Glaucoma, farmaci riducono mortalit

Ricercatori americani, in uno studio appena pubblicato su Archives of Ophthalmology, hanno dimostrato che il ricorso a trattamenti farmacologici in pazienti adulti affetti da glaucoma riduce, in maniera significativa, il rischio di mortalit?. L’indagine condotta da David C. Musch, presso il Department of Ophthalmology della University of Michigan, si ? basata su numerosi dati clinici raccolti tra il 2003 e il 2007 e riguardanti oltre 21mila individui di et? pari o superiore a 40 anni con diagnosi accertata o sospetta di glaucoma. Nel corso dello studio, 237 pazienti (1,1%) sono deceduti. Dopo le opportune correzioni per specifiche variabili, l’impiego di qualsiasi classe di farmaci antiglaucoma ? risultato associato a una significativa diminuzione della mortalit?. Quest’associazione ? stata riscontrata sia con un solo tipo di farmaco, quale un beta bloccante topico oppure un analogo della prostaglandina, sia con differenti combinazioni di classi farmacologiche (L.A.).

Arch Ophthalmol. 2010 Feb;128(2):235-40.

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Emodialisi, migliore gestione di stenosi con stent

12 Feb 2010 Cardiologia

La revisione chirurgica di stenosi venosa, in pazienti sottoposti a emodialisi, pu? essere migliorata con l’impiego di stent autoespandibili di politetrafluoroetilene, in aggiunta all’angioplastica convenzionale. ? quanto pubblicato sul New England Journal of Medicine in uno studio che ha permesso di verificare che, rispetto alla sola angioplastica a palloncino, l’utilizzo aggiuntivo di questi stent determina un migliore funzionamento dell’area trattata e dell’intero sistema d’accesso vascolare oltre che un maggiore tempo senza necessit? di ulteriore intervento. L’indagine multicentrica ha riguardato 190 pazienti in emodialisi, con stenosi venosa, che sono stati randomizzati ad angioplastica standard (gruppo 1) oppure ad angioplastica e utilizzo di stent autoespandibili (gruppo 2). Dopo sei mesi, la percentuale di “patency” sia dell’area trattata sia del circuito vascolare sono apparse pi? elevate nel secondo gruppo rispetto al primo (51% vs 23% e 38% vs 20%, rispettivamente). Anche il tempo senza ricorso a nuovo intervento chirurgico ? stato pi? elevato nel gruppo 2 rispetto al gruppo 1 (32% vs 16%). Infine, l’incidenza a sei mesi di restenosi binaria ? risultata maggiore con la sola angioplastica rispetto dalla combinazione dei due approcci (78% vs 28%) mentre quella di altri eventi avversi ? apparsa paragonabile tra i due gruppi. (L.A.)

N Engl J Med. 2010 Feb 11;362(6):494-503.

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Test tiroide in gravidanza solo in casi selezionati

11 Feb 2010 Ginecologia

Screening universali per identificare problemi alla tiroide non riducono l’incidenza di complicanze in donne in gravidanza, rispetto a indagini riservate a casi clinici particolari. Si tratta delle conclusioni di uno studio pubblicato su Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism e coordinato da Roberto Negro dell’Ospedale V. Fazzi di Lecce che ha voluto chiarire la controversia relativa alla necessit? di sottoporre tutte le donne incinte a valutazioni di disfunzioni tiroidee. L’indagine ha riguardato oltre 4.500 donne al primo trimestre di gravidanza che sono state randomizzate a diagnosi in casi specifici oppure a screening generale. I livelli di T4 libero, Tsh (thyroid-stimulating hormone) e anticorpi anti-perossidasi tiroidea sono stati misurati, immediatamente, per tutte le donne sottoposte ad approccio universale e per quelle a elevato rischio del metodo “case finding”. Per le gravide a basso rischio sottoposte a quest’ultima metodologia sono, invece, stati eseguiti esami immunologici dopo il parto. In breve, con i due tipi di approccio ? stata registrata la stessa incidenza di eventi ostetrici e neonatali avversi. Minori complicanze si sono verificate nelle donne a basso rischio sottoposte a screening generale rispetto alla stessa categoria del “case finding”. Infine, il trattamento con levotiroxina di casi di ipertiroidismo e ipotiroidismo, identificati tra le donne a basso rischio, ha determinato una diminuzione di outcome clinici avversi. (L.A.)

J Clin Endocrinol Metab. 2010 Feb 3. [Epub ahead of print]

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Addio al pap-test, i controlli sul Dna

Una ricerca: ? possibile bloccare le cellule cancerogene molto prima che le lesioni degenerino nella malattia

Addio pap-test, contro i tumori al collo dell?utero arriva un esame pi? efficace: l?analisi del Dna. Per la prima volta uno studio condotto in nove centri di screening italiani su un campione di 94 mila 370 donne ha dimostrato che l?esame sul Dna del papilloma virus previene un numero superiore di tumori in confronto al tradizionale test citologico. Praticamente la totalit?, e tutti sul nascere. La differenza sta nel fatto che l?analisi dell??impronta? del virus consente di individuare con grande anticipo eventuali lesioni ancora nella fase pre-cancerosa. Perci?, da oggi – concludono i ricercatori – ?il test dell?Hpv pu? diventare lo strumento principale di screening per la diagnosi precoce nelle donne di et? pari o superiore ai 35 anni?.

Lo studio ? stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica ?Lancet Oncology?: realizzato nei centri screening di Torino, Trento, Padova, Verona, Bologna, Imola, Ravenna, Firenze e Viterbo, ha avuto come capofila il Centro per l?epidemiologia e la prevenzione oncologica dell?ospedale San Giovanni Antica Sede-Molinette di Torino. Uno studio randomizzato, coordinato dall?epidemiologo Guglielmo Ronco: ?La nostra ricerca – annuncia il dottor Ronco – ? la prima a mostrare una maggiore efficacia del test dell?Hpv rispetto al pap-test nel prevenire i tumori invasivi, in un Paese sviluppato dove lo screening citologico si utilizza da anni e i tumori avanzati sono gi? estremamente rari tra le donne che aderiscono questi screening?.

L?esame del Dna pu? fare di pi? della ?vecchia? tecnica. Soprattutto, molto prima.

Lo studio italiano si ? svolto in due fasi, partite tra marzo e dicembre 2004 su migliaia di donne fra i 25 e i 60 anni: tutte sono state invitate a sottoporsi al controllo nei nove centri di ricerca italiani. ?In ognuna delle due fasi – spiegano i ricercatori – le donne sono state assegnate casualmente ai due gruppi: nella prima, a un gruppo ? stato effettuato il pap-test mentre le altre sono state sottoposte sia al pap-test sia all?analisi dell?Hpv. Nella seconda fase, un gruppo ? stato sottoposto solo al pap-test, l?altro solo al test Hpv.

I risultati sono inequivocabili: al termine della prima serie di esami e del primo confronto i due test hanno evidenziato un numero simile di tumori invasivi: 9 nel gruppo del pap-test, 7 nel gruppo del Hpv-test associato al pap-Test. ?Ma nel secondo round di esami, a distanza di tempo – sottolineano i ricercatori torinesi – nessun cancro ? stato riscontrato nel gruppo sottoposto all?Hpv-test pi? pap-test, a fronte dei 9 rilevati nel gruppo pap-test. Il che dimostra che l?esame Hpv ? pi? efficace perch? permette di trattare con maggiore anticipo le lesioni precancerose prima che le stesse si trasformino in tumori invasivi?. I risultati confermano dunque che ?combinare il test Hpv con il pap-test non aumenta l?efficacia dello screening?. In altre parole: ?E? sufficiente utilizzare soltanto il test Hpv?.

Lo studio coordinato dall?epidemiologo torinese ? andato oltre il raffronto fra i due tipi di esame. Ha permesso di scoprire di pi?: ha consentito anche di individuare la fascia d?et? per la quale ? opportuno sostituire il pap-test con il test dell?Hpv: ?E? nelle donne pi? giovani che la maggiore sensibilit? del secondo esame porta a individuare un alto numero di lesioni, anche se le ragioni non sono del tutto chiare?. Il che ha per? una conseguenza positiva immediata: consente di evitare interventi chirurgici per rimuovere lesioni gi? formate. ?Intervenire chirurgicamente su lesioni che avrebbero potuto scomparire con un diagnosi precocissima porta a un eccesso di trattamento e a un aumento del rischio di complicazioni in gravidanza?.

Alla luce dei risultati di questo studio sta per partire, sotto la guida dello stesso dottor Ronco, e per i prossimi tre anni, il primo progetto nazionale di utilizzo del Dna per i test di screening. Si comincia da Torino, Ivrea, Reggio Emilia e della Provincia autonoma di Trento. ?Nel frattempo – conclude l?epidemiologo coordinatore dello studio – in laboratorio si continua: lavoriamo alla ricerca di un marker biologico per distinguere se una lesione avr? pi? o meno possibilit? di svilupparsi, e di un criterio per sapere, caso per caso, ogni quanto sottoporre le donne al nuovo test?.

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Gestione del diabetico coronaropatico

I pazienti con diabete tipo 2 e malattia coronarica hanno un rischio aumentato di morte e di infarto del miocardio (MI), rispetto ai pazienti non diabetici. Al riguardo le strategie terapeutiche sono varie: una terapia medica intensiva (IMT) per controllare i fattori di rischio aterosclerotico, la rivascolarizzazione percutanea (Percutaneous Coronary Intervention – PCI) o tramite by pass (Coronary Artery Bypass Grafting – CABG) e l’ottimizzazione del controllo glicemico attraverso l’insulino sensibilizzazione (IS), che molti sostengono pi? indicata in una forma di insulino-resistenza qual ? quella del diabete tipo 2 o l’insulino somministrazione (IP).

Il BARI 2D (Bypass Angioplasty Revascularization Investigation 2 Diabetes trial), ? un ampio studio internazionale che ha testato 2 strategie maggiori di terapia in un campione di 2.368 pazienti con una CAD angiograficamente definita, con un follow-up di 5,3 anni: una strategia di rivascolarizzazione precoce vs una terapia medica intensiva (IMP) con rivascolarizzazione solo se necessaria ed una strategia di controllo glicemico con due diverse modalit? (IS vs IP) per un target di HbA1C<7.? Lo studio non ha riscontrato differenze significative nell'end point primario di mortalit? per tutte le cause o nei principali end point secondari di mortalit? per tutte le cause/MI/stroke tra i pazienti? sottoposti a rivascolarazzione e quelli sottoposti a terapia medica intensiva o tra le due strategie di IS o IP (Frye RL, N Engl J Med. 2009; 360:2503-2515). Ma in una recentissima rianalisi su Circulation gli autori del BARI 2D hanno esaminato gli end point secondari predefiniti di morte cardiaca e MI, ed hanno visto che per i pazienti con diabete tipo 2 e angina stabile non severa pu? bastare una terapia intensiva di prima linea (rivascolarizzazione + IMT vs IMT da sola: p=0.38), e la rivascolarizzazione andrebbe riservata ai casi in cui la terapia medica non controlli adeguatamente i sintomi. Invece nei pazienti diabetici con forme pi? severe di CAD, per ridurre il rischio di MI la rivascolarazzazione precoce associata ad una terapia intensiva ? da preferire, come pure la terapia con IS, che ? la sola che ha dimostrato significativit? nella riduzione di MI (p=0.001) e di morte cardiaca/MI (p=0,002). Chaitman BR. The Bypass Angioplasty Revascularization Investigation 2 Diabetes Randomized Trial of Different Treatment Strategies in Type 2 Diabetes Mellitus With Stable Ischemic Heart Disease.?Circulation 2009;120(25):2529-2540

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Fumo e ipertensione: responsabilit? vere e presunte

Si sa che il fumo di sigaretta costituisce un importante fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, ma il suo ruolo nello sviluppo dell’ipertensione ? controverso, e non per nulla la cessazione del fumo non ? routinariamente compresa nelle linee guida della prevenzione o del trattamento dell’ipertensione: secondo alcuni dati (soprattutto riguardanti le donne, e sono dati “sporcati” dal conseguente aumento di peso) la cessazione del fumo aumenta la pressione. Altri dati, riferiti in particolare al genere maschile, hanno invece dimostrato che con la cessazione del fumo si ottiene un miglioramento della pressione e della variabilit? pressoria. Per cercare di avere idee pi? chiare, un largo studio prospettico pubblicato sull’AJH ha analizzato 13.529 soggetti maschi che non hanno mai fumato, che hanno smesso o che continuano a fumare (meno o pi? di 20 sigarette), inizialmente normotesi e non cardiopatici, in rapporto allo sviluppo di ipertensione. In un follow-up di 14,5 anni 4.904 uomini (36%) hanno sviluppato ipertensione. Nel modello multivariato i fumatori correnti ed i pregressi fumatori avevano un RR (95% CI) di 1,08 (1,01 – 1,15) e 1,15 (1,03 -1,27), rispettivamente, confrontati con quelli che non avevano mai fumato, e ci? indipendentemente dal numero di sigarette (meno o pi? di 20). Non sono dati forti, ma considerato il maggior rischio cardiovascolare complessivo presente nei fumatori, ? evidente che anche se il supporto del fumo nella genesi dell’ipertensione ? debole, costituisce pur sempre un elemento in pi? di rischio, soprattutto evitabile. Le cause dell’aumento pressorio nei fumatori sono molteplici e non sono chiare: ? interessante al proposito un recente studio di ricercatori pakistani che hanno riscontrato delle variazioni di elementi traccia nei campioni organici di fumatori ipertesi con un aumento di Cd, Ni e Pb a scapito dello Zn, che invece ? diminuito. Il significato fisiopatologico di tutto ci? non ? chiaro, ma ? possibile, anzi probabile, una relazione col maggior rischio cardiovascolare dei fumatori.

Halperin RO. Smoking and the Risk of Incident Hypertension in Middle-aged and Older Men.?Am J Hypertens?2008;21(2):148-152

Afridi?HI. Evaluation of cadmium, lead, nickel and zinc status in biological samples of smokers and nonsmokers hypertensive patients. J Hum Hypertens 2010;24(1):34-43

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Rischio e incidenza di trombosi nella mielofibrosi

In un recente studio pubblicato su Blood, Barbui e collaboratori hanno valutato frequenza e fattori di rischio per eventi cardiovascolari maggiori in 707 pazienti con mielofibrosi pritiva (PMF), seguiti in 4 centri europei. Durante lo studio furono registrati 236 decessi, con un tasso di mortalit? complessiva pari al 7,7% per paziente/anno. Fu rilevata una trombosi fatale e non fatale in 51 pazienti (7,2% dei pazienti arruolati), con un tasso pari a 1,75% per paziente/anno. Se le morti per cause non vascolari vengono considerate eventi separati, il tasso aggiustato per eventi trombotici maggiori viene stimato essere pari al 2,2% per paziente/anno. Ad una analisi multivariata, l’et? > 60 anni (HR 2,34; 95% CI 1,24-4,39; p=0,01) e lo stato di mutazione JAK2 (HR 1,92; 95% CI 1,10-3,34; p=0,02) risultarono associati alla comparsa di eventi trombotici. Al contrario, fu rilevata solo una?debole associazione tra la conta leucocitaria (GB > 15.000/mm3) e la comparsa di eventi cardiovascolari (HR 1.72; 95% CI 0.97-2.72; p= 0.06). L’incidenza pi? elevata di trombosi fatale e non fatale fu osservata quando la mutazione era presente insieme a leucocitosi (HR 3.13; 95% CI 1.21-7.81). Questo studio ? al momento il pi? esteso pubblicato sull’argomento; esso documenta che il tasso di eventi cardiovascolari maggiori nella PMF ? simile a quello osservato nella trombocitemia essenziale ed ? pi? elevato nei pazienti pi? anziani ed in quelli con mutazione JAK2 V617F associata a leucocitosi.

