma della Prostata a decorso favorevole. Chi, come e perché sottoporre a sorveglianza attiva?

Nelle popolazioni in cui è diffuso lo screening del carcinoma prostatico è sempre più forte la tendenza ad adottare una strategia di attiva sorveglianza nei soggetti con un rischio di neoplasia a decorso favorevole, ossia i casi in cui il risultato dello screening permette di identificare una malattia priva di rilevanza clinica in cui l’astensione da qualsiasi trattamento non rappresenta una minaccia per lo stato di salute.
Questo approccio è supportato da dati che dimostrano come i pazienti che hanno una malattia clinicamente insignificante possono essere identificati con ragionevole accuratezza, inizialmente classificati a basso rischio e, nel tempo, eventualmente riclassificati ad alto rischio senza privarli della possibilità di un trattamento radicale con intento curativo.

In questo contesto è importante capire quali siano gli aspetti clinici e patologici della malattia che insieme ad età e comorbidità concorrono ad identificare chi ha un basso rischio di progressione di malattia durante la vita. Un monitoraggio attento nel tempo e la disponibilità di criteri di intervento ragionevoli sono aspetti entrambi orientati ad identificare in maniera opportuna la malattia aggressiva e così ovviare al sovratrattamento dei pazienti. In questi casi un ulteriore aspetto di enorme importanza è la comunicazione appropriata del medico per ridurre nel paziente il peso psicologico di vivere affetto da una neoplasia non trattata.

L’argomento è stato oggetto di una revisione pubblicata su Nature Clinical Practice in cui si discute la strategia della sorveglianza attiva come opzione nei maschi con un cancro della prostata di piccolo volume identificato mediante screening. I pazienti che cadono in questa categoria sono uomini affetti da tumore prostatico con uno score di Gleason ≤6, quelli con PSA ≤10 ng/ml e quelli con una uno stadio di malattia T1c o T2a. Questi criteri comprendono circa il 45% dei soggetti con una nuova diagnosi di cancro della prostata in una popolazione sottoposta a screening.

Questo concetti sono stati formalizzati in cinque postulati per la sorveglianza attiva:

  1. lo screening del cancro della prostata identifica una malattia che in diversi pazienti non rappresenta un pericolo per la loro salute
  2. i pazienti che cadono in questa categoria possono essere identificati con ragionevole certezza
  3. il non trattamento determina un impatto minimo in termini di effetti secondari e costi
  4. i pazienti inizialmente classificati come a basso rischio se riclassificati ad alto rischio potrebbero essere curati con trattamento radicale nella maggior parte dei casi
  5. per il paziente il peso psicologico di vivere con una neoplasia non trattata è minore dell’impatto sulla qualità di vita di una terapia curativa, ma non necessaria.

Secondo l’autore questi postulati dovrebbero guidare la selezione dei pazienti eleggibili. La strategia considera l’importanza di un’accurata definizione del Gleason score e del suo valore predittivo come confermato dai risultati del Connecticut Study che evidenzia, nel follow up a 20 anni, un tasso di mortalità stabile nei tumori della prostata localizzati a basso grado. Questo conferma l’ampia finestra di curabilità della malattia in accordo con quanto dimostrato da studi autoptici. Infatti è dimostrato che il tumore della prostata esordisce tipicamente come focolaio microscopico nella terza/quarta decade di vita e può rimanere subclinico per circa 30 anni. La conseguente fase di progressione clinica potenzialmente, ma non invariabilmente, evolve verso una malattia metastatica e il decesso.
Il razionale della sorveglianza attiva si basa, per i soggetti di età <60 anni, sui criteri di Epstein che garantiscono un interessamento inferiore a un terzo dei campioni bioptici con non più del 50% di infiltrato per singolo campione. Per soggetti più anziani (>70 anni) o con condizionanti un’aspettativa di vita <10 anni si potrebbe considerare un valore soglia di PSA >10 ng o un Gleason score = 7 (3+4). Il secondo aspetto della sorveglianza è la selezione dei pazienti per l’intervento radicale dopo il periodo di osservazione. L’approccio utilizzato prevede la rilevazione di un tempo di raddoppiamento del PSA (PSA Dubling Time) <3 anni o un grado di progressione secondo il Gleason score ≥7. Questi criteri sono apparsi più accurati del PSA velocity >2 ng/ml/anno che determina un sovratrattamento dei casi stabili.

