Vitamina D e prevenzione del tumore al seno

Il cancro della mammella rimane la seconda causa di mortalità per neoplasie nel mondo occidentale, nonostante gli screening di popolazione e le terapie aggressive di questi ultimi anni. Poiché molte donne muoiono ancora per questa malattia e per la tossicità dei trattamenti ad essa correlati, gli sforzi più recenti degli oncologi sono stati focalizzati sull’identificazione di trattamenti efficaci di farmaco-prevenzione. L’attenzione è stata rivolta principalmente ai farmaci antiestrogeni, come il tamoxifen e il raloxifene, che hanno dimostrato di poter prevenire circa il 50% dei tumori invasivi in donne ad alto rischio di cancro della mammella, ma l’uso di queste molecole è stato limitato dai loro effetti tossici.

Attualmente è disponibile un corpo di evidenze che indica la vitamina D come molecola promettente nella prevenzione di molte malattie. La sua azione di vitamina lipo-solubile è essenziale per la formazione dell’osso e nella omeostasi del calcio e, da numerosi studi epidemiologici, è emersa una correlazione tra i suoi livelli e la riduzione dell’incidenza di diverse neoplasie (1 ). Inoltre molti studi caso-controllo e di coorte hanno evidenziato una correlazione inversa tra

assunzione di vitamina D e incidenza di neoplasia mammaria, con esito sfavorevole in soggetti con neoplasia in fase iniziale associata a deficit di vitamina D L’ipotesi che l’effetto antiproliferativo della vitamina D sia maggiore in cellule con recettori ormonali positivi e gli scarsi risultati deducibili da studi epidemiologici hanno indotto un gruppo di ricercatori canadesi a studiare se l’esposizione ad elevati livelli di vitamina D durante l’adolescenza e la giovinezza è stato associata ad un ridotto rischio nella vita di sviluppare un tumore della mammella.

L’American Journal of Epidemiology (3 ) ha pubblicato i dati relativi a 759 casi e 1135 controlli arruolati in uno studio caso-controllo in un periodo di 3 anni (2003-2005) in cui è stata studiata l’associazione tra il grado di assunzione di vitamina D specifica per l’età e l’assetto recettoriale per Estrogeni (ER) e Progesterone (PR) del tumore della mammella. Mentre l’aumentata assunzione di vitamina D, definita attraverso il grado di esposizione al sole e alla dieta, era associata in maniera molto consistente a una riduzione del rischio di neoplasia mammaria nei 450 casi con ER+/PR+ (OR = 0.76, 95% IC: 0.59, 0.97 per uso di olio di merluzzo nell’adolescenza), la riduzione del rischio associato a neoplasie mammarie, nei 110 casi con recettori negativi ER-/PR- o nei 199 casi con recettori misti ER+/PR-, era simile ma non significativa con rispettivamente un OR=0.74 e OR=0.79.

Questi dati permettono di concludere che l’esposizione alla vitamina D durante l’adolescenza e la giovinezza (con l’assunzione di olio di merluzzo, latte, supplementi vitaminici ed esposizione al sole) è associata ad una riduzione del rischio per neoplasie della mammella con recettori positivi (ER+/PR+) con differenze minime per gli altri subset di casi (ER-/PR-, ER+/PR-). Questa evidenza sostiene le raccomandazioni della National Osteoporosis Foundation favorevoli all’assunzione regolare e con dosaggi adeguati di vitamina D (800 UI/die).

In conclusione per ottenere un effetto di prevenzione della vitamina D nella neoplasia della mammella sembra che siano critici i tempi lunghi di supplementazione e le alte dosi. Saranno utili nuovi trial per confermare questi dati e per chiarire anche i risultati del trial WHI (Women’s Health Initiative) pubblicati sul Journal of the National Cancer Institute (4 ), in cui non sono documentati effetti preventivi della vitamina D, in associazione al calcio, sul rischio di sviluppare un tumore della mammella e questo per questo per fattori di confondimento intrinseci al trial e correlati a limiti di tempo e dosi di supplementazione che possono aver compromesso l’efficacia della farmaco-prevenzione.

Bibliografia

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  2. Goodwin P, Ennis M, Pritchard KI, Koo J, Hood N. Frequency of vitamin D (Vit D) defi ciency at breast cancer (BC) diagnosis and association with risk of distant recurrence and death in a prospective cohort study of T1-3, N0 – 1, M0 BC. Paper presented at the annual meeting of ASCO; May 30, 2008; Chicago, IL. J Clin Oncol. 2008; abstract 511, 15s (Part 1 of 2): 9s.
  3. Blackmore KM et al. Vitamin D from dietary intake and sunlight exposure and the risk of hormone-receptor-defined breast cancer. Am J Epidemiol 2008;168:915-24.
  4. Chlebowski RT et al. Calcium plus vitamin D supplementation and the risk of breast cancer J Natl Cancer Inst. 2008;100: 1581 – 1591

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Diagnosi differenziale delle cefalee: come evitare gli errori più comuni

Chiunque si ponga di fronte ad un problema clinico, si trova ad affrontare una prima ma fondamentale questione: inquadrare il sintomo nel contesto di una sindrome o di una malattia, raccogliere cioè quegli elementi che nel loro insieme ci indirizzano verso un inquadramento diagnostico. E tutto ciò non appaia pleonastico: qualunque medico che si trova ad affrontare una cefalea, si trova di fronte ad un sintomo (il mal di testa, la cefalea appunto) molto spesso aspecifico e che solo dopo un’accurata raccolta anamnestica può essere inserito in un contesto sindromico definito.
Parliamo di anamnesi, non di “accertamenti”, in quanto ancora oggi rimangono fondamentali le parole ed il tempo che noi impieghiamo con il nostro paziente. Dobbiamo, in questo contesto come in altri, imparare ad ascoltare la storia clinica di chi ci sta di fronte, valorizzando gli elementi che ci interessano ai fini diagnostici, eliminando quanto ritenuto superfluo. Solo successivamente a questo processo che ci porta alla formulazione di alcune ipotesi diagnostiche, si potrà prendere in considerazione l’effettuazione di accertamenti che possano confutare o confermare le nostre supposizioni.

Per il Medico di Medicina Generale (MMG) così come per il Medico di Pronto Soccorso (secondo il setting assistenziale nel quale ci troviamo ad operare) che si trova ad affrontare un paziente con cefalea, compito fondamentale è quello di operare una distinzione tra Cefalee Primarie (forme nelle quali la cefalea ed i sintomi associati costituiscono il “fulcro” del problema) e Cefalee Secondarie , nelle quali la cefalea è un sintomo che a volte nasconde patologie gravi, potenzialmente pericolose per la vita.

Come è possibile orientarsi nella diagnosi differenziale delle cefalee?
Da alcuni lavori presenti in letteratura, sappiamo che quando ci troviamo di fronte a una cefalea di intensità disabilitante (che limita grandemente o annulla le attività quotidiane del paziente), associata a nausea e fotofobia , abbiamo il 93 % di probabilità di essere di fronte ad un’emicrania1,2 .

Questo dato riveste un’importanza straordinaria nella gestione di un paziente emicranico da parte del MMG: con pochi elementi clinici possiamo formulare una diagnosi e quindi avanzare una prognosi, iniziare un trattamento adeguato fornendo rapidamente delle risposte ad un paziente che spesso ci troviamo in ambulatorio lamentando queste problematiche. Non solo: adottando uno strumento di questo genere si può pensare di “prendere confidenza ” con questa diagnosi e quindi di imparare a gestire il paziente cefalalgico, inviando a visita specialistica neurologica solo quei pazienti che magari necessitano di terapia preventiva, che hanno forme “difficili”, con resistenza alla terapia dell’attacco.
Si può realizzare così una sorta di stratificazione dell’intensità di cura fornita al paziente cefalalgico3 , oggi auspicata e perseguita in ogni ambito della professione medica in quanto noi dobbiamo fornire a quel paziente ciò di cui ha bisogno, per la sua patologia, in quel momento.

E’ chiaro però che situazioni così insidiose come le cefalee devono sempre essere osservate e valutate attentamente cercando di cogliere la presenza di eventuali “segnali d’allarme ” che ci indicano la presenza di forme secondarie, come già detto a volte pericolose per la vita. Chiaramente la contemporanea presenza di cefalea ed alterazioni dell’obiettività neurologica ci indirizza con certezza verso una forma secondaria: in questo caso il sintomo “cefalea” perde importanza a favore di segni chiari ed evidenti di disfunzione diffusa o focale, permanente o transitoria, del Sistema Nervoso Centrale.
Stesso discorso vale per le forme di cefalea associate a segni sistemici, come la febbre ed il rigor nucale, che ci indirizzano chiaramente verso forme secondarie a patologie infettive.
Ci sono invece forme più subdole, meno eclatanti, di cefalea, accompagnate da un’obiettività neurologica negativa, per le quali dobbiamo utilizzare alcuni principi generali.
Va innanzitutto valutato il decorso nel tempo: l’assenza di modificazioni cliniche (nel senso di variazione di intensità, durata o frequenza degli attacchi) depone per una Forma Primaria. Per contro una cefalea di recente insorgenza (specie se in individui con più di 50 anni, con storia pregressa di neoplasie o di HIV positività) va sempre studiata (neuroimaging, indici di flogosi) essendo fortemente suggestiva di secondarietà.

Ancora è importante valorizzare la modalità di insorgenza del dolore: una cefalea violenta, “a colpo di pugnale ” che il pz riconosce come non abituale, specie se associata a lipotimia o vomito all’esordio, ci deve far pensare ad una emorragia sub aracnoidea. Questa è la vera “spina nel fianco” del medico che affronta una cefalea: circa il 5% delle emorragie sub aracnoidee non vengono diagnosticate all’esordio (specie le forme paucisintomatiche) e questo è ancora più grave se si pensa che questa patologia abbia un’altissima mortalità in fase acuta4 . Infine le modalità di scatenamento del dolore (la tosse, la manovra di Valsalva, l’ortostatismo) sono da valutare attentamente nello screening delle forme secondarie in quanto si possono sospettare processi espansivi (specie in fossa cranica posteriore) o forme congenite (come la malformazione di Arnold Chiari).

In conclusione il MMG, così come il Medico di Pronto Soccorso, che si trovano ad operare in setting assistenziali particolari debbano porsi come obiettivo prioritario quello di formulare una diagnosi differenziale tra Cefalee Primarie e Cefalee Secondarie, lasciando poi ad un’eventuale valutazione neurologica successiva la possibilità di una diagnosi definita delle diverse forme Primarie. L’utilizzo da parte del MMG di semplici questionari basati sul rilievo clinico anamnestico di pochi sintomi associati, può portare ad una diagnosi e ad un trattamento efficace. La valutazione delle caratteristiche cliniche e del loro andamento temporale ed il rilievo dei così detti segnali d’allarme rappresenta un ausilio fondamentale che comunque deve sempre essere integrato da un’accurata valutazione obiettiva neurologica5 .

Bibliografia

  1. Lantéri-Minet M. The role of general practitioners in migraine management. Cephalalgia, 2008,28;Suppl. 2
  2. LiptonRB, Bigal ME. Ten Lessons on the Epidemiology of Migraine. Headache 2007;47; Suppl 1
  3. Saper J. Stratification of Headache Care. Headache 2007;47;Suppl 1
  4. Vermuellen J. Missed diagnosis of subarachnoid hemorrhage in emergency department. Stroke 2007;38, 1216-21
  5. Sempere AP et al. Neuroimaging in the evaluation of patients with non acute headache. Cephalalgia 2005 Jan;25(1):30-5

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La conferenza internazionale sulla Malattia di Alzheimer a Chicago. Demenza: cosa c’è di nuovo?

Indicazioni alla diagnosi precoce, agli stili di vita e a testare nuovi farmaci

I fattori di rischio della demenza vanno ricercati molto tempo prima dell’esordio della malattia. Tre recenti studi (Neurology 2008, 71: 1051-6, 1057-64 e 1065-71) hanno dimostrato che:

  1. esiste un’associazione tra minori abilità cognitive in età infantile e maggior rischio di demenza vascolare,
  2. esiste un’associazione tra obesità androide in età media e maggior rischio di demenza,
  3. esiste un’associazione tra resistenza insulinica e maggior rischio di demenza vascolare.

In un altro studio, un elevato grado di istruzione oppure un’attività intellettualmente impegnativa hanno dimostrato di ritardare la comparsa di sintomi di demenza da malattia di Alzheimer (www.neurology.org). Questo studio, condotto all’Istituto San Raffaele di Milano, ha impiegato nella valutazione dei casi anche il metodo di misurazione dell’utilizzazione cerebrale del glucosio da parte dei neuroni mediante la tomografia a emissione di positroni (PET): meno glucosio viene consumato, più è alto il deterioramento neuronale.

L’esercizio fisico risulta efficace nel mantenere le abilità cognitive: tra gli ultracinquantenni con iniziali amnesie il gruppo di coloro che praticavano attività fisica ha dimostrato dopo 18 mesi di follow up risultati migliori nei testi di valutazione cognitiva rispetto al gruppo di coetanei sedentari (http://jama.ama-assn.org).

Questi dati sottolineano l’importanza degli stili di vita salutari e del ruolo che il medico curante può avere nell’incoraggiare gli assistiti a praticare attività fisica, a seguire un’alimentazione corretta per controllare il peso corporeo, a coltivare interessi intellettuali per allenare la memoria, a riconoscere precocemente i sintomi di demenza e modificare i fattori di rischio riconosciuti.
Una condizione precoce di rischio è il “Deterioramento Cognitivo Lieve” (MIC = Mild Cognitive Impairment) caratterizzato da: disturbo soggettivo di memoria, disturbo obiettivo di memoria, integrità delle altre funzioni cognitive, conservata autonomia nella vita di tutti i giorni e assenza di criteri per la diagnosi di demenza. Il deterioramento cognitivo lieve è stato descritto per la prima volta nel 1999 da Ronald Peterson della Mayo Clinic di Rochester (USA) ed oggi è ancora controverso se è da considerare uno stadio precedente la demenza o solo un fattore di maggior rischio: dopo 4 anni dall’esordio il 50% dei pazienti con MCI presenta sintomi di malattia di Alzheimer. Ma non tutti i pazienti con MCI diventano dementi: alcuni mantengono una stabilità clinica e altri mostrano un recupero cognitivo.

Nell’Unione Europea oggi vivono 6,1 milioni di persone affette da demenza, secondo le stime raccolte da Maurice O’Connell, presidente di Alzheimer Europe (www.alzheimer-europe.org).La prevalenza di demenze negli ultraottantacinquenni è stimata intorno al 30% (NEJM 2004, 351: 56-67). Gli anziani dementi vengono in maggioranza assistiti dai familiari a domicilio e questi familiari nel 90% dei casi giudicano insufficiente l’assistenza socio-sanitaria ricevuta in Italia, secondo una ricerca condotta dall’ISPO, Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione (www.fondazione-manuli.org).
Le dimensioni crescenti del fenomeno hanno indotto Nicolas Sarkozy, in qualità di presidente di turno dell’Unione Europea, a promuovere entro il 2010 l’adozione di un piano europeo contro l’Alzheimer seguendo tre direttrici: la ricerca, l’assistenza e l’etica.

In merito alla ricerca, nella Conferenza Internazionale sulla Malattia di Alzheimer (ICAD), tenutasi a Chicago il 26-31 luglio 2008, sono state presentate le evidenze finora disponibili.

  • I ricercatori hanno concordato che gli studi sull’efficacia dei farmaci dovrebbero essere condotti su pazienti in cui la demenza è ancora allo stadio iniziale e non da lieve a moderato come definito dai criteri NINDS-ADRDA.
  • l’anticipazione della soglia di rilevamento della demenza probabilmente sarà praticabile attraverso l’impiego di marcatori liquorali quali la proteina tau e l’ABeta42, tecniche di imaging e alcuni test cognitivi. In Italia il Centro Alzheimer Fatebenefratelli di Brescia guida questo filone di studi.
  • La conferma del maggior rischio di demenza multinfartuale correlato all’uso degli antipsicotici atipici per i disturbi del comportamento (JAMA 2005, 293: 596-608), ha indotto a raccomandare prudenza ai medici nell’impiego di questi farmaci nei pazienti con demenza (www.bmj.com).
  • I ricercatori hanno inoltre presentato studi sulle ipotesi eziologiche per la demenza della neurotossicità indotta dall’amiloide, dalla proteina tau, dall’infiammazione cronica.
  • Il blu di metilene, già utilizzato come disinfettante urinario, si è mostrato capace di ridurre di oltre l’80% la proteina tau neurotossica e è quindi studiato da 2 anni all’Università di Aberdeen in Scozia in un gruppo di 321 pazienti nell’ipotesi che possa ridurre la progressione della demenza di Alzheimer.
  • L’etarnecept, già usato come antinfiammatorio per curare psoriasi e artrite reumatoide, è stato studiato per i suoi presunti effetti positivi sulla memoria negli USA (BMC Neurology, luglio 2008), l’antistaminico dimebon è sperimentato in Russia per i suoi presunti effetti sullo stato cognitivo e sul comportamento (www.thelancet.com) e così pure molti altri farmaci. Infine è stato avviato lo studio per un vaccino di seconda generazione (ACC-0001) prodotto da Elan e Wyeth con l’approvazione della FDA negli USA La prudenza è d’obbligo per non creare false speranze.

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La qualità della vita nel paziente affetto da diabete mellito

La qualità della vita (QdV) è universalmente riconosciuta come un obiettivo fondamentale dell’assistenza sanitaria, nonostante la sua valutazione non sia ancora entrata a pieno titolo nella pratica clinica. Soprattutto nelle patologie croniche, in continua espansione, le finalità degli interventi medici sono sempre più rivolte non solo ad “aggiungere anni alla vita”, ma anche e soprattutto ad “aggiungere vita agli anni” (Van de Bos GAM et al Quality in Health Care 1999 ) 11 . Per tali ragioni, la valutazione dei risultati dell’ assistenza nelle malattie croniche, richiede un ampliamento degli indicatori abitualmente utilizzati, con l’inclusione di misure delle capacità funzionali del soggetto e della percezione soggettiva del suo stato di benessere.
L’importanza di includere la QdV fra i parametri di valutazione della qualità della cura è efficacemente sottolineata dall’American College of Physicians che dichiara: “la valutazione della funzionalità fisica, psicologica e sociale del paziente, costituisce una parte essenziale della diagnostica clinica, un determinante cruciale delle scelte terapeutiche, una misura della loro efficacia e una guida per la pianificazione della cura a lungo termine”.

La valutazione della qualità della vita è ritenuta un indicatore fondamentale, non solo per valutare i risultati dell’assistenza, ma anche per stabilire l’efficacia di nuovi trattamenti nell’ambito di sperimentazioni cliniche controllate. A parità di efficacia clinica, infatti, si tende a privilegiare quei trattamenti che più riescono a incidere in senso positivo (o a non incidere negativamente) sulla percezione soggettiva di stato di benessere.
Nel 1989, i rappresentanti dei dipartimenti di salute pubblica e le associazioni dei pazienti da tutti i paesi europei, si sono incontrati con gli esperti del diabete a St Vincent in Italia, sotto l’egida del WHO (Word Health Organization ) e dell’IDF (International Diabetes Federation ). Risultato dell’incontro fu la famosa Dichiarazione di St Vincent (Krans HMJ et al The St Vincent Declaration Action Programme Implementation Document”. Copenhagen, WHO, 1995 )8 , che consiste in una serie di raccomandazioni il cui obiettivo è quello di migliorare sia gli outcomes clinici che le condizioni sociali dei soggetti affetti da diabete attraverso specifiche linee guida. Tale dichiarazione contiene inoltre raccomandazioni ai team diabetologici a preservare e migliorare il benessere psicologico dei soggetti diabetici attraverso uno stretto monitoraggio effettuato utilizzando come strumenti questionari standardizzati.

Tale problematica è di particolare rilievo soprattutto alla luce dei dati che dimostrano l’importanza di un controllo intensivo dei principali fattori di rischio al fine della prevenzione delle complicanze diabetiche sia micro che macrovascolari. Non è infatti da sottovalutare il possibile impatto di strategie terapeutiche aggressive sulla qualità di vita dei soggetti diabetici. Interessante notare come da un’indagine condotta su pazienti in terapia insulinica sia con diabete tipo 1 che tipo 2, il buon controllo metabolico risultava essere l’obiettivo più importante per la maggioranza dei pazienti diabetici inclusi in uno studio, ma emergeva la sensazione che questo aspetto venisse enfatizzato maggiormente dal proprio medico curante che invece sembrava sottostimare l’importanza della qualità della vita attuale rispetto al paziente stesso, a sottolineare il fatto che, nelle malattie croniche, la qualità di vita personale, quotidiana deve essere soppesata contro l’impatto degli sforzi richiesti per mantenere una buona qualità di vita futura (stretto controllo metabolico per la riduzione delle complicanze a lungo termine) (Jardena J. Puder et al Swiss med WKLY 2006 )7 .

Attualmente sono disponibili pochi studi sulla QdV in pazienti diabetici in Italia. Numerosi questionari, fra quelli più utilizzati a livello internazionale, sono oggi disponibili tradotti in lingua italiana e adeguatamente validati.
In ambito diabetologico sono stati utilizzati per la valutazione della QdV, questionari definiti come generici e questionari specifici per la malattia diabetica.
Tra gli strumenti generici, i più utilizzati sono l’SF-36 Health Survey e l’EuroQol (EQ-5D) , che misurano genericamente lo stato di salute ed il Well-being questionnaire (W-BQ22) , composto di 22 domande, che fornisce una misura di sintomatologia depressiva, di ansia e di vari aspetti riguardanti lo stato di benessere mentale.

In particolare, l’EQ-5D, questionario generico composto di 2 parti, è lo strumento utilizzato per la misura della QdV nello studio prospettico UKPDS e dal quale ci si aspettava che facesse emergere differenze nella QdV legata allo stato di salute ed in particolare tra soggetti con o senza complicanze diabetiche. In realtà l’utilizzo di tale strumento è stato deludente. Sono infatti emerse differenze significative solo tra soggetti affetti e non affetti da complicanze macrovascolari, ma si è dimostrato inefficace nello svelare differenze tra soggetti con o senza complicanze microvascolari e soprattutto tra soggetti appartenenti a differenti gruppi di trattamento. (UKPDS 37 Diabetes Care 1999 )10 . Questo aspetto è importante in quanto come precedentemente detto, nella pratica clinica, gli sforzi per ottenere un ottimo compenso glicometabolico e quindi prevenire le complicanze diabetiche, spesso non tengono conto delle possibili conseguenze negative di certe modalità di trattamento sulla qualità della vita del paziente e avere quindi conseguenze sulla compliance del paziente stesso alla terapia consigliata. A tal fine, la WHO e l’IDF hanno sottolineato l’uso di strumenti specifici quali il Diabetes Satisfaction Questionnaire (DTSQ) (Bradley C.et al Diabet Med 1994 )1 . Il DTSQ si è dimostrato efficace nel capire e misurare la soddisfazione al trattamento in corso di nuove terapie o strategie terapeutiche: ad esempio, ha permesso di dimostrare una migliore soddisfazione dei soggetti con l’uso della insulina pronta Lispro vs l’insulina standard regolare legata ad una maggiore flessibilità dei pasti e minor rischio di ipoglicemie. (Howorka K. et al Qual Life Res 2000 )5 e con l’insulina long acting glargine vs l’insulina NPH (Witthaus E.et al Diab Med 2001 )6 .

Sebbene la soddisfazione al trattamento possa influire in modo importante sulla QdV (tanto da poter essere considerata di per sé un aspetto della QdV), il DTSQ di per sé non misura la QdV. E’ necessario infatti valutare non solo la soddisfazione al trattamento di per sé ma anche l’impatto del diabete e delle strategie terapeutiche su vari aspetti della vita al fine di definire l’impatto reale sulla QdV. L’Audit of Diabetes-Dependent Quality of Life (ADDQoL) è uno strumento di misura specifico per il diabete che è stato sviluppato dal più generico SEIQoL (Schedule for the Evaluation of individual Quality of Life) che misura l’impatto delle malattie croniche sulla QdV (Bradley C. et al Proceeding of the British Psycological Society 1999 )2 . In 2 studi separati, l’uso dell’ADDQoL ha permesso di dimostrare un impatto maggiormente negativo del diabete sulla qualità della vita nei soggetti affetti da complicanze diabetiche e in pazienti insulino-trattati rispetto a soggetti in terapia con antidiabetici orali o con sola dieta (Bradley C. et al Qual Life Res1999 3 ; Speight J. et al Diabetologia 2000 9 ). Un altro aspetto evidenziato dall’ADDQol nell’ambito dello studio DIABQoL+ è la forte influenza negativa della restrizione dietetica sulla QdV suggerendo che strategie terapeutiche che aumentino la flessibilità del regime dietetico senza andare a discapito del controllo metabolico possano migliorare la QdV in molti pazienti diabetici (Bradley C. et al Diab Metab Res and Rev 2002 )4 . In conclusione, una cattiva qualità di vita ha un impatto negativo sulle capacità di autogestione della malattia e sugli esiti clinici a medio/lungo termine. E’ pertanto fondamentale migliorare l’assistenza sulla qualità di vita a breve termine grazie ad una migliore comunicazione ed una maggiore attenzione agli aspetti rilevanti per il paziente e alle condizioni che più possono influire sul suo benessere soggettivo traendo informazioni dai vari questionari a disposizione che dovrebbero essere strumenti da utilizzare nella pratica clinica quotidiana.

Bibliografia

  1. Bradley C., Gamsu DS., Guidelines for encouraging psycological well-being: report of a working group of the Worl Health Organization Regional Office for Europe and International Diabetes Federation European region St Vincent Declaration Action Programme for Diabetes Diabet Med 11:510-16, 1994
  2. Bradley C. Achieving accessibility with quality: questionnaire measurement of condition-specific individualised quality of life Proceeding of the British Psycological Society 7(Supp2):143, 1999
  3. Bradley C., Todd C., Gordon T., Symonds E., Martin A., Plowright R. The development of an individualised questionnaire measure of perceived impact of diabetes on quality of life: the ADDQoL. Qual Life res 8:79-91, 1999
  4. Bradley C., Speight J Patients perceptions of diabetes and diabetes therapy:assesing quality of life. Diabetes Metabolism Research and reviews; S64-S69, 2002
  5. Howorka K., Pumprla J., Schlusche C., Wagner-Nosiska M., Shabmann A., Bradley C., Dealing with ceiling baseline treatment satisfaction level in patients with diabetes under flexible, functional insulin treatment: assessment of improvements in treatments satisfaction with a new insulin analogue. Qual Life Res 9:915-930, 2000
  6. Witthaus E., Stewart J., Bradley C. Treatment satisfaction and psycological well-being with insulin glargine compared with NPH in patients with Type 1 Diabetes Diab Med 16:619-625, 2001
  7. Jardena J. Puder, Jerome Endrass, Natascha Moriconi, Ulrich Keller., How patients with insulin treated type 1 and type 2 diabetes view their own and thei physician’s treatments goals. Swiss med WKLY 136:574-580, 2006
  8. Krans HMJ, Porta M., Keen H., Staher johansen K (Eds). Diabetes care and research in Europe: The St Vincent declaration Action Programme Implementation document. Copenhagen, WHO, 1995
  9. Speight J., Bradley C., ADDQoL indicates negative impact of diabetes on quality of life despite high levels of satisfactions with treatments. Diabetologia 43(Suppl 1):A225, 2000
  10. UK Prospective Diabetes Study Group Quality of life in type 2 diabetic patients is affected by complications but not by intensive policie to improve blood glucose or blood pressure control (UKPDS 37) Diabetes Care 22:1125-1136, 1999
  11. Van de Bos GAM, Triemstra AHM. Quality of life a san instrument for need assessment and outcomes assessment of health care in chronic patients Quality in health care 8:247-52, 1999)

Ogni farmaco menzionato deve essere usato in accordo al riassunto delle caratteristiche del prodotto fornito dalla ditta produttrice

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Due recenti pubblicazioni aiutano il medico di famiglia nella diagnosi di depressione

Il disturbo depressivo una delle patologie croniche più comuni e di più difficile diagnosi per il medico di famiglia: per fare un esempio, negli Stati Uniti si stimano in 19 milioni gli adulti sofferenti di depressione, con costi di miliardi di dollari ogni anno. Il mancato riconoscimento dei sintomi di un possibile stato depressivo ed una prescrizione non appropriata hanno un evidente e non trascurabile impatto sociale. Va considerata anche l’inevitabile ‘responsabilizzazione’ del medico di famiglia, chiamato ad un difficile compito. Gli si chiede infatti di saper riconoscere la componente psichica dei sintomi riferiti dal suo assistito, senza trascurare nel contempo l’eventuale patologia organica, comunque integrando la prescrizione terapeutica con opportune indicazioni per il controllo efficace del disturbo affettivo.

E’ stato recentemente pubblicato sulla rivista Annals of Internal Medicine un documento contenente i consigli e suggerimenti al riguardo degli esperti americani dell’U.S. Preventive Services Task Force. Questi suggeriscono al medico generico di porre due semplici domande, che possono aiutare ad individuare una possibile componente depressiva dei disturbi somatici riferiti dal proprio assistito: “Nelle ultime due settimane si sentito giù, depresso o disperato?”, “Ha provato scarso interesse od insoddisfazione nelle sue abituali attività?”. Una risposta affermativa indicherà l’opportunità di un approfondimento diagnostico specialistico, che consentirebbe di riconoscere il 90% dei casi di depressione maggiore presenti nella popolazione afferente ai servizi di medicina di base.

Sull’opportunità che il medico di famiglia trovi tempi e modi per indagare con particolare attenzione anche lo stato emozionale dei propri assistiti concordano Wu, Parkerson e Doraiswamy, del Duke University Medical Center, che allo scopo suggeriscono un breve questionario, da somministrare nella sala d’attesa prima della visita ambulatoriale. Una ricerca da loro condotta dimostra infatti che il riconoscimento di uno stato depressivo possibile solo con strumenti specifici e soprattutto che sintomi comuni, come la cefalea, i dolori articolari ed i dolori addominali, non possono essere considerati indicatori attendibili di uno stato di ansia o di depressione, pur essendo frequente la loro coesistenza con un disturbo dell’affettività. E’ utile fare riferimento anche al nostro Paese: il quadro non differisce di molto e i medici di medicina generale devono rivolgere molta della loro attenzione ai pazienti anziani.

I risultati di un recente studio epidemiologico nazionale, promosso dalla Società Italiana di Medicina Generale e coordinato dall’Università di Bologna, confermano l’elevata prevalenza (9% circa) della patologia depressiva (definita come episodio depressivo in atto, secondo i criteri dell’ICD-10) negli ultrasessantenni afferenti alle strutture sanitarie di base, senza sostanziali differenze geografiche tra Nord e Sud. Dalla ricerca italiana emerge anche che le manifestazioni cliniche nell’anziano non differiscono da quelle del soggetto più giovane; la depressione in età geriatrica si caratterizza invece per la frequente coesistenza di una patologia organica e per l’associazione ad una significativa disabilità. La disabilità determina un aumento dei costi sociali ed incide ovviamente sulla qualità di vita individuale, motivando un più frequente ricorso dell’anziano depresso al consulto medico.