Barbui T et al.?Response criteria for essential thrombocythemia and polycythemia vera: result of a European LeukemiaNet consensus conference. Blood 2009;113(20):4829-4833

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La radioprotezione ??ancora sottovalutata

Due articoli pubblicati sullo stesso numero di Dicembre degli Archives of Internal Medicine focalizzano l’attenzione su un problema che spesso non ? adeguatamente considerato da noi clinici: quello dei potenziali rischi oncologici correlati all’enorme utilizzo della diagnostica TAC che ha caratterizzato e caratterizza la diagnostica di questi ultimi anni. Il primo articolo, quello di Berrington de Gonzalez? sponsorizzato dall’U.S. National Institute of Health e dal National Cancer Institute di Bethesda, utilizzando complesse procedure statistiche, ha stimato che le radiazioni correlate a tutte le TAC eseguite negli Stati Uniti nel 2007 potrebbero essere corresponsabili di circa 29.000 nuovi tumori. La proiezione statistica ha consentito anche di stabilire che i maggiori contributi ai tumori incidenti sono derivati da una scansione addominale e pelvica (14.000 tumori), seguita dalla TC torace (4.100 tumori), encefalo (4.000 tumori), e dall’angiografia CT (2.700 tumori). Un terzo di questi tumori correlati alle radiazioni ionizzanti della TC sarebbero il risultato di una esposizione nel periodo fra i 35-54 anni ed il 15% sono collegati a un’esposizione nei pazienti di et? inferiore ai 18 anni di et?. Nel secondo degli articoli, oltre a mettere in rilievo l’enorme differenza di esposizione radiante e quindi di metodologia di esecuzione delle medesime indagini fra i vari centri partecipanti, gli AA concludono che il rischio di sviluppare un tumore correlabile con le radiazioni TC ? superiore nei pazienti di giovane et?, nel sesso femminile ed ? differente a seconda del tipo di indagine eseguita (per esempio, l’AngioTC ? quella a maggior rischio oncologico: 1 neoplasia per 150 esami in 20 anni-donna) e del tipo di apparecchiatura utilizzata, essendo significativamente maggiore per quelle multifase come emerge da QUESTA tabella (clicca per visualizzarla).

Se a ci? si aggiunge che la 7? Relazione della? National Academy of Science sugli effetti biologici delle radiazioni ionizzanti (Committee to Assess the Health Risks from Exposure to Low Levels of Ionizing Radiation, BEIR VII, National Research Council. Health Risks From Exposure to Low Levels of Ionizing Radiation. Washington, DC: National Academies Press; 2006 ) ha stimato che una singola dose di 10 mSv ?produce un rischio di sviluppo di un cancro o leucemia di 1 su 1.000 esposti, si capisce con chiarezza che di necessit? dovremo modificare i nostri comportamenti diagnostici, aiutati in ci? dalla necessaria riduzione dei costi che dovrebbe essere “imposta” ?per le metodiche di RM che non si portano dietro questa problematica.

Berrington de Gonz?lez AB, Mahesh M, Kim KP, et al.?Projected cancer risks from computed tomographic scans performed in the United States in 2007. Arch Intern Med 2009;22:2071-2077

Smith-Bindman R, Lipson J, Marcus R, et al. Radiation associated with common computed tomography examinations and the associated lifetime attributable risk of cancer. Arch Intern Med 2009;169:2078-2086

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Ferro endovena nei pazienti scompensati

Un insufficiente apporto ed utilizzo di ossigeno al cuore ed ai muscoli scheletrici(specialmente durante sforzi fisici) condiziona nei pazienti con scompenso cardiaco il quadro clinico ed accentua i sintomi. Il ferro gioca infatti un ruolo chiave nella captazione e trasporto di ossigeno ai tessuti e nel metabolismo ossidativo.

Sulla base di questi presupposti ? stato recentemente concluso (e pubblicato sul numero del New England Journal of Medicine del 17 dicembre 2009 a firma di Stefan Anker e collaboratori) uno studio volto a valutare se la somministrazione di ferro endovena pu? migliorare la sintomatologia presente in pazienti affetti da scompenso cardiaco con bassa frazione di eiezione, con deficit di ferro, con o senza anemia. Sono stati arruolati 459 pazienti con scompenso cronico, in classe NYHA II-III, FE pari al 40% o meno, ferritinemia < 100 microgrammi/L o tra 10 e 30 microgrammi/L ma con saturazione di transferrina < 20%, e con emoglobina compresa tra 9.5 e 13.5 g/L. I pazienti furono randomizzati a trattamento con ferro endovena (carbossimaltoso ferrico) o placebo. L'endpoint primario era costituito dalla classe NYHA e dal 'Patient Global Assessment'; gli endpoints secondari includevano il 6 min walking test e lo score di qualit? di vita. Il 50% dei pazienti in trattamento con ferro riport? un miglioramento, rispetto al 28% dei pazienti con placebo (OR 2.51; 95% CI 1.75-3.61). Alla 24? settimana, il 47% dei pazienti trattati con ferro era in classe NYHA I-II, rispetto al 30% dei pazienti con placebo (OR 2.4; 95% CI 1.55-3.71). Il tasso di mortalit? e di incidenza di eventi avversi, al contrario, risult? sovrapponibile nei 2 gruppi. Lo studio documenta pertanto che la somministrazione di ferro per via endovenosa in pazienti con scompenso cardiaco e con deficit di ferro (con/senza anemia) migliora i sintomi, lo stato funzionale, la qualit? di vita, con un profilo di tollerabilit? accettabile. Al momento non ? dato di sapere se la correzione del deficit di ferro migliori anche il rimodellamento ventricolare, riduca nel lungo periodo il rilascio di biomarkers e citochine infiammatorie e soprattutto riduca le riospedalizzazioni. Anker SD et?al. FAIR-HF Trial Investigators. New Engl J Med?2009;361(25):2436?-2448

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La soia migliora la prognosi del tumore al seno

Uno studio di popolazione (Shanghai Breast Cancer Survival Study), pubblicato di recente su JAMA? [Xiao Ou Shuet al. JAMA?2009;302(22):2437-2443], ha valutato l’effetto del consumo di cibi a base di soia e la prognosi del tumore al seno. La casistica era composta da 4.934 donne di et? compresa fra 20 e 75 anni con tumore al seno diagnosticato nei sei mesi precedenti, le quali sono state seguite in media per 3.9 anni. Il consumo di soia veniva desunto da uno specifico questionario validato somministrato ogni 6 mesi per il primo anno e successivamente ogni 12 mesi. Tra le donne che consumavano la maggior quantit? di proteine di soia l’incidenza di mortalit? ? risultata ridotta del 29% e quella di recidiva neoplastica del 32%. La differenza ? stata analoga sia nelle forme neoplastiche con positivit? che in quelle con negativit? dei recettori per gli estrogeni ed ? stata indipendente dall’uso del Tamoxifene. La soia ? un alimento ricco di fitoestrogeni, soprattutto isoflavoni, che sono dei modulatori dei recettori estrogenici in quanto dotati sia di attivit? simil-estrogenica che anti-estrogenica; pertanto hanno la possibilit? di esplicare un’azione simile a quella del Tamoxifene quando questo farmaco non venga assunto o di potenziarne l’attivit? in corso di trattamento.

Xiao Ou Shuet et al. Soy Food Intake and Breast Cancer Survival. JAMA?2009;302(22):2437-2443

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