Poich? i bisfosfonati si accumulano nelle ossa e vengono rilasciati per mesi o anni anche dopo l’interruzione del trattamento, ? molto ragionevole il quesito che si sono posti i colleghi del Centro dell’Osteoporosi dell’Universit? di Cincinnati: quale ? il tempo di somministrazione ottimale di questi farmaci? Dopo una introduzione riguardante il loro meccanismo d’azione ed una revisione della letteratura volta a stabilire l’efficacia anti-fratturativa a lungo termine di questi preparati, gli AA hanno passato in rassegna i loro effetti collaterali, ribadendo quanto gi? noto in merito alle problematiche esofagee, alla risposta di fase acuta quando somministrati ev, all’incidenza dell’osteonecrosi della mandibola e delle fratture atipiche, effetti tutti che in ogni caso si verificano con una bassa incidenza nei pazienti con osteoporosi. Venendo poi al quesito iniziale, hanno identificato alcuni studi con Alendronato e Risedronato che suggeriscono la persistenza di una efficacia anti-fratturativa per almeno 2 anni dopo la loro sospensione e su tale base hanno fornito le seguenti conclusioni operative, basate sul livello del rischio di frattura dei singoli pazienti: ? nei pazienti a rischio lieve il trattamento pu? essere interrotto dopo 5 anni e ripreso solo se la BMD si dovesse significativamente alterare o dovessero comparire fratture osteoporotiche ? nei pazienti a rischio moderato, il tempo di trattamento pu? considerarsi ottimale se corrispondente a 5-10 anni e se la eventuale ripresa della terapia ? suggerita dalle stesse condizioni di cui sopra ? i pazienti ad elevato rischio fratturativo devono invece essere trattati per almeno 10 anni, a cui dovrebbe precauzionalmente seguire la prosecuzione della terapia con un altro preparato antiosteoporotico, tipo Raloxifene o Teraparatide. Metab. 2010 Feb 19.
Il RESPOND ? il primo studio a dimostrare che il ticagrelor (nuovo antagonista reversibile orale del recettore P2Y dell’ADP, chimicamente diverso dalle tienopiridine) migliora l’inibizione piastrinica sia nei pazienti non responder sia in quelli responder al clopidogrel. Lo studio, pubblicato su Circulation del 16 marzo 2010, parte dai risultati del PLATO, che ha dimostrato un beneficio clinico complessivo del ticagrelor superiore a quello del clopidogrel; nel RESPOND ? stato evidenziato un vantaggio farmacodinamico del ticagrelor in tutti i pazienti, non solo nei non-responder al clopidogrel. Nel RESPOND l’effetto antiaggregante del ticagrelor (alla dose utilizzata nel PLATO) ? stato valutato mediante un aggregometro a trasmissione luminosa ed ? stata studiata la funzione delle piastrine durante la commutazione da clopidogrel a ticagrelor e viceversa. Nel gruppo clopidogrel non-responder, l’aggregazione piastrinica ? scesa dal 59% al 35% dopo che i pazienti sono passati dal clopidogrel al ticagrelor ed ? aumentata dal 36% al 56% nei pazienti passati dal ticagrelor al clopidogrel. Nei responder al clopidogrel, l’aggregazione piastrinica era ancora pi? bassa dopo ticagrelor rispetto alla terapia con clopidogrel in entrambi i periodi di trattamento (25% vs 47% nella fase 1,32% vs 45% nella 2).
In tutta la popolazione – responder e non responder al clopidogrel – la reattivit? piastrinica era al di sotto del cut point associato al rischio ischemico in una percentuale compresa tra il 98% ed il 100% dei pazienti durante la terapia con ticagrelor, rispetto ad una percentuale tra il 44% ed il 76% dei pazienti durante la terapia con clopidogrel. Occorre sottolineare che, se ticagrelor ? destinato a diventare il farmaco antiaggregante principale, l’attenzione deve essere posta alla compliance, visto il duplice dosaggio quotidiano, ed ai suoi effetti collaterali (in particolare dispnea e bradi aritmia) che possono portare all’interruzione del trattamento.
In fondo sappiamo poco sui meccanismi con cui l’ipertensione provoca gli eventi cardiovascolari: forse l’attenzione della ricerca si ? incentrata troppo sui valori pressori e sulla terapia, trascurando fattori come la variabilit? pressoria che non sembrano proprio irrilevanti. Infatti The Lancet del 13 marzo ha dedicato due articoli di Rothwell e coll. (2010;375:895 e 906) e una review (2010;375:938) sulla variabilit? della pressione in visite successive a lungo termine e sul suo impatto sul rischio cardiovascolare. Inoltre, un terzo articolo ? stato pubblicato online su un simile argomento su The Lancet Neurology (March 12, 2010). I risultati possono essere riassunti in 3 sintetiche considerazioni:
1) in un’analisi post-hoc di trial randomizzati sulla malattia cardiovascolare, la variabilit? della pressione sistolica (PAS) si ? rivelata fortemente predittiva dello stroke, indipendentemente dalla pressione media (PAM) 2) in una review sistematica di trial randomizzati sul trattamento dell’ipertensione i calcioantagonisti (CCB) ed i diuretici (D) hanno mostrato una maggiore riduzione della variabilit? pressoria e questo si ? tradotto in una pi? efficace prevenzione dello stroke rispetto ai betabloccanti (BB), che invece aumentavano in modo dose dipendente la variabilit? della pressione 3) in due grandi trial (ASCOT-BPLA e MTC) la variabilit? rendeva ragione della differenza negli effetti del trattamento (CCB, D vs BB). La variabilit? pressoria aggiungerebbe quindi importanti informazioni sul rischio di stroke. L’idea non ? nuova, ma lo studio di Rothwell ? il primo studio che esamina la variabilit? in visite successive a lungo termine (ogni 3 mesi per due anni). Conferma inoltre le raccomandazioni delle linee guida soprattutto europee che non consigliano l’uso dei BB come prima scelta, se non in condizioni particolari. L’argomento ? molto stimolante, ma saranno necessari ulteriori studi per approfondire, ad esempio, su quale tipo di stroke la terapia va ad interferire, gli effetti sulla rigidit? arteriosa e l’importanza dello stile di vita.
L’apelina, ligando endogeno del recettore Apj accoppiato alla proteina G, rappresenta un nuovo potenziale agente terapeutico per i pazienti in scompenso cardiaco. La sua sommistrazione in fase acuta, infatti, ? in grado di determinare vasodilatazione periferica e coronarica, oltre ad aumentare l’output cardiaco. Questo il frutto di una serie di studi randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo condotti al Royal Infirmary di Edinburgo (Uk) su 18 pazienti scompensati in classe Nyha II o III, 6 pazienti candidati a una coronarografia diagnostica e 26 volontari sani; obiettivo: chiarire, al di l? dei modelli preclinici, gli effetti dell’iniezione dell’apelina a livello emodinamico periferico, cardiaco e sistemico. Le variazioni del flusso ematico dell’avambraccio, di quello coronarico, della pressione ventricolare sinistra e della gittata cardiaca sono state misurate rispettivamente mediante pletismografia veno-occlusiva, filo guida Doppler e coronarografia quantitativa pressoria, filo a pressione e bioimpedenza toracica. L’infusione sia di apelina, sia di acetilcolina, sia di nitroprussiato di sodio ha determinato vasodilatazione dell’avambraccio nei pazienti e nei controlli, per? soltanto la vasodilatazione all’acetilcolina, e non quella all’apelina o al nitroprussiato di sodio, si ? attenuata nei pazienti scompensati. La somministrazione di un bolo intracoronarico di apelina ha incrementato il flusso coronarico e il picco massimo di pressione ventricolare sinistra, riducendone il valore in fase telediastolica. Infusioni sistemiche di apelina (da 30 a 300 nmol/min) hanno infine innalzato l’indice cardiaco e ridotto la pressione arteriosa media e la resistenza vascolare periferica nei pazienti e nei controlli ma hanno aumentato la frequenza cardiaca solo nei soggetti sani.
