Dopo i 50 anni di et? sottoporsi – anche in condizioni di normalit? – a test di memoria pu? evidenziare precocemente la predisposizione a sviluppare la malattia di Alzheimer. Ci? unendo la valutazione con test ad un nuovo tipo di risonanza magnetica nucleare in grado di rilevare le alterazioni anatomiche a carico delle aree del cervello responsabili del funzionamento della memoria stessa, in particolare quelle microstrutturali riferibili all?ippocampo; alterazioni che risultano sempre associate ad eventuali deficit. Lo ha messo in evidenza uno studio italiano condotto presso l?IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma e pubblicato ieri su Neurology, rivista ufficiale dell?American Academy of Neurology.
Da diversi decenni ? noto che gli individui sofferenti (per cause traumatiche, tossiche, infettive, etc.) di un danno anatomico a carico dell?ippocampo presentano, invariabilmente, una riduzione dell?efficienza della memoria fino ad vera e propria amnesia. Questo studio ora ha evidenziato che ? proprio l?ippocampo (insieme alle vicine strutture paraippocampali) il primo ad essere aggredito dall?Alzheimer. Ci? spiega perch? un deficit della memoria ? il pi? immediato campanello d?allarme dell?insorgenza della malattia anche in soggetti relativamente anziani ed apparentemente normali. Lo studio ? stato condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell?Universit? di Roma Tor Vergata e della Fondazione Santa Lucia: Giovanni Carlesimo, Andrea Cherubini, Carlo Caltagirone e Gianfranco Spalletta.
Per arrivare ad evidenziare questa correlazione, i ricercatori hanno preso in esame 76 soggetti sani ed esenti da chiare patologie neurologiche, di et? compresa tra i 20 e gli 80 anni. Questi sono stati sottoposti ad un nuovo tipo di risonanza magnetica nucleare (RMN) dell?encefalo: la diffusion tensor imaging (DTI) che consente di evidenziare alterazioni della microstruttura delle cellule nervose. Il campione studiato ? stato contemporaneamente valutato con test di memoria verbale e visiva a lungo termine. Dalla valutazione congiunta, neuroradiologica e neuropsicologica, ? emerso che nei soggetti al di sopra dei 50 anni le basse prestazioni ai test di memoria sono correlate a significative alterazioni microstrutturali a livello dell?ippocampo.
I risultati dello studio suggeriscono quindi che anche nei soggetti anziani con prestazioni della memoria ridotte al livello pi? basso della soglia di normalit? ? ma non clinicamente rilevanti ? andrebbe accertata l?eventuale contemporaneit? di alterazioni microstrutturali a carico dell?ippocampo. Il riscontro di questa associazione tra le due condizioni potrebbe essere predittiva di un?aumentata suscettibilit? a sviluppare la malattia di Alzheimer. Se la valutazione periodica (per circa tre anni) dei soggetti inclusi nello studio, attualmente in corso presso la Fondazione Santa Lucia, confermer? la validit? di questa metodologia, potrebbero essere sviluppate nuove e pi? precoci terapie farmacologiche in grado di modificare in modo significativo il decorso della patologia neurodegenerativa.
Le labbra possono subire disturbi locali, malattie cutanee e sistemiche di cui rappresentano un?utile spia. Periodicamente in agguato, la pi? temuta delle infezione: l?herpes labiale. Una patologia comune che secondo le statistiche affligge ca. 10-12 milioni di italiani, che periodicamente fanno i conti con questo fastidioso problema che, oltre a un antiestetico sfogo cutaneo provoca un fastidioso prurito e un profondo disagio psicologico. Il responsabile delle vescicole che compaiono sulle labbra ? un virus appartenente alla famiglia degli Herpes virus, identificato come Herpes Simplex Virus (HSV). Peculiarit? dell’herpes labiale sono l’imprevedibilit? e la capacit? di riapparire pi? volte, anche a distanza di anni. Il virus responsabile ? capace di resistere silente per anni all?interno dei gangli nervosi del nostro organismo, per poi manifestarsi subdolamente all?improvviso.
L?herpes inizialmente si manifesta con un leggero prurito e un senso di calore su un punto arrossato del labbro. Nel giro di poche ore, questa sensazione lascia il posto a una chiazza eritemato-edematosa di modeste dimensioni che, in breve tempo, si ricopre di vescicole tese, del diametro di 2-3 millimetri, raccolte a grappolo. Il contenuto, inizialmente limpido, poi si fa torbido. La confluenza di pi? vescicole pu? dar luogo ad una lesione simil-bollosa e a un fastidioso bruciore locale. Il processo infiammatorio acuto, se non si attua alcun trattamento, dura pochi giorni; poi le vescicole si asciugano formando una crosticina giallastra che rimane sulle labbra circa 10 giorni prima di scomparire.
I pericoli pi? temibili sono: la diffusione dell’herpes all’occhio, la sovrainfezione o la trasmissione da mamma a figlio durante o dopo la gravidanza. Per questo motivo una corretta gestione terapeutica e comportamentale ? essenziale. Alcune regole chiave:
– non grattare le vescicole, n? all?inizio n? per togliere la crosticina: in quest?ultimo caso il rischio di lesionare la pelle creando una cicatrice ?? molto alto; – lavare spesso le mani con acqua e sapone, e soprattutto cercare di fare attenzione a non strofinarsi gli occhi; durante la manifestazione cutanea, evitare alimenti troppo caldi o troppo freddi che possono provocare fastidio alle aree lesionate; – se gi? in passato si ? sofferto di questo disturbo, usare la crema specifica prescritta dal medico, contenente una sostanza antivirale, da applicare sul punto delle labbra in cui si stanno formando le vescicole dell’herpes. Prima si inizia a usarla e pi? ? efficace: ai primi sintomi di – formicolio e bruciore quando si formano le bolle; – consigliabile l?uso di creme ammorbidenti e protettive specifiche per le labbra che possono aiutare a lenire il fastidio temporaneo; durante le prime esposizioni stagionali al sole, proteggere le labbra con un filtro solare ad alto fattore di protezione ed evitare di sostare sotto i raggi per ore; – evitare metodi “casalinghi” come la pasta dentifricia o il succo di limone che, oltre a non dare risultati efficaci e sicuri, possono irritare ulteriormente la zona.
Il nostro apparato digerente nasconde se non proprio segreti, comunque curiosit? sconosciute al grande pubblico. Abbiamo scelto le cinque pi? bizzarre per voi: 1. Soltanto l?intestino tenue (cio? la prima parte dell?intestino, la parte di canale alimentare che va dallo stomaco al cieco) ? se si considerano tutte le pieghe ? ha una superficie di 2700 metri quadri, come un campo da tennis. 2. Un cenone come quello di Capodanno abbisogna di circa 72 ore per essere digerito completamente. 3. La maggior parte della serotonina, ormone che influenza pesantemente l?umore, ? sintetizzata a livello dell?apparato digerente, non del sistema nervoso. 4. Lo stomaco ? in grado di digerire quasi tutto, anche ossa, chewing gum e persino pezzi di metallo grazie all?acido cloridrico che sintetizza, ma non dissolve alcuni tipi di plastica (i giocattoli ingeriti dai bambini, per esempio), che finiscono intatti nell?intestino e ? si spera ? escono dall?ano con le feci. 5. Nel 2005 una prigione del Rwanda ha vinto l?Ashden Award for Sustainable Energy, un premio internazionale dedicato a progetti di risparmio energetico, ricavando metano dalle feci dei detenuti e usandolo per le cucine. Il risparmio? Pi? di 1,5 milioni di dollari. Immaginate la stessa cosa su scala mondiale. Fonte: Keany LA. 20 Things you didn?t know about? digestion. Discover Magazine 07/01/2010
? la lipoproteina A. La presenza nel Dna di due geni che ne determinano l’aumento condiziona la maggior probabilit? di incorrere in malattie delle coronarie Non ci sono pi? soltanto il colesterolo ?buono? e quello ?cattivo?: ora anche la lipoproteina A, quando ? in eccesso nel sangue, pu? aumentare il rischio di infarto. La conferma arriva dallo studio genetico europeo Procardis, pubblicato sul New England Journal of Medicine. Procardis ? un consorzio europeo tra i ricercatori dell’ Istituto Mario Negri di Milano, del Wellcome Trust Centre e della Clinical Trials Service Unit dell’Universit? di Oxford, insieme a quelli del Karolinska Institute di Stoccolma e dell’Universit? di Munster. RISCHIO ANCHE QUADRUPLICATO – Lo studio ha analizzato il Dna di 16 mila europei, dimostrando che tra le diverse varianti del gene Apo-A due in particolare sono associate all’aumento di questa lipoproteina nel sangue, e contribuiscono a causare lo sviluppo della malattia coronarica e dell’infarto. La scoperta ? ancora pi? importante se si considera che una persona su sei ? portatrice di una di queste due varianti nel suo Dna, e ha di conseguenza un rