Glaucoma, brimonidina/timololo combinazione vincente

Nel trattamento del glaucoma primario ad angolo aperto (Poag) la combinazione fissa brimonidina/timololo (Brtfc) determina riduzioni della pressione intraoculare (Iop) media diurna e mattutina di maggiore entit? rispetto a quelle ottenute con l’associazione fissa dorzolamide/timololo (Dtfc). ? il risultato di un confronto effettuato all’ospedale clinico universitario San Carlos dell’universit? Compiutense di Madrid. Dopo 6 settimane di terapia con timololo maleato al 5% bis/die, 25 pazienti sono stati assegnati in modo casuale a ricevere Brtfc bis/die o Dtfc bis/die per 6 settimane, per poi essere scambiati all’altro braccio di trattamento per ulteriori 6 settimane. Ai follow-up, la Iop ? stata misurata alle ore 9.00 (pre-instillazione), 12.00 e 16.00. L’outcome primario era rappresentato dal cambiamento rilevato nella Iop diurna media tra la baseline (terapia con solo timololo) e la visita dopo 6 settimane: nei 20 pazienti che hanno concluso lo studio, si ? passati da 20,28+/-2,03 mmHg a 16,28+/-2,07 mmHg nel gruppo Brtfc e a 17,23+/-2,29 mmHg in quello Dtfc. La Iop media alle ore 9.00, partendo da 20,95+/-2,31 mmHg, ? arrivata a 15,85+/-2,56 mmHg nei pazienti trattati con Brtfc e a 17,55+/-2,67 in quelli in terapia con Dtfc. Quanto alle misurazioni delle ore 12.00 e 16.00, le modificazioni medie della Iop dalla baseline sono risultate sovrapponibili nei due bracci. Le percentuali di partecipanti che hanno raggiunto l’obiettivo di una Iop<18 mmHg (outcome secondario) sono state 85% e 60% nei gruppi Brtfc e Dtfc, rispettivamente. Gli autori sottolineano che le piccole dimensioni del campione e la durata di sole sei settimane del trattamento rappresentano le principali limitazioni dello studio che impediscono di trarre conclusioni riguardo la terapia a lungo termine. Curr Med Res Opin, 2010 Apr 30. [Epub ahead of print]

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Scompenso, utili visite precoci post dimissione

I pazienti con scompenso cardiaco che vengono visitati da un medico entro una settimana dalla dimissione ospedaliera hanno una minore probabilit? di essere nuovamente ricoverati entro trenta giorni. Lo rivela uno studio svolto da Adrian F. Hernandez, della Duke university school of medicine di Durham, North Carolina, e collaboratori. Un dato che va nella direzione della tesi, gi? avanzata da vari clinici, che un follow-up precoce dopo la dimissione permette di diminuire la frequenza dei nuovi ricoveri. Sono stati analizzati i dati relativi a 30.136 pazienti (et?>/=65anni), ricoverati per insufficienza cardiaca tra il 2003 e il 2006 e inviati al domicilio dopo un periodo mediano di 4 giorni. 6.483 soggetti (21,3%) sono stati riammessi in ospedale entro i primi 30 giorni dall’uscita dal reparto. Si ? cos? verificato che il follow-up precoce (entro una settimana) non rappresentava la norma: a livello ospedaliero, soltanto il 38,3% dei pazienti aveva incontrato un medico per la valutazione post-ricovero. Gli ospedali che ricorrevano in modo pi? rilevante al follow-up precoce, per?, presentavano tassi inferiori di nuovi ricoveri; in particolare, il tasso di riammissione entro 30 giorni ? risultato pi? alto (23,3%) tra i pazienti ricoverati in ospedali compresi nel quartile inferiore di ricorso al follow-up precoce, contro il 20-21% di quelli nel quartile superiore. Infine, rispetto ai tassi rilevati nel quartile inferiore degli ospedali con follow-up precoci, le hazard ratio aggiustate per nuovo ricovero entro 30 giorni o per mortalit? sono state, nei pazienti dimessi da ospedali nel secondo, terzo e quarto quartile, rispettivamente 0,85, 0,87 e 0,91.

Jama, 2010; 303(17):1716-22

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Ps: specializzazione non giustifica errori diagnostici

Il medico di Pronto Soccorso nell’intento di giustificare il proprio operato affermava che pur essendo specialista in pneumologia (“e quindi di una branca per nulla affine a quelle che interessavano la persona offesa …”), aveva visitato la paziente una prima volta, “in assenza di segni oggettivi”, e una seconda volta; aveva fatto eseguire una TAC, con esito negativo, ed aveva fatto trasferire la paziente al pi? vicino ed attrezzato nosocomio. Hanno sostenuto i giudici che, se sin dall’inizio i segni sintomatici erano del tutto inequivocamente indicativi della reale patologia dalla quale era stata attinta la paziente, nulla di comprensibile e giustificabile poteva aver legittimato il medico di Ps a formulare una diagnosi di “nevrosi d’ansia” (la prima volta) e di “psicosi acuta” (la seconda volta), tanto sostanziando la colpa addebitatagli.?N? vale addurre a contrario, la prospettazione del sanitario di essere specialista in pneumologia: tale specializzazione non lo abilitava di certo a svolgere il suo lavoro di pronto soccorso esclusivamente nei confronti di pazienti con patologie riconducibili solo a tale area specialistica; egli assumeva, nei confronti di tutti i pazienti sottoposti alle sue cure, una piena posizione di garanzia, versando in colpa (quanto meno colpa per assunzione) nell’omettere di svolgere appieno i suoi compiti e nel diagnosticare (in un primo tempo) una ingiustificata diagnosi di “nevrosi d’ansia”, con la conseguente prescrizione di un farmaco ad hoc e nel confermare (in secondo tempo) la patologia psichica con diagnosi di “psicosi acuta”.?La corretta diagnosi, nel caso specifico, veniva considerata comune appannaggio di ogni esercente l’attivit? medica, secondo le pi? comuni e generalizzate leges artis. (Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net)

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Rischio di epatocarcinoma in pazienti privi di HBsAg

Il rischio di epatocarcinoma (Hcc) ? consistente anche nei pazienti con epatite cronica B che hanno perso l’antigene HBsAg e in assenza di cirrosi. Lo studio prospettico di popolazione, firmato da Josephine Simonetti dell’Alaska native tribal health consortium di Anchorage e collaboratori, ? stato eseguito su una coorte di 1271 nativi con infezione cronica da Hbv seguiti per una media di 19,6 anni. In questo lasso di tempo 158 persone hanno perso HBsAg per un tasso di clearance pari allo 0,7% all’anno. La perdita dell’antigene ? risultata associata all’et? ma non al sesso e nemmeno ai genotipi virali. Sei pazienti, di cui 2 con cirrosi e 4 senza, hanno sviluppato Hcc mediamente dopo circa 7,3 anni dalla clearance di HBsAG (il range ? compreso tra 2 e 15,5 anni). ? stata evidenziata un’incidenza di Hcc dopo clearance significativamente pi? bassa rispetto ai casi che hanno mantenuto l’antigene (36,8 vs 195,7 casi per 100mila persone-anni di follow-up). Inoltre, anche dopo la perdita di HBsAg, il Dna virale era identificabile nel siero nel 18% dei pazienti la cui clearance era avvenuta in mediana 3,7 anni prima. Sulla base di questi risultati gli autori ritengono che i pazienti che hanno perso l’antigene anche in assenza di cirrosi dovrebbero essere avviati a controlli ecografici periodici per individuare precocemente un eventuale Hcc.
Hepatology 2010; 51: 1531-1537

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Documento di consenso sul reflusso gastroesofageo

Malattia da reflusso gastroesofageo non erosiva (Nerd): un nome complicato per un disturbo che colpisce due italiani su 10, con un forte impatto sociale ed economico. La patologia compromette infatti pesantemente la qualit? di vita del paziente, colpendo non solo l’apparato digerente, ma spesso anche le vie respiratorie e talvolta il cuore. Per venire incontro alle esigenze di questi malati, i gastroenterologi hanno stabilito i punti principali di un documento di consenso che servir? a gestire pi? facilmente la malattia.??Il documento di consenso – commenta in una nota Michele Cicala del Campus Bio Medico di Roma – ha lo scopo di fornire informazioni aggiornate ai medici di famiglia e, attraverso il sito web www.nerdnetwork.net, anche ai pazienti. Questo strumento ? frutto di riunioni di esperti italiani sugli aspetti pi? controversi e sulle recenti scoperte nel campo della malattia da reflusso gastroesofageo non erosiva, caratterizzata da sintomi fastidiosi e a volte invalidanti, non accompagnati da lesioni visibili alla gastroscopia?.

Il documento ? stato elaborato dai 27 gastroenterologi coinvolti nel Nerd Network, un progetto nato con l’obiettivo di diffondere maggiori conoscenze sulla patologia identificando i bisogni terapeutici non soddisfatti e i fabbisogni formativi dei vari medici. Gli esperti hanno selezionato 10 punti che riguardano molteplici aspetti della Nerd: dalla definizione della sindrome, alla sua epidemiologia, dalla fisiopatologia al trattamento. ?In sintesi – spiega Fabio Pace, direttore della Gastroenterologia di Seriate (Bg) – ? emerso che la Nerd ha un grande impatto epidemiologico, ma tende a essere sottovalutata dal medico di famiglia poich?, in assenza di lesioni endoscopiche, viene un po’ considerata la “cenerentola” della malattia da reflusso gastroesofageo. Al contrario, la Nerd richiede grande attenzione diagnostica e una valida terapia antisecretiva, come quella realizzabile con gli inibitori di pompa protonica di seconda generazione, per prevenire complicanze erosive e/o l’insorgenza di sintomi extra-esofagei e per migliorare la qualit? di vita, spesso molto compromessa, in particolare quando esistono sintomi notturni?.

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Steatoepatite non alcolica, migliora con vitamina E

In assenza di diabete concomitante, una terapia con vitamina E induce, rispetto al placebo, tassi pi? elevati di miglioramento nei pazienti affetti da steatoepatite non alcolica. Si apre pertanto un interessante spiraglio terapeutico per una malattia per la quale non esiste attualmente un trattamento condiviso dagli esperti. La nuova strategia ? suggerita dai risultati di uno studio di Arun Sanyal della Virginia Commonwealth University di Richmond (Stati Uniti) e collaboratori, condotto su 247 adulti con steatoepatite non alcolica, senza diabete: i soggetti arruolati sono stati suddivisi in tre gruppi che hanno ricevuto rispettivamente pioglitazone (30 mg al giorno), vitamina E (800 UI al giorno) e un placebo. La somministrazione dei farmaci o del placebo ? proseguita per 96 settimane. La terapia con vitamina E, rispetto al placebo, ha mostrato un pi? alto tasso di miglioramento dell’outcome primario, cio? delle caratteristiche istologiche della steatoepatite (43% vs 19%), mentre la differenza rispetto a placebo non ? risultata significativa per il pioglitazone (34% vs 19%). L’outcome primario ? stato valutato mediante un insieme di punteggi standardizzati relativi a steatosi, infiammazione lobulare, rigonfiamento epatocellulare e fibrosi. Va detto comunque, che il pioglitazone, come la vitamina E, ha prodotto effetti terapeutici significativi su alcuni outcome secondari quali la riduzione dei livelli di transaminasi, della steatosi epatica e dell’infiammazione lobulare, ma non sulla fibrosi.
N Engl J Med, Online First 28 aprile 2010

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Mammografia di screening: indicazioni personalizzate nelle donne giovani

In tutto il mondo, ogni anno, viene diagnosticato un tumore al seno in pi? di 1 milione di donne e pi? di 500.000 muoiono a causa di questa malattia. Nel corso degli ultimi vent’anni si ? osservata una modesta, ma reale diminuzione di mortalit? per il tumore della mammella attribuibile al miglioramento della diagnosi precoce e alle strategie terapeutiche. In questo contesto dovrebbe essere considerato il recente e acceso dibattito aperto dalla pubblicazione delle nuove linee guida del US Preventive Services Task Force (USPSTF) sull’approccio ottimale dello screening per il tumore della mammella.
Nel 2002, la USPSTF ha raccomandato lo screening mammografico ogni 1 o 2 anni per tutte le donne ≥40 anni. Nella revisione di aggiornamento 2009 recentemente apparsa sugli Annals of Internal Medicine la task force ha rivisto i propri orientamenti sulla base di una revisione sistematica dei benefici e dei danni da screening, e su un’analisi dei dati con modelli statistici orientati a stimare i risultati associati a screening annuale rispetto al biennale con inizio e termine in et? differenti.
Nel documento riassuntivo la USPSTF fornisce alcune raccomandazioni e dichiarazioni che vanno a contrastare in modo rilevante con le strategie consolidate, in particolare:
non raccomanda lo screening di routine per il tumore della mammella nelle donne pi? giovani (fascia di et?, 40-49 anni), ma sostiene che la decisione di iniziare lo screening in donne con et? <50 anni dovrebbe essere individualizzata.
raccomanda lo screening mammografico biennale per tutte le donne di mezza et? (fascia di et?, 50-74 anni).
sostiene che le prove scientifiche attuali non sono sufficienti per una valutazione dei benefici e dei danni correlati allo screening mammografico nelle donne anziane (et?, ≥75 anni)
evidenzia che non esistono al momento dati scientifici sufficienti per valutare i benefici e i rischi connessi all’esame clinico del seno, eseguito in aggiunta alla mammografia di screening nelle donne di et? ≥40, nonch? per valutare i vantaggi e gli svantaggi della mammografia digitale o della risonanza magnetica rispetto alla mammografia su pellicola radiografica tradizionale.
scoraggia i medici a dare indicazione alle donne di eseguire l’auto-esame del seno.
Sicuramente lo screening del tumore al seno genera ansia in molte donne, ma poich? queste nuove linee guida affermano che la mammografia dovrebbe essere condotta in meno donne e meno frequentemente, ? facile comprendere come questo possa generare confusione. Se si considera inoltre che molte societ? scientifiche approvano lo screening mammografico annuale dopo i 40 anni, questa discrepanza aggiunge incertezza nei medici e nei pazienti. Un’articolo a commento di Ann Partridge del Dana Farber Institute di Boston apparso sul New England Journal of Medicine aiuta a ridefinire correttamente i termini del problema. Infatti l’autore afferma che se da un lato vi ? un consenso sul fatto che lo screening mammografico porti ad una riduzione della mortalit? per cancro al seno tra le donne da 40 a 74 anni di et?, dall’altra ? ampiamente riconosciuto che la mammografia ? un test altamente imperfetto. La mammografia non riescono a rivelare un certo numero di tumori, in particolare quelli che sono negativi per i recettori degli estrogeni. Allo stesso tempo, i falsi positivi sono frequenti con una sovra diagnosi in particolare di tumori invasivi. Inoltre alcune mammografie rilevano lesioni non invasive che probabilmente non avrebbero mai causato alcun problema alla donna. Ma nonostante la over-detection e la under-detection, la mammografia rimane lo strumento migliore di screening di popolazione per il cancro della mammella.
Quindi come interpretare le nuove raccomandazioni USPSTF, riconciliare le opinioni divergenti e consigliare i pazienti?
La task force non vieta la mammografia nelle donne tra i 40 e 50 anni, n? afferma che sia un esame di nessun valore. Al contrario, conferma un dato conosciuto da tempo e cio? che i vantaggi della mammografia sono pi? limitati nelle donne pi? giovani rispetto alle pi? anziane, e che le donne a rischio medio dovrebbe prendere una decisione con il loro medico di riferimento per un programma di screening che meglio si adatti alle loro preferenze. Una donna quarantenne deve sapere che per lei il beneficio assoluto dello screening mammografico ? abbastanza limitato. Pi? di 1900 donne devono essere sottoposte a controllo per 10 anni per prevenire 1 decesso da tumore della mammella e ci sono circa il 60% in pi? di risultati falsi positivi e di biopsie inutili che non ci sarebbero se lo screening fosse iniziato a 50 anni.
Le prove del fallimento dell’autoesame del seno come strumento di screening non significa che le donne non debbano esaminare se stesse. Se il regolare autocontrollo del seno ? un esame che non offre alcun vantaggio in un contesto di screening, ? opportuno che i medici incoraggino le donne a essere consapevoli dei loro seni e, se preoccupate, consultino il medico.
In conclusione queste raccomandazioni dovrebbero essere viste come un passo verso uno screening dei tumori pi? personalizzato in cui, in futuro, la comprensione delle basi molecolari base del cancro al seno potr? fornire strumenti utili per screening pi? efficaci. Al momento ? corretto ottimizzare quello che ? disponibile oggi, promuovendo approcci migliori per il futuro.
Bibliografia
U.S. Preventive Services Task Force. Screening for breast cancer: U.S. Preventive Services Task Force Recommendation Statement. Ann Intern Med 2009; 151:716
Mandelblatt JS et al. for the Breast Cancer Working Group of the Cancer Intervention and Surveillance Modeling Network (CISNET). Effects of mammography screening under different screening schedules: Model estimates of potential benefits and harms. Ann Intern Med 2009; 151:738.

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Rt-pa a mezza dose forse comunque efficace nella PTE

The China Venous Thromboembolism Study Group ha recentemente pubblicato su Chest il risultato di uno studio prospettico, randomizzato e multicentrico condotto su 118 pazienti che presentavano una tromboembolia polmonare acuta (PTE) anche massiva e con instabilit??emodinamica, selezionati a ricevere due diverse posologie dell’attivatore ricombinante del plasminogeno tissutale-type (rt-PA): a 65 pazienti ? stato somministrato il farmaco alla posologia di 50 mg/2 h, a 53 pazienti a 100 mg/2 h. L’efficacia del trattamento ? stata determinata osservando il miglioramento ecocardiografico della disfunzione del ventricolo destro (RVDs), il miglioramento dei difetti scintigrafici di perfusione polmonare e quelli angiografici relativi alla ostruzione dell’arteria polmonare. Sono stati anche valutati gli eventi avversi, compresa la morte, i sanguinamenti e la recidiva del PTE.

Questi i risultati:
il progressivo miglioramento della RVDs, dei difetti di perfusione polmonare e delle ostruzioni dell’arteria polmonare (vedi FIGURA) sono risultati essere ugualmente significativi in entrambi i gruppi di trattamento. Questo ? risultato vero sia per i pazienti con instabilit? emodinamica che in quelli con ostruzione massiva dell’arteria polmonare
Il 6% dei pazienti (3/53) trattati con rt-PA 100 mg/2h ed il 2% (1/65) nel gruppo di quelli a cui era stato somministrato l’rt-PA a 50 mg/2h sono morti a causa del PTE o di un sanguinamento
il numero di PTE fatali ? risultato simile nei due gruppi, ma il regime a 50 mg/2h dell’rt-PA ha mostrato una tendenza al sanguinamento inferiore a quello dei 100 mg/2h (3% vs 10%), soprattutto nei pazienti con peso corporeo <65 kg (14,8% vs 41,2%, p = 0,049).
Ne deriva che il trattamento con una posologia inferiore del farmaco pare avere una migliore bilancia rischio/beneficio.

Chest 2010;137(2):254-62.

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Tempo antiaggreganti dopo stent coronarico

Supportato da un grant della the Cardiovascular Research Foundation of South Korea and the Korea Health 21 Research and Development Project e del Ministry of Health and Welfare, alcuni colleghi del Department of Cardiology della University of Ulsan , del College of Medicine, del Cardiac Center e dell’Asan Medical Center di Seoul hanno voluto verificare i potenziali benefici e rischi dell’uso di una doppia terapia antiaggregante al di l? di un periodo di 12 mesi nei pazienti trattati con stent coronarici medicati. A tale scopo hanno randomizzato in modo casuale 2.701 pazienti, a cui erano stati impiantati stent medicati e che non avevano presentato nei successivi 12 mesi gravi eventi avversi cardiaci o cerebrovascolari e sanguinamenti maggiori, a ricevere clopidogrel pi? aspirina o aspirina da sola. L’endpoint primario composito era rappresentato da infarto miocardico o morte per cause cardiache. La durata mediana del follow-up ? stata di 19,2 mesi. Il rischio cumulativo dell’endpoint composito a 2 anni non ? stato significativamente diverso nei due gruppi: 1,8% con la doppia terapia antiaggregante, 1,2% con la monoterapia con aspirina (HR, 1,65; 95% CI, 0,80-3,36, p = 0.17). Anche i rischi individuali di infarto del miocardio, ictus, trombosi dello stent, necessit? di rivascolarizzazione ripetuta, sanguinamenti maggiori, e la morte per qualsiasi causa non differivano significativamente tra i due gruppi (vedi FIGURA). Le ovvie conclusioni degli AA consentono di affermare che l’uso di una doppia terapia antiaggregante per un periodo pi? lungo di 12 mesi dopo il posizionamento di uno stent medicato non ? stato significativamente pi? efficace rispetto alla monoterapia con la sola aspirina nel ridurre la percentuale di infarto miocardico o di morte per cause cardiache, anche se i risultati di tale ricerca dovranno essere confermati da studi di maggiori proporzioni e durata.

NEJM 2010;362(15):1374-82.?

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Obesit?, miglioramenti pressori dopo calo ponderale

L’obesit? e l’ipertensione sono tra i maggiori fattori di rischio cardiovascolare e frequentemente coesistono, raggiungendo percentuali del 34-65% a seconda del grado di obesit?. Nel 2005 il 23% della popolazione adulta era iperteso ed il 10% era obeso ma questi dati sono destinati ad aumentare. Importantissimo dunque perdere peso, ma ci? serve realmente per abbassare la pressione? Ed i risultati sono duraturi? C’? un rapporto tra le diverse tecniche per ridurre il peso e la riduzione pressoria? Per rispondere a queste domande la European Society of Hypertension Working Group on Obesity analizza in una review gli effetti della perdita di peso sull’ipertensione attraverso la dieta e lo stile di vita, la chirurgia bariatrica e le terapie antiobesit?.

Dalla review emergono alcune realt?:
1.la perdita di peso del 3-9% attraverso il cambiamento dello stile di vita ? associata in tempi medio brevi (6 mesi-3 anni) ad una modesta riduzione della?pressione
2.La chirurgia bariatrica produce notevoli perdite di peso, ma non ? accompagnata da un abbassamento corrispondente della pressione: non sembra esserci in ogni caso una relazione lineare
3.I farmaci antiobesit? sembrano ottenere dei buoni risultati sulla riduzione del peso e sul suo mantenimento rispetto ai livelli raggiunti, ma mancano dati a lungo termine sulla pressione
Nel tempo le differenze di peso corporeo fra i gruppi di intervento sono diminuite e cos? anche il beneficio sulla pressione. Comunque la discrepanza della risposta pressoria alla perdita di peso con mezzi chirurgici e dietetici merita esami pi? approfonditi: sugli effetti separati della perdita di peso, del mantenimento del peso raggiunto o del suo recupero, considerando che ciascuna di queste fasi pu? richiedere strategie di trattamento distinte per ottimizzare i risultati.

Journal of Hypertension 2010;28:637-643.

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