Si ritiene che la malattia da reflusso gastroesofageo (Mrge) possa essere determinata dalla riduzione della pressione intraesofagea in corso di apnee ostruttive che si verificano durante il sonno (Aos). Il paradigma, per?, viene rimesso in discussione da un’indagine condotta da Shiko Kuribayashi e collaboratori del Medical College of Wisconsin di Milwaukee su 11 pazienti con Mrge e Aos post-prandiale, 6 pazienti con Aos senza Mrge, 9 pazienti con Mrge senza Aos e 15 controlli. I soggetti arruolati sono stati sottoposti a misurazione delle pressioni a livello dello sfintere esofageo superiore (Ses), della giunzione gastroesofagea (Gge) e del corpo esofageo (Eso). I ricercatori hanno cos? potuto verificare come, nonostante la riduzione della pressione di Eso durante Aos, si verifichi al contempo una variazione compensatoria delle pressioni a livello di Ses e Gce. In altre parole, le pressioni di Ses e Gge al termine dell’atto di inspirazione aumentano progressivamente durante gli episodi di Aos. Questo meccanismo, secondo gli autori, contribuisce a prevenire il reflusso. Inoltre, la prevalenza degli episodi di reflusso gastroesofageo ed esofagofaringeo durante il sonno nei pazienti con Aos e Mrge non differisce da quanto osservato nei controlli, nei pazienti con Mrge senza Aos e nei pazienti con Aos senza Mrge
La Societ? Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS) ha pubblicato le nuove Linee guida per la diagnosi, prevenzione e terapia dell’osteoporosi, malattia di cui nel nostro paese soffrono circa 5 milioni di persone, per due terzi donne.
Il documento rappresenta un fondamentale contributo nella gestione clinica dell’osteoporosi e delle altre malattie metaboliche dello scheletro. Le raccomandazioni contenute nella pubblicazione nascono sulla base di rigorosi criteri, che assegnano livelli di evidenza agli articoli della letteratura usati per l’applicazione delle linee guida nella pratica clinica.
Il documento si articola in una serie di sessioni, che definiscono l’osteoporosi primitiva e secondaria, sottolineano l’importanza della diagnosi densitometrica della malattia attraverso l’utilizzo della DXA (densitometria a raggi) e analizzano il ruolo di molteplici fattori di rischio nel contribuire alla riduzione della massa ossea. Notevole importanza ? data alla diagnosi differenziale dell’osteoporosi, con particolare riguardo alle malattie che, con meccanismi pi? o meno diretti, possono aumentare il rischio di frattura. In questo ambito si sottolinea la necessit? di sottoporre tutti i pazienti all’esame clinico e a una serie di semplici indagini biochimiche destinate a escludere le osteoporosi secondarie, ribadendo l’assoluta inutilit? della scelta, spesso irrazionale, di ulteriori indagini, a volte molto costose e non efficacemente orientate.
Le linee guida concedono inoltre largo spazio alla diagnosi strumentale dell’osteoporosi attraverso la densitometria ossea, definendo anche il ruolo delle indagini (ultrasonografia e tomografia computerizzata) che valutano il trofismo osseo. In pi?, si sottolinea la capacit? predittiva del rischio di frattura delle varie metodiche, il loro ruolo nel monitoraggio terapeutico e i livelli di evidenza circa le raccomandazioni sul loro impiego diagnostico. In proposito, due punti molto importanti riguardano: A) l’individuazione dei soggetti da sottoporre a densitometria ossea, B) il monitoraggio nel tempo.