Bibliografia

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  1. Funzionalità delle HDL e rischio cardiovascolare
  2. Fonte www.sisa.it
  3. Il legame tra HDL (High Density Lipoprotein) e rischio di malattie cardiovascolari è più complicato di quanto normalmente si pensi. Anche se numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato un’associazione indipendente tra i livelli plasmatici di HDL e il rischio di malattie cardiovascolari, i risultati degli studi in soggetti con deficit genetici di HDL e gli studi clinici con farmaci in grado di aumentare i livelli plasmatici di HDL hanno mostrato risultati contrastanti.
    Queste differenze potrebbero essere collegate all’eterogeneità delle HDL in termini di composizione, struttura e funzioni biologiche. Per esempio, in soggetti dislipidemici con bassi livelli di HDL, le particelle più piccole e dense quali le HDL 3 sono meno efficaci nel proteggere LDL (Low Density Lipoprotein) dall’ossidazione. Questa osservazione ha portato a suggerire che la funzionalità delle HDL possa essere importante tanto quanto i livelli plasmatici di HDL-colesterolo. In linea con questa ipotesi si inserisce il recente lavoro pubblicato su NEJM.
    Gli autori hanno ipotizzato che la capacità delle HDL di promuovere l’efflusso di colesterolo (cioè la capacità delle HDL di accettare colesterolo dai macrofagi, azione che riflette l’attività antiaterogena delle HDL) possa essere predittivo della malattia aterosclerotica indipendentemente dai livelli plasmatici di HDL-colesterolo. Gli autori hanno misurato ex vivo la capacità di promuovere l’efflusso di colesterolo da campioni di siero depleti di ApoB (Apolipoprotein B) di volontari sani (n=203) e pazienti con o senza evidenza angiografica di malattia coronarica (>50% stenosi) (442 casi e 351 controlli). Nella coorte di volontari sani è stata inoltra valutato l’ispessimento medio-intimale carotideo (cIMT). In quest’ultima coorte è stato osservata una correlazione inversa e significativa tra la capacità di efflusso del colesterolo e cIMT anche dopo aggiustamento per i livelli di HDL-colesterolo plasmatico o per i livelli di apolipoproteina A-I. In modo sorprendente non è stata trovata alcuna associazione tra i livelli di HDL-colesterolo e cIMT.
  4. Nello studio caso-controllo, i pazienti con malattia coronarica, non solo hanno mostrato livelli più bassi di HDL colesterolo e apolipoproteina A-I, ma anche una minore capacità nel promuovere l’efflusso di colesterolo. L’analisi di regressione logistica ha mostrato che l’aumento della capacità di efflusso del colesterolo è un predittore indipendente della diminuzione del rischio cardiovascolare. Questa associazione rimane robusta anche quando i livelli di HDL colesterolo vengono inclusi come covariata nel modello. Un altro studio, pubblicato recentemente su JACC, ha mostrato come la capacità di efflusso del colesterolo aumenta in pazienti con sindrome metabolica e bassi livelli di HDL trattati con pioglitazone, ma non nei pazienti ipercolesterolemici trattati con statine e che il trattamento si associa con un ritardo nella progressione dell’ateroma. Non è da escludere la possibilità che quest’ultima osservazione possa essere legata agli effetti sui livelli e sulla funzionalità delle HDL.
    Queste osservazioni potrebbero suggerire la rilevanza della misura della capacità di promuovere l’efflusso di colesterolo come indice dell’attività funzionale delle HDL. In aggiunta a questa osservazione è importante sottolineare come la valutazione di altre capacità delle HDL, quali quelle antiossidanti ed antiinfiammatorie, possano contribuire all’azione ateroprotettiva. Infine dal punto di vista clinico la possibilità di migliorare le capacità funzionali delle HDL oltre ad aumentare i livelli circolanti rappresenta un’ importante strategia terapeutica.
  5. Cholesterol efflux capacity, high-density lipoprotein function, and atherosclerosis Khera AV, Cuchel M, de la Llera-Moya M, Rodrigues A, Burke MF, Jafri K, French BC, Phillips JA, Mucksavage ML, Wilensky RL, Mohler ER, Rothblat GH, Rader DJ. N Engl J Med 2011;364:127-35
  6. Lowering the triglyceride/high-density lipoprotein cholesterol ratio is associated with the beneficial impact of pioglitazone on progression of coronary atherosclerosis in diabetic patients: insights from the PERISCOPE Study Nicholls SJ, Tuzcu EM, Wolski K, Bayturan O, Lavoie A, Uno K, Kupfer S, Perez A, Nesto R, Nissen SE. J Am Coll Cardiol 2011;57:153-9
  7. 06-13-UNV-2011-IT-5603-NL
  8. Celiachia: le indicazioni dietetiche da fornire. La diagnosi oggi è più comune in età adulta
  9. Proposto un iter diagnostico differenziato in base alla gravità dei sintomi
  10. Il morbo celiaco è dovuto ad un’intolleranza permanente al glutine causante un’atrofia dei villi dell’intestino tenue ed un conseguente malassorbimento di gravità variabile (NEJM 2007, 357: 1731-1743; Ann Intern Med 2005, 142: 289-298).
    La prevalenza della celiachia è stimata del 1-1,5% della popolazione e viene sottostimata dal numero dei casi diagnosticati (www.ministerosalute.it).
  11. La celiachia può essere del tutto asintomatica o invece manifestarsi in età adulta o pediatrica solo con dolori addominali ricorrenti e/o con ritardo di crescita o bassa statura, calo ponderale, steatorrea, diarrea o stipsi e numerose manifestazioni extra-intestinali (astenia da anemia da carenza di ferro, folati o vitamina B12, iperparatiroidismo e osteopenia da carenza di vitamina D e calcio, displasia dello smalto dentario, tetania da ipocalcemia, emorragie e porpora da carenza di vitamina K, xeroftalmia da carenza di vitamina A, edemi da enteropatia protido-disperdente con ipoalbuminemia, ipertransaminasemia da epatite autoimmune, alopecia, dermatite erpetiforme, stomatite aftosa, ecc.). La celiachia può associarsi ad altre malattie autoimmuni e se non diagnosticata o non curata può essere complicata da coliti, linfomi e altre neoplasie del tenue e dell’esofago (Br Med J 2004, 329: 716-719).
  12. Diagnosi
    Sono test diagnostici di screening per la celiachia la ricerca nel siero di anticorpi anti-transglutaminasi, anti-endomisio, anti-gliadina. Il gold standard diagnostico è la biopsia, mediante endoscopia, della mucosa del digiuno che appare appiattita e documenta all’esame istologico l’atrofia dei villi intestinali, l’iperplasia delle cripte e l’infiltrazione linfocitaria della lamina propria, lesioni reversibili escludendo il glutine dalla dieta.La celiachia non è più intesa come una patologia solo pediatrica in quanto attualmente l’età media di diagnosi è di circa 40 anni.
    La determinazione degli anticorpi anti-transglutaminasi e anti-endomisio ha dimostrato una sensibilità del 78% ed una specificità del 100% per la diagnosi di celiachia (Br Med J 2007, 335: 1244-1247).
    La biopsia intestinale mediante endoscopia per accertare la diagnosi può essere rifiutata dai pazienti in quanto esame invasivo e inoltre l’esito istologico riscontrabile nella celiachia è riscontrabile anche in altre patologie ( tabella 1), ma esistono forme di celiachia sieronegative in cui la biopsia è determinante per la diagnosi. Perciò è stato proposto e validato un iter diagnostico che distingue i soggetti ad alto e basso rischio di celiachia in base alla sintomatologia riferita, proponendo quindi a coloro che presentano disturbi aspecifici come dolore addominale, dispepsia, nausea e vomito solo la determinazione degli anticorpi specifici, proponendo invece a coloro che presentano perdita di peso, anemia e diarrea la determinazione degli anticorpi specifici seguita sempre, anche in caso di loro negatività, dalla biopsia digiunale (Br Med J 2007, 334: 729).
  13. Terapia
    La dieta priva di glutine è l’unica terapia efficace per la celiachia (www.celiachia.it).Il glutine è presente, ad esempio, nelle farine di frumento, orzo, segale, nel malto, crusca, pane, pasta, pizza, dadi da brodo, lievito di birra, birra, caffè solubile, olio di semi vari, margarina, formaggini, dolciumi, biscotti, cioccolate, gelati confezionati che quindi sono cibi vietati. L’avena non contiene glutine, ma può essere contaminata dal glutine. Così pure i cibi industriali preconfezionati o surgelati.
    Sono cibi consentiti nella dieta: riso, mais, miglio, fecola di patate, grano saraceno, soia, tapioca, olio d’oliva, olio di mais e di arachide e di girasole, carni e pesce (non impanati con farine vietate), uova, verdura e frutta fresca, latte e derivati se non è presente un’intolleranza al lattosio secondaria, tè, caffè, spremute e succhi di frutta, vino.
    L’associazione dei pazienti celiaci fornisce un’informazione dettagliata sui cibi permessi che di norma presentano sulle confezioni un logo con la spiga barrata attestante che il prodotto è privo di glutine (www.celiachia.it).Il Sistema Sanitario ai sensi della legge n. 123 del 4 luglio 2005 fornisce gratuitamente ai soggetti con diagnosi accertata prodotti alimentari privi di glutine attraverso le farmacie cui si accede con prescrizione del medico curante facente riferimento al Decreto Ministeriale n.279 del 18 maggio 2001 e prevede la possibilità di fornire alimenti senza glutine nelle mense scolastiche, ospedaliere e di strutture pubbliche.
  14. 01-12-UNV-2009-IT-2647-W
  15. Alopecia androgenica: linee guida per la diagnosi
  16. Raccomandazioni utili per la gestione competente dei pazienti che manifestano perdita di capelli
  17. Key words: alopecia,  linee guida
  18. L’Alopecia androgenetica (AGA) è la più comune condizione che provoca perdita di capelli e colpisce sia gli uomini che le donne. A causa della sua frequenza e della compromissione spesso significativa della vita percepita dai pazienti che ne sono affetti, richiede una consulenza competente del medico, per una corretta diagnosi e un appropriato trattamento. In generale l’AGA è una diagnosi clinica in cui l’anamnesi del paziente e la sua valutazione obiettiva possono orientare ad ulteriori test diagnostici. Considerando che sul problema della perdita dei capelli esistono poche linee guida basate sull’evidenza il Gruppo di Consenso Europeo ha deciso di formulare delle linee guida S1 (1) per la diagnosi di AGA pubblicate sul British Journal of Dermatology e delle linee guida S3 (2) per il trattamento di AGA pubblicate sul Journal of the German Society of Dermatology.
  19. Il documento definisce AGA una progressiva miniaturizzazione non cicatriziale del follicolo pilifero con una distribuzione secondo uno schema caratteristico negli uomini e nelle donne geneticamente predisposti. Negli uomini, l’AGA mostra un modello di distribuzione tipico, ma a volte è possibile osservare nel maschio un modello femminile. Nelle donne, l’AGA si presenta tipicamente con una diffusa riduzione della densità dei capelli nelle aree frontale e centrale, ma possono essere coinvolte anche le regioni parietali ed occipitali. E’ possibile che l’AGA si manifesti nelle donne con un modello maschile. Poiché la diagnosi è clinica, vanno escluse altre malattie che possono coinvolgere il cuoio capelluto e la crescita dei capelli. Poiché esistono trattamenti selettivamente efficaci nell’AGA, come la finasteride, si può considerarne l’impiego per escludere il coinvolgimento di altre patologie con le stesse modalità di caduta dei capelli.
  20. La prevalenza nel maschio di AGA è più elevata nella popolazione caucasica, raggiungendo l’80% negli uomini > 70 anni, rispetto al 60% nella popolazione asiatica. Mancano informazioni per gli uomini africani, mentre negli afro -americani la calvizie è 4 volte meno comune rispetto ai caucasici. La gravità della calvizie del maschio aumenta con l’aumentare dell’età in tutti i gruppi etnici, con i primi segni di profonda recessione frontale e alle tempie che si possono manifestare durante l’adolescenza anche se, nella maggior parte dei casi, l’esordio inizia successivamente. Dopo i 70 anni circa il 60% dei maschi caucasici è calvo. Anche nelle donne la frequenza e la gravità dell’AGA aumentano con l’età. I tassi di prevalenza variano dal 3-6% al di sotto dei 30 anni fino al 29-42% in donne di età > 70 anni, con una frequenza inferiore delle donne orientali rispetto alle europee. Mancano i dati sulle donne africane.
  21. L’AGA è un tratto androgeno-dipendente che porta alla progressiva miniaturizzazione dei follicoli dei capelli negli uomini predisposti geneticamente e con un’aumentata densità dei recettori degli androgeni e/o aumento dell’attività della 5 alfa -reduttasi di tipo II. In questi soggetti i livelli circolanti di androgeni sono normali e l’analisi della famiglia mostra un aumento significativo del rischio di sviluppare AGA negli uomini con padre affetto. Attualmente le evidenze sono a sostegno della tesi che l’AGA sia un tratto poligenico, inoltre sono state riportate associazioni significative con la regione variabile del gene per il recettore degli androgeni sul cromosoma X ed è stato identificato un locus di suscettibilità sul cromosoma 20p11. Il ruolo degli androgeni nella donna è meno certo ed è possibile che le forme di AGA femminile ad esordio precoce e tardivo rappresentino due entità geneticamente distinte. Il Gruppo di Consenso Europeo ha cercato di definire un subset di donne con AGA associata ad alterazioni ormonali.
  22. Sotto il profilo clinico, nella maggior parte degli uomini, l’AGA coinvolge la zona fronto -temporale e il vertice secondo il modello della scala di Hamilton -Norwood, mentre in alcuni casi si sviluppa un assottigliamento diffuso della corona con mantenimento dell’attaccatura frontale analoga al pattern di Ludwig osservato nelle donne. Nella donna si osservano essenzialmente 3 patterns di perdita di capelli: nel primo si evidenzia un diffuso assottigliamento della corona frontale con attaccatura conservata. Il processo viene rappresentato sia dalla scala di Ludwig (a 3 punti) che dalla scala di Sinclair (a 5 punti); il secondo vede un assottigliamento e ampliamento della parte centrale del cuoio capelluto con compromissione della linea frontale come nella scala di Olsen; nel terzo modello si assiste ad un diradamento associato a recessione bitemporale, secondo la scala di Hamilton -Norwood.
  23. Nella valutazione clinica è fondamentale registrare quando si è verificata la prima manifestazione di caduta dei capelli e le sue caratteristiche (cronica o intermittente). I primi sintomi di AGA possono essere il prurito e la tricodinia. Spesso è presente una familiarità, anche se la sua negatività non esclude la diagnosi. Vanno escluse condizioni concomitanti come la carenza di ferro, che spesso determina perdita diffusa di capelli nelle donne, o altre cause di effluvium diffuso come infezioni gravi o disfuzioni della tiroide. E’ opportuno sondare il comportamento alimentare che, per diete carenti o rapida perdita di peso, può innescare l’effluvium diffuso. L’anamnesi farmacologica è importante perché molti farmaci possono indurre la perdita dei capelli (chemioterapici, steroidi anabolizzanti, ormoni con azione antitiroidea) Un ruolo significativo può esser giocato da alcuni stili di vita come acconciature speciali, fumo, esposizione a raggi UV. Le donne con AGA solitamente hanno una fisiologica funzione ormonale, ma questo non esclude un’attenta anamnesi ginecologica orientata a definire menarca, tipo di ciclo, presenza di menopausa, amenorrea, uso di contraccezione ormonale orale o sistemica, fertilità, gravidanze, chirurgia ginecologica, segni di iperandrogenismo. Negli adolescenti è fondamentale discriminare una perdita di capelli congenita da un’acquisita. L’AGA è una perdita di capelli di tipo acquisito con una distribuzione caratteristica e differisce dall’effluvium diffuso da fattori nutrizionali, dall’alopecia indotta o dal’ipotricosi simplex (congenita). L’AGA senza segni di pubertà precoce comunque non deve esimere dall’acquisire il parere dell’endocrinologo pediatra.
  24. La valutazione clinica comprende l’esame del cuoio capelluto che nell’AGA di solito è normale. Può essere associata una dermatite seborroica che potenzialmente è un fattore aggravante. E’ importante la ricerca dei segni di flogosi, seborrea e di cicatrici. L’alopecia areata e l’alopecia cicatriziale possono mimare un AGA specialmente frontale. E’ possibile che il cuoio capelluto sia atrofico in AGA di lunga durata. Si raccomanda di esaminare la distribuzione dell’alopecia confrontando le aree frontale occipitale e temporale. In alcune donne con AGA è possibile osservare un’atrichia focale di pochi millimetri di diametro. Nei maschi l’AGA si presenta con una distribuzione di tipo maschile per recessione bitemporale e/o recessione e diradamento di vertice e talvolta anteriore. Nel 10% degli uomini l’AGA si presenta con un modello femminile. La distribuzione della perdita nelle donne è più diffusa, accentuata nel cuoio capelluto frontale, ma con conservazione dell’attaccatura. Le scale di valutazione più usate nella pratica clinica sono per l’uomo la scala di Hamilton -Norwood e per la donna le scale di Ludwig e di Olsen. Nella donna che consulta il medico in una fase precoce di perdita dei capelli la scala di Sinclair offre più possibilità di categorizzare la paziente rispetto alle altre scale. L’esame della peluria del viso e del corpo, la sua densità e la sua distribuzione orientano verso un’alopecia areata in assenza o netta riduzione delle ciglia e sopracciglia, reperto che può far pensare anche all’alopecia frontale fibrotica. Una crescita di peluria con distribuzione nelle aree terminali del corpo orienta all’ipertricosi etnica, o farmacologica, o all’irsutismo. Acne, seborrea e obesità sono suggestivi di iperandrogenismo. Le alterazioni ungueali possono essere presenti nell’alopecia areata, nel lichen planus e in alcune forme di carenza.
  25. Tra gli esami di laboratorio Ferritina e TSH trovano indicazione solo se supportati dalla storia del paziente e in presenza di un effluvium diffuso. Nei maschi non c’è indicazione all’esecuzione di esami di laboratorio per la diagnosi di AGA. Nei soggetti > 45 anni è raccomandabile il dosaggio del PSA prima di iniziare la terapia con finasteride, farmaco in grado di ridurne la concentrazione sierica e potenzialmente ritardare la diagnosi in caso di neoplasia prostatica. Nelle donne non è necessario esegire un work up endocrinologico e una valutazione interdisciplinare (ginecologo, endocrinologo, dermatologo). E’ necessaria solo se esiste un sospetto clinico di eccesso di androgeni (es. s. ovaio policistico). Sono considerati solo due test di screening: il testosterone totale e la SHBG, utili per l’identificazione dell’iperandrogenismo, ricordando che i dosaggi vanno eseguiti solo in donne che non assumono ormoni come ad esempio i contraccettivi orali per almeno due mesi.
    Nei bambini e negli adolescenti con un’insorgenza precoce di AGA si impone un approccio multidisciplinare tra dermatologo, pediatra ed endocrinologo. Diversi test possono essere impiegati per confermare la diagnosi di AGA come il pull test, la dermatoscopia, la fotografia globale, il tricoscan, il tricogramma, la biopsia, ma l’AGA è essenzialmente una diagnosi clinica e queste linee guida offrono al medico pratico le raccomandazioni essenziali per un rapido e corretto inquadramento.
  26. Bibliografia
    (1) U. Blume -Peytavi; A. Blumeyer; A. Tosti; A. Finner; V. Marmol; M. Trakatelli; P. Reygagne; A. Messenger S1 Guideline for Diagnostic Evaluation in Androgenetic Alopecia in Men, Women and Adolescents Br J Derm 2011;164(1):5 -15
    (2) A. Blumeyer, A. Tosti, A. Messenger, P. Reygagne,V. del Marmol, P. I. Spuls, M. Trakatelli, A.Finner, F. Kiesewetter, R.Trüeb, B.Rzany, U. Blume -Peytavi Evidence -based (S3) guideline for the treatment of androgenetic alopecia in women and in men
  27. DERM-1026727 – 0000-UNV -W-02/2014
  28. Riso bianco e diabete 2, il link c’è
  29. Esiste una correlazione diretta tra consumo di riso bianco e rischio di diabete 2, e questo soprattutto in Asia, dove un massiccio consumo di questo alimento è estremamente diffuso e ha un impatto epidemiologico importante, sul quale si potrebbe intervenire modificando le abitudini alimentari della popolazione. Lo rivela una meta-analisi pubblicata dal British Medical Journal.
  30. Nel mondo esistono più di 140.000 differenti varietà di riso, ma è possibile operare una distinzione amonte tra riso bianco (più correttamente definito “raffinato”) e integrale: nel primo caso il chicco di risoviene lavorato per liberarlo dalle parti tegumentali (lolla o pula). Il riso bianco è quello più consumato in ogni regione del mondo ed è un alimento con elevato indice glicemico (IG), e sono ormai numerosi gli studi che associano una dieta ricca di alimenti con IG alto adun più elevato rischio di insorgenza di diabete 2.
  31. Poiché il consumo pro capite di riso bianco si diversifica molto tra Asia e Paesi occidentali (in Cina, per fare un esempio, il consumo medio è di 4 porzioni al giorno, mentre in Europa si viaggia sotto alle 5 porzioni a settimana) e il rischio di eterogeneità dei dati era in agguato, i ricercatori della Harvard School ofPublic Health coordinati da Qi Sun hanno effettuato una meta-analisi prendendo in esame i dati relativi a 4 studi di coorte prospettici (due svolti in Asia – e precisamente in Cina e Giappone – uno svolto negli Usa euno in Australia) su complessive 352.384 persone, seguite con un follow-up di 4-22 anni.
  32. In tutto 13.284 casi di diabete 2 sono stati accertati nella popolazione dei quattro studi, per un rischio combinato di 1,55 (95% CI 1,20-2,01) in Asia e un rischio relativo 1,12 (0,94-1,33) nei Paesi occidentali. Nella popolazione generale, la meta-analisi dose-rispostaindica che ad ogni porzione quotidiana di riso bianco consumata in più corrisponde un rischio relativo didiabete 2 di 1,11 (1,08-1,14), cioè in sostanza a un aumento del 10% del rischio.
  33. “Un intake elevato di riso raffinato è associato a un significativo innalzamento del rischio di insorgenza di diabete di tipo 2”, concludono gli autori. Essendo stata rilevata una correlazione diretta tra intake e rischio, ovvio che le popolazioni asiatiche siano più esposte, ma la riflessione è generale: occorre innalzare il consumo di cereali integrali diminuendo al contempo quello di cereali raffinati.
  34. ▼Sun Q, Hu EA, Pan A, Malik V. White rice consumption and risk of type 2 diabetes: meta-analysis and systematic review. BMJ 2012;344 doi: 10.1136/bmj.e1454
  35. DIAB-1035041-0000-UNV-W-04/2014 

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Statine e osteoartrite

La terapia a base di statine può rallentare la progressione dell’osteoartrite del ginocchio. Lo suggerisce uno studio prospettico pubblicato dagli Annals of the Rheumatic Diseases.

I ricercatori coordinati da Bruno H. Ch. Stricker dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam hanno preso in esame i 2.921 partecipanti al Rotterdam Cohort Study per un follow-up medio di 6,5 anni (il 10,9% del campione era in terapia con statine). All’inizio dello studio, evidenza radiografica di osteoartrite era stata riscontrata in 677 ginocchia e 335 anche dei pazienti, numeri che alla fine dello studio erano arrivati rispettivamente a 939 e 508. Nei pazienti con osteoartrite al ginocchio è stata riscontrata una progressione di malattia più lenta correlata alla terapia con statine:

▼in terapia da meno di 4 mesi: OR 1,77 (95% CI 0,71-4,44, P=0,22)
▼in terapia da 4 a 12 mesi: OR 0,30 (95% CI 0,08-1,19, P=0,09)
▼in terapia da più di 12 mesi: OR 0,49 (95% CI 0,26-0,92, P=0,03).

Nessun rallentamento invece nel caso dell’osteoartrite all’anca. “La differenza di effetti terapeutici tra ginocchio e anca indica una diversa patogenesi”, spiega Stricker. “I nostri dati suggeriscono che l’osteoartrite del ginocchio sia maggiormente influenzata da fattori metabolici quali la secrezione di citochine e adipochine da parte del tessuto adiposo, le patologie vascolari nell’osso subcondrale o gli effetti diretti dei lipidi sui tessuti del ginocchio”.

▼Clockaerts S, Bastiaansen-Jenniskens YM, Stricker BHC, Bierma-Zeinstra SM et al. Statin use is associated with reduced incidence and progression of knee osteoarthritis in the Rotterdam study. Ann Rheum Dis 2012; 71:642-647 doi:10.1136/annrheumdis-2011-200092

CORP-1039653-0000-UNV-W-05/2014 

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L’uso dell’aspirina è legato alla degenerazione maculare

L’aspirina e’ largamente usata per prevenire attacchi cardiaci e ictus e per trattare l’artrite, ma una nuova ricerca australiana invita alla cautela, dopo aver individuato un legame con malattie oculari dell’eta’ avanzata. Lo studio del Westmead Millennium Institute for Medical Research di Sydney indica che l’uso regolare di aspirina e’ legato ad un aumento piu’ che doppio nel rischio di contrarre degenerazione maculare legata all’eta’ (Dmle), una patologia multifattoriale che colpisce la zona centrale della retina, detta macula, ed e’ una causa primaria di cecita’ per gli anziani. 

 

Il Centre for Vision Research dell’Istituto ha studiato quasi 2400 persone sopra i 50 anni per un periodo di 15 anni e ha scoperto che 63 avevano contratto Dmle neovascolare, o senile.  Il direttore del centro Paul Mitchell scrive sulla rivista JAMA Internal Medicine che il 9,3% degli utilizzatori regolari di aspirina nello studio avevano contratto il disturbo dopo 15 anni, a paragone del 3,7% di chi non assumeva aspirina regolarmente. Il che corrisponde a un rischio di due volte e mezzo maggiore per gli utilizzatori regolari, indipendentemente dai precedenti di malattie cardiovascolari o dallo status di fumatori.  Mitchell sottolinea pero’ che sarebbe prematuro concludere che l’aspirina causi la degenerazione maculare. ”Se un paziente ha bisogno di aspirina per motivi clinici, malattie cardiache o cardiovascolari o altri disturbi gravi, naturalmente non deve fermare l’assunzione di aspirina, Se pero’ delle persone prendono aspirina per ragioni non cosi’ genuine e reali, dovrebbero valutarne l’opportunita”’, spiega Mitchell.

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Un integratore utile nel trattamento del morbo di Crohn?

Nel trattamento del morbo di Crohn in forma lieve e moderata l’assunzione di integratori alimentari a base di acido linoleico coniugato (CLA) contribuisce a migliorare il decorso della malattia e impatta favorevolmente sulla qualità di vita. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Clinical Nutrition.

Numerosi studi hanno dimostrato che l’acido linoleico coniugato è efficace come immuno-modulatore e nei modelli animali ha mostrato proprietà antinfiammatorie significative. I ricercatori del Nutritional Immunology and Molecular Medicine Laboratory (NIMML) della Virginia Tech University coordinati da Josep Bassaganya-Riera hanno preso in esame 13 pazienti affetti da Crohn in forma lieve o moderata e hanno somministrato loro 6 g/die di CLA per 12 settimane e procedendo a prelievi di sangue periferico all’inizio dello studio, a 6 e a 12 settimane per l’analisi funzionale della linfoproliferazione e della produzione di citochine. L’attività del morbo di Crohn nei pazienti arruolati nello studio è stata monitorata utilizzando il CD activity index (CDAI), mentre la qualità di vita è stata misurata mediante l’Inflammatory Bowel Disease Questionnaire (IBDQ).

La somministrazione di CLA si è rivelata in grado di sopprimere significativamente la capacità delle cellule CD4+ e CD8+ T del sangue periferico di sintetizzare IFN-γ, TNF-α e IL-17 e di inibire significativamente la linfoproliferazione a 12 settimane. Lo score CDAI è sceso da 245 a 187 (P = 0,013) nello stesso arco di tempo, mentre lo score IBDQ è salito da 141 a 165 (P = 0,017) nello stesso arco di tempo.

“Si tratta di risultati molto incoraggianti, ma che vanno verificati in un trial randomizzato e controllato”, commenta Kim L. Isaacs dell’University of Carolina di Chapel Hill. “In realtà sapevamo già che esistono probiotici che sintetizzano CLA localmente e che alleviano i sintomi della colite”, spiega Raquel Hontecillas del NIMML. “Quindi gli effetti si hanno sia con la somministrazione diretta di integratori alimentari a base di acido linoleico coniugato sia con l’assunzione dei ceppi probiotici adatti”.

▼ Bassaganya-Riera J, Hontecillas R, Horne WT et al. Conjugated linoleic acid modulates immune responses in patients with mild to moderately active Crohn’s disease. Clinical Nutrition 2012; In Press.

GAST-1044789-0000-UNV-W-06/2014 

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Nuove linee-guida sulla faringite streptococcica

Realizzate dalla Infectious Diseases Society of America e pubblicate sulla rivista Clinical Infectious Diseases le nuove linee-guida sulla faringite da Streptococcus pyogenes (Streptococco β emolitico di gruppo A o GAS). Queste linee-guida vanno ad aggiornare quelle del 2002. Il team di ricercatori che ha stilato le linee-guida, coordinato da Stanford T. Shulman della Division of Infectious Diseases dell’Ann & Robert H. Lurie Children’s Hospital di Chicago, ha annotato anche la ‘forza’ e la qualità dell’evidenza disponibile su ogni raccomandazione utilizzando il sistema GRADE (Grading of Recommendations Assessment, Development, and Evaluation).

Lo Streptococco β emolitico di gruppo A o GAS è l’agente patogeno più comune della faringite acuta, responsabile del 5%–15% delle visite mediche per ‘mal di gola’ negli adulti e del 20%–30% nei bambini. Una diagnosi precisa e tempestiva della faringite streptococcica seguita da una appropriata terapia antibiotica è importante per la prevenzione di gravi complicanze acute (quali febbre reumatica e complicanze suppurative del calibro di ascesso peritonsillare, linfoadenite cervicale, mastoidite e altri infezioni invasive), per migliorare i sintomi clinici, per accelerare la diminuzione della contagiosità e la trasmissione dell’infezione da GAS a familiari, amici, compagni di classe o colleghi di lavoro ed estranei, per minimizzare gli effetti avversi di una terapia antibiotica inappropriata.

Sebbene la faringite acuta sia una delle patologie per le quali più frequentemente pediatri e medici di Medicina Generale vengono interpellati (15 milioni di visite all’anno solo negli Stati Uniti), solo una percentuale relativamente esigua di pazienti (20%–30% dei pazienti pediatrici, ancor meno negli adulti) sono effettivamente affetti da faringite da GAS. I sintomi della faringite streptococcica e non-streptococcica si sovrappongono e confondono così diffusamente che una diagnosi accurata effettuata solo sulla base dei segni clinici è virtualmente impossibile. Con l’eccezione di altre rare infezioni batteriche della faringe (causate da Corynebacterium diphtheriae e Neisseria gonorrhoeae), la terapia antibiotica è inutile nelle faringiti acute causate da microrganismi diversi dal GAS. È quindi estremamente importante che i pediatri possano effettuare la diagnosi di faringite streptococcica con precisione, per evitare una inutile e dannosa prescrizione di antibiotici.

Quali sono le raccomandazioni per la diagnosi? Va effettuato un tampone faringeo e un test RAD (rapid antigen detection). In caso di test RAD negativo nei bambini e negli adolescenti va effettuata una coltura batterica. In caso di test RAD positivo la coltura non è necessaria per l’elevatissima affidabilità e specificità del test. Il dosaggio degli anticorpi antistreptococco – TAS (titolo antistreptolisinico) – non è raccomandato nella diagnosi di routine di faringite streptococcica perché la presenza di tali anticorpi riflette infezioni passate e non infezioni in corso.

Una volta effettuata la diagnosi, i pazienti con faringite streptococcica devono essere trattati con un antibiotico appropriato alla dose corretta per la durata necessaria all’eradicazione dello Streptococcus pyogenes dalla faringe (in media 10 giorni). Gli antibiotici di riferimento per i pazienti non allergici sono penicillina e amoxicillina. Il trattamento della faringite streptococcica nei pazienti allergici alla penicillina dovrebbe includere una cefalosporina di prima generazione per 10 giorni, clindamicina o claritromicina per 10 giorni, o azitromicina per 5 giorni. L’uso di un agente analgesico/antipiretico come il paracetamolo o un FANS per il controllo dei sintomi e la febbre può essere consigliato in aggiunta alla terapia antibiotica ove necessario. La somministrazione di acido acetilsalicilico (aspirina e simili) deve essere evitato nei pazienti pediatrici. La terapia aggiuntiva a base di corticosteroidi non è raccomandata.

▼Shulman ST, Bisno AL, Clegg HW, Gerber MA et al. Clinical Practice Guideline for the Diagnosis and Management of Group A Streptococcal Pharyngitis: 2012 Update by the Infectious Diseases Society ofAmerica. Clin Infect Dis 2012; doi:10.1093/cid/cis629 

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Tumori: Raccomandazioni per un’alimentazione corretta

L’alimentazione è un tema di particolare rilevanza per le persone malate di tumore. Un’alimentazione equilibrata è molto importante, perché influisce sull’evoluzione della malattia e l’efficacia delle terapie.  

Il tumore può comportare una perdita di peso?

Sì, per diverse ragioni.
Un tumore può indurre una perdita di appetito e comportare una riduzione, o addirittura un’interruzione totale, dell’alimentazione. L’inappetenza può essere provocata dal tumore stesso, in maniera meccanica (ostruzione dell’esofago, ad esempio) o a causa della modifica del meccanismo di controllo del senso di fame associata al dolore o a uno stato depressivo.
Una riduzione dell’apporto di cibo può determinare una progressiva inappetenza.
D’altra parte, l’insorgenza di un tumore provoca un aumentato dispendio energetico dell’organismo.
L’aumento del consumo energetico e la riduzione dell’apporto di cibo provocano uno squilibrio calorico con conseguente perdita di peso e possono condurre a uno stato di denutrizione.

 

Un nutrizionista o un dietista possono aiutare il paziente a ottimizzare la sua alimentazione, offrendo consigli semplici e pratici: pasti variati, frazionati, arricchiti, ecc.

 

Un nutrizionista o un dietista possono aiutare il paziente a ottimizzare la sua alimentazione, offrendo consigli semplici e pratici: pasti variati, frazionati, arricchiti, ecc.

Cos’è la denutrizione?

La denutrizione è lo stato provocato da un apporto di nutrienti e calorie insufficiente per compensare i bisogni dell’organismo ed è caratterizzata da un’importante perdita di peso nell’arco di un breve periodo.

Le terapie antitumorali possono contribuire alla denutrizione?

Sì. Le terapie per i tumori inducono delle variazioni nelle abitudini alimentari.
La chemioterapia e la radioterapia possono provocare infiammazioni e lesioni dolorose delle mucose della bocca (mucositi). Possono anche provocare nausea, vomito o altre complicanze digestive. Inoltre, la chemioterapia altera il gusto e può condurre al rifiuto di certi alimenti.
Se soffrite di nausee e vomito è importante parlarne con i medici che vi hanno in cura che potranno offrirvi dei consigli pratici o prescrivervi la terapia più adatta.

Quali possono essere le conseguenze di una denutrizione?

La denutrizione indebolisce l’organismo. Una perdita di peso del 15% può mettere a repentaglio la vita del malato. Inoltre, uno stato di denutrizione rende 4 volte più probabile il rischio di contrarre un’infezione.

Vi sono delle raccomandazioni alimentari da seguire nel quadro di una chemioterapia?

Sì. La chemioterapia può indurre un’avversione al cibo.
Se vi danno fastidio gli odori, si consiglia di frazionare i pasti (da 6 a 8 pasti al giorno) e optare per i cibi freddi.
Se, nonostante questi accorgimenti, continuate a perdere peso, il vostro medico potrà prescrivervi degli integratori alimentari adatti alla vostra situazione. Essendo ricchi di calorie e proteine, gli integratori aumentano l’apporto calorico e proteico anche se consumati in piccole quantità.

Vi sono delle raccomandazioni alimentari da seguire nel quadro di una radioterapia?

Sì. Se la radioterapia interessa il distretto ORL (bocca, naso, laringe), può comparire secchezza al livello della bocca che rende difficile mangiare. In questi casi si consiglia di aggiungere salse, brodo o latte ai cibi per renderli più morbidi.
Se la radioterapia interessa il distretto addominale, rischia di disturbare il transito. In questo caso occorre limitare l’apporto di fibre, eliminare frutta e verdure crude e la frutta secca.
Dopo una chirurgia dello stomaco o del distretto ORL, può essere necessario frazionare i pasti e favorire gli alimenti combinati.

Posso prendere degli integratori alimentari orali?

Sì. Gli integratori alimentari orali permettono di compensare un apporto nutrizionale insufficiente.
Vengono somministrati su ricetta e occorre seguire le raccomandazioni di utilizzo del medico.
Questi integratori si presentano in forma di bevande a base di latte, succhi di frutta, zuppe, creme dessert o polveri da aggiungere alla normale alimentazione. Il paziente può scegliere insieme al proprio medico o farmacista la forma e il sapore che preferisce e che meglio si adatta alla sua situazione.
Ai malati di tumore, questi integratori sono rimborsati dall’assicurazione sanitaria.

Cosa può fare per me un nutrizionista o un dietista?

Un nutrizionista o un dietista possono aiutarvi a ottimizzare la vostra alimentazione al fine di aumentare gli apporti nutrizionali.
Valuteranno il vostro fabbisogno calorico e potranno darvi dei consigli semplici e pratici per arricchire i vostri pasti, integrandoli con alimenti ricchi di proteine e lipidi (formaggio grattugiato, carne macinata, burro, panna, ecc.)
Potranno inoltre aiutarvi a comporre dei pasti più adatti alla vostra situazione (frazionamento dei pasti, pasti misti), ma allo stesso tempo gustosi.

Al termine del ciclo di terapie, dovrò seguire un regime alimentare particolare?

In alcuni casi, il medico dà al paziente delle raccomandazioni alimentari da seguire (alimenti da evitare, assunzione di vitamine, ecc.) oppure consiglia di prendere appuntamento con un nutrizionista o dietista.

È molto importante fare tutto il possibile per evitare di perdere troppo peso.
In caso di inappetenza, si consiglia di fare piccoli spuntini con cibi salati (dadini di prosciutto o formaggio, fettine di salame o salsiccia, ecc.) o dolci (budino, torta di semolino o riso, yogurt, dessert al formaggio, frutta secca, frutta cotta, cereali al latte, barrette di cereali, ecc.) in vari momenti della giornata

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