Queste sono indicazioni e non regole e tutto il processo è condizionato dal giudizio clinico. La progressione a un Gleason score 3+4 in un soggetto giovane può rappresentare un’indicazione all’intervento, mentre in un paziente anziano con comorbidità si può ancora garantire l’attesa. I pazienti con tumore della prostata indolente, a basso rischio di mortalità, possono essere risparmiati dagli effetti collaterali di una terapia aggressiva. Perché questo si possa realizzare è necessaria una conferma da studi randomizzati in cui il medico dovrà considerare la comunicazione come la maggior sfida tra le opzioni terapeutiche per questa tipologia di pazienti.

Bibliografia

  1. Klotz L Active surveillance for favorable-risk prostate cancer: who,how and why? Nat Cl Pract Onc 2007;4:692-7
  2. Albertsen P et al.href=”http://jama.ama-assn.org/cgi/content/full/293/17/2095″ target=”_blank”>20-Year outcomes following conservative management of clinically localized prostate cancer.JAMA 2005;293:2095-2101
  1. Come il fumo che ti resta addosso
  2. La figura retorica scelta dagli autori di un breve contributo uscito sugli Archives of Internal Medicine è particolarmente suggestiva: la sensazione di perdita, impotenza e lutto vissuta dal personale sanitario ogni qualvolta un paziente muore ha caratteristiche terribilmente simili a quelle che lascia il fumo, intangibile, inafferrabile, ma così invadente e pervasivo.
  3. Piccolo campione di studio (bene assortito, garantiscono gli autori): solo 20 oncologi di centri ospedalieri canadesi. Metodologia elettivamente qualitativa: intervista semi-strutturata registrata e successivamente trascritta. Obiettivo: comprendere le reazioni emotive del curante successive alla morte del malato e le modalità con cui tali reazioni influenzino la vita personale e professionale del medico.
  4. Quali i risultati? L’oncologo patisce la responsabilità nei confronti del malato: la durezza dei dati clinici e di laboratorio è lo scoglio contro il quale si infrange la sicurezza del medico, determinando una sensazione di impotenza, colpevolezza e insufficienza. La strategia – consapevole o meno – è quella di cercare (per quanto possibile) di confinare le difficoltà sperimentate nell’incontro col malato in una dimensione esterna alla propria vita privata e, ancor prima, adoperarsi perché sia sempre conservata una – per così dire – “distanza di sicurezza” tra sé e il malato.
  5. Forse è superfluo aggiungere che la gran parte dei medici coinvolti nello studio ha dichiarato di riuscire solo in parte a mettere in atto questi meccanismi di difesa, finendo con l’essere fortemente coinvolto emotivamente nella storia del paziente. Precisazione importante ma forse ovvia, se pensiamo al ruolo che il supporto psicologico ha nella strategia terapeutica in ambito oncologico. Sostegno che trova ancora maggiori motivazioni se si considera l’elevata incidenza di depressione dei malati oncologici. Come leggiamo sulla rivista Recenti Progressi in Medicina, “la presenza di sintomi e vissuti depressivi compromette la qualità di vita del paziente, interferisce con l’adesione terapeutica, si associa a tempi di ospedalizzazione più lunghi e può influenzare negativamente la prognosi e la sopravvivenza: di qui l’utilità di una pratica clinica standardizzata di rilevazione tempestiva e accurata e, conseguentemente, di trattamento”.
  6. La presa in carico del malato di cancro non può che essere “comprensiva”; di conseguenza, è molto probabile sia fonte di tensione emotiva e psicologica nel personale sanitario.
  7. ▼ Graneh L, et al.Nature and Impact of grief over patient loss on oncologists’ personal and professional lives. Arch Intern Med 2012; 21 DOI: 10.1001/archinternmed.2012.1426
    ▼Annunziata MA, Muzzatti B. Misurare la depression in oncologia: rilevanza, problemi, modalità. Recenti Prog Med 2011;102:444-6. 

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