Un ampio capitolo delle linee guida ? infine dedicato sia ai provvedimenti non farmacologici di prevenzione e trattamento, sia alla terapia farmacologica dell’osteoporosi. Si evidenzia, tra l’altro, l’importanza dello stile di vita nell’impedire o rallentare la perdita di massa ossea: dieta congrua, attivit? fisica sufficiente, apporto adeguato di calcio e vitamina D e/o correzione dei fattori di rischio modificabili quali fumo e abuso di alcool.
Nell’ambito della terapia farmacologica si ribadisce invece l’importanza di sottoporre al trattamento soggetti gi? osteoporotici, con o senza fratture preesistenti, comunque seriamente a rischio di una prima frattura o di ulteriori fratture.
Al riguardo, una novit? importante sottolineata nelle linee guida ? il possibile sviluppo e utilizzo di modelli, o algoritmi, sia internazionali che nazionali, capaci di stimare il rischio frattura. Questi modelli si sviluppano attraverso la combinazione del risultato densitometrico con i fattori di rischio del singolo soggetto, e possono cos? fornire informazioni utili circa la necessit?, per quell’individuo, di sottoporsi a terapia specifica. Il documento si conclude con un ampio esame delle terapie attualmente approvate in Italia per il trattamento dell’osteoporosi nei due sessi. Prof. S. MINISOLA – Prof. Straordinario di Medicina Interna – Universit? di Roma “Sapienza” – Presidente della Societ? Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS)
Negli uomini le fratture delle costole sono d’origine osteoporotica. ? quanto stabilito da Elizabeth Barrett-Connor e collaboratori del Department of Family and Preventive Medicine, University of California che hanno evidenziato come queste fratture siano associate ai classici fattori di rischio dell’osteoporosi, quali l’et? avanzata, bassa densit? minerale ossea e storia di fratture. L’indagine pubblicata su British medical journal ha reclutato, tra il 2000 e il 2002, circa 6mila uomini, d’et? pari o superiore a 65 anni, presso sei centri americani. I partecipanti sono stati invitati a rispondere, con cadenza quadrimestrale, via e-mail, a specifici questionari su cadute e fratture. Dopo un follow-up medio di 6,2 anni, l’incidenza annuale di fratture costali ? risultata pari a 3,5/1.000 persone. Fattori di rischio di queste fratture sono apparsi: et? pari o superiore a 80 anni, bassa densit? minerale ossea, difficolt? nelle attivit? quotidiane manuali e storia di precedenti fratture. In particolare, individui con storia di fratture presenterebbero un rischio almeno doppio di fratture di costole (harard ratio = 2,71), anca (hr = 2,05) e polso (hr = 2,06). ?Per un’efficace prevenzione negli uomini anziani non va dimenticata la stretta correlazione tra fratture costali e osteoporosi? ha sottolineato Barrett-Connor.
23 Febbraio 2010 – Nel maggio 2007, una meta-analisi pubblicata sul The New England Journal of Medicine gener? preoccupazione sull?impiego di Avandia ( Rosiglitazone ), un farmaco per il diabete mellito di tipo 2. La meta-analisi, compiuta da Steven Nissen della Cleveland Clinic dimostr? un aumentato rischio di infarto miocardico tra i pazienti trattati con Avandia.
Nel luglio 2007, un Panel di Esperti dell?FDA, l?Agenzia statunitense per il controllo dei farmaci, conven? nel ritenere che Avandia aumentasse il rischio di eventi ischemici, ma raccomand? di non ritirare il farmaco dal mercato. L?FDA segu? il consiglio del Panel, non fece ritirare il farmaco, ma inser? un boxed warning nella scheda tecnica di Avandia in cui si sottolineava il possibile rischio di scompenso cardiaco associato al farmaco, un evento questo noto; inoltre fece riportare la descrizione della meta-analisi di Nissen, ma senza esprimere un giudizio.
Il caso Avandia ? stato riaperto a met? febbraio 2010 da una rapporto del Finance Committee del Senato degli Stati Uniti, dopo 2 anni di indagini. Il rapporto si conclude accusando la societ? produttrice di Avandia, GlaxoSmithKline ( GSK ), di essere stata a conoscenza gi? diversi anni prima della pubblicazione dell?analisi di Nissen, dei rischi cardiaci di Avandia.
Nel rapporto si legge che GSK aveva il dovere di informare i pazienti e l?FDA dei rischi associati ad Avandia; i manager della societ? farmaceutica invece tentarono di intimidire i medici indipendenti, elaborarono strategie atte a minimizzare i dati riguardo al rischio cardiaco di Avandia, a falsificare i dati sostenendo la sicurezza cardiaca del proprio farmaco, ed infine di minimizzare i risultati di riduzione del rischio cardiovascolare di un farmaco concorrente.
Nel report del Senato Usa si accusa anche l?FDA di non aver preso decisioni a salvaguardia della salute dei pazienti e di aver concesso l?autorizzazione all?effettuazione di uno studio con Rosiglitazone ( studio TIDE ), ben sapendo i pericoli che avrebbero affrontato i pazienti.
Il Senate Committee on Finance degli Stati Uniti inizi? le indagini dopo che uno studio, pubblicato sul The New England Journal of Medicine ( NEJM ) nel maggio 2007 a firma di Steven Nissen della Cleveland Clinic, aveva mostrato un?associazione tra l?infarto miocardico e il farmaco per il diabete Avandia ( Rosiglitazone ) di GlaxoSmithKline ( GSK ).
Dall?analisi di pi? di 250.000 pagine di documenti ? emerso che la societ? farmaceutica GlaxoSmithKline era a conoscenza gi? da alcuni anni, prima che lo studio fosse pubblicato, del rischio cardiaco associato al proprio antidiabetico. Tuttavia anzich? informare i pazienti e l?Agenzia regolatoria FDA ( Food and Drug Administration ), i manager di GSK seguirono un?altra strategia con l’intenzione di intimidire medici medici indipendenti, di minimizzare o di alterare i risultati che dimostravano come Avandia potesse aumentare il rischio cardiovascolare; inoltre cercarono di confutare i risultati di un farmaco concorrente, Actos ( Pioglitazone ).
Dopo la pubblicazione del lavoro di Nissen, l?FDA, nel luglio 2007, organizz? un incontro con un gruppo di Esperti per discutere sulla sicurezza di Avandia, In questa occasione fu presentata un?analisi che stimava che l?uso di Avandia era associato a un eccesso di 83.000 casi di infarto miocardico a partire dal 1999, anno in cui il farmaco ha ricevuto l’approvazione. Nel suo rapporto il Finance Committee del Senato statunitense riporta che, gi? nel marzo 2007, in una discussione interna, i Consulenti scientifici di GSK avevano concluso che gli studi riguardanti Avandia ( ADOPT, DREAM, CV Clinical Trials ) mostravano un segnale di rischio per lo scompenso cardiaco e per gli eventi ischemici.
Il 2 di maggio 2007, Nissen della Cleveland Clinic invi? la sua meta-analisi per la pubblicazione al NEJM. Il giornale invi? copie riservate ai propri Esperti per la revisione del materiale ( peer review ). Di norma queste copie devono rimanere confidenziali e non possono essere divulgate, ma uno di questi revisori, Steve Haffner, invi? il testo del lavoro di Nissen a un dirigente di GlaxoSmithKline. GSK esamin? la meta-analisi, ma lo statistico incaricato della verifica concluse che i risultati da lui ottenuti erano simili alle conclusioni di Nissen.
Moncef Slaoui, responsabile del settore ricerca di GSK, comunic? ad altri dirigenti di GSK che le meta-analisi condotte sia dall?FDA sia da Nissen nonch? dalla stessa GSK erano giunte alla medesima conclusione riguardo all?aumentato rischio di eventi ischemici, che oscillava tra il 30 e il 43%. Inoltre le analisi di mortalit? effettuate da FDA e da Nissen coincidevano: il rischio ( hazard ratio ) di mortalit? sia per scompenso cardiaco che per eventi ischemici, era, rispettivamente, aumentato del 72% e del 75%. Questi risultati penalizzavano il prodotto di GSK rispetto ad un altro glitazone, il concorrente diretto del Rosiglitazone, il Pioglitazone che invece nello studio PROactive mostrava benefici cardiovascolari del 6-16% nei pazienti ad alto rischio.
Il 21 maggio 2007, il NEJM pubblic? online la meta-analisi di Steven Nissen, che aveva individuato un legame tra Avandia e l?insorgenza di infarto miocardico. Nello stesso giorno GlaxoSmithKline emise un comunicato dichiarandosi fortemente in disaccordo con le conclusioni raggiunte da Nissen. Lo studio del cardiologo della Cleveland Clinic era ritenuto basato su un?incompleta evidenza e su una metodologia che anche lo stesso Autore definitiva con limitazioni.
Il timore di pesanti conseguenze prescrittive, indusse i manager di GSK ad imporre la pubblicazione immediata dei risultati preliminari dello studio sponsorizzato dalla stessa GlaxoSmithKline, denominato RECORD, nonostante la riluttanza del RECORD Steering Committee. Il 5 luglio 2007, nonostante le critiche dei revisori, NEJM pubblic? lo studio RECORD. Nelle conclusioni, gli Autori dello studio sponsorizzato affermavano che i dati erano insufficienti per provare un legame tra Avandia e infarto del miocardio.
L?obiettivo dei manager di GSK era quello di integrare i dati dello studio RECORD con quelli della meta-analisi di Nissen, in modo da ridurre l?incidenza di eventi ischemici totali dovuti ad Avandia.
Un editoriale, pubblicato sempre su NEJM, non solo critic? lo studio RECORD, ma anche gli studi precedenti, DREAM e ADOPT, sponsorizzati sempre da GlaxoSmithKline. Secondo gli editorialisti, gli studi DREAM e ADOPT erano incentrati su obiettivi di marketing e non avevano invece valutato i rischi o i benefici correlati all?infarto miocardico. Inoltre, lo studio RECORD presentava diverse debolezze nel disegno e nella conduzione, tra cui la mancanza del cieco quando il trattamento era assegnato; inoltre, cosa assai grave, lo studio non aveva peso statistico per individuare l?infarto miocardico come endpoint.
Secondo il rapporto del Finance Committee, GlaxoSmithKlines sarebbe stata a conoscenza del rischio cardiaco del Rosiglitazone gi? a partire dalla fine del 2004 o all?inizio del 2005. Alla fine del 2005, GSK pubblic?, in bozza, un?analisi retrospettiva di eventi cardiovascolari sui dati degli studi clinici riguardanti Avandia. Fu allora ipotizzato che la ritenzione idrica potesse contribuire al peggioramento dell?ischemia miocardica nei pazienti ad alto rischio.
Nel 2005, GSK commission? uno studio osservazionale che fu condotto in due fasi: la prima parte nel 2005 e la seconda nel 2006. Il primo studio interess? 11.586 soggetti; l?hazard ratio per ischemia miocardica fu pari a 1.29, indicando che il Rosiglitazone aumentava il rischio di ischemia cardiaca del 29%, un valore questo statisticamente significativo. Il secondo studio analizz? 14.237 pazienti; l?hazard ratio fu di 1.31, cio? Avandia aumentava il rischio di ischemia miocardica del 31%.
Conclusioni
Il rapporto del Finance Committee del Senato degli Stati Uniti ha indicato che la societ? produttrice del farmaco antidiabetico Avandia, GlaxoSmithKline, era a conoscenza del rischio cardiaco associato al Rosiglitazone anni prima che tale evidenza diventasse di dominio pubblico. GSK aveva il dovere di informare i pazienti e l?Agenzia regolatoria FDA, invece i manager di GSK agirono in modo diverso, intimidendo i medici indipendenti, e cercando di minimizzare il fatto che Avandia fosse associato a rischio cardiaco.
? stato ipotizzato che la terapia di deprivazione estrogenica con inibitori dell?aromatasi possa sensibilizzare le cellule del tumore alla mammella positivo per il recettore degli ormoni ( HR ) a basse dosi di terapia a base di Estradiolo.
Ricercatori dell?Washington University School of Medicine, a St Louis negli Stati Uniti, hanno condotto uno studio per determinare se 6 mg al giorno di Estradiolo rappresentassero una terapia valida per le donne in postmenopausa con cancro al seno in fase avanzata, recettore-positivo, e resistente agli inibitori dell?aromatasi.
Lo studio randomizzato di fase 2 ? stato condotto nel periodo 2004-2008, e ha messo a confronto 6 mg vs 30 mg/die di Estradiolo per os.
Le pazienti eleggibili per lo studio avevano tumore mammario metastatico trattato con un inibitore dell?aromatasi con sopravvivenza libera da progressione ( magggiore o uguale a 24 settimane ) o recidiva ( dopo 2 o pi? anni ) di uso adiuvante dell?inibitore dell?aromatasi.
Sono state escluse le pazienti ad alto rischio di eventi avversi legati all?Estradiolo.
Le pazienti sono state esaminate dopo 1 e 2 settimane per valutare la tossicit? clinica e di laboratorio e flare reaction, e in seguito ogni 4 settimane. Ogni 12 settimane ? stata effettuata una valutazione radiologica del tumore.
Per la risposta del tumore ? stata valutata almeno ua lesione misurabile o 4 lesioni misurabili ( malattia solo ossea ).
Le pazienti sono state randomizzate a ricevere 1 compressa per via orale di 2 mg di Estradiolo 3 volte al giorno o 5 compresse da 2 mg 3 volte al giorno.
L?endpoint primario era rappresentato dal tasso di beneficio clinico ( risposta pi? malattia stabile a 24 settimane ). Gli esiti secondari includevano tossicit?, sopravvivenza libera da progressione, tempo al fallimento del trattamento, qualit? di vita e propriet? predittive di flare reaction metaboliche rilevate con PET/TC [ tomografia a emissione di positroni / tomografia computerizzata ] con 18F-Fluorodeossiglucosio.
Il tasso di eventi avversi ( maggiore o uguale a grado 3 ) nel gruppo 30 mg ( 34% ) ? risultato pi? alto che nel gruppo 6 mg ( 18%; P=0.03 ).
I tassi di beneficio clinico erano pari al 28% nel gruppo 30 mg e al 29% in quello 6 mg.
Un aumento stimolato dall?Estradiolo dell?assorbimento di 18F-Fluorodeossiglucosio ( maggiore o uguale al 12%, definito in modo prospettico ) ? risultato predittivo di risposta ( valore predittivo positivo: 80% ).
Sette pazienti con malattia sensibile all?Estradiolo sono state trattate nuovamente con inibitori dell?aromatasi alla progressione dell?Estradiolo e 2 di loro hanno mostrato risposta parziale, mentre 1 ha mostrato malattia stabile, facendo pensare a una nuova sensibilizzazione da deprivazione estrogenica.
In conclusione, nelle donne con cancro al seno in fase avanzata e resistenza acquisita agli inibitori dell?aromatasi, una dose giornaliera di 6 mg di Estradiolo fornisce un tasso di beneficio simile a quello ottenuto con dosi di 30 mg, limitando gli eventi avversi gravi. L?efficacia del trattamento con dosaggi pi? bassi deve comunque essere ulteriormente esaminato in studi clinici di fase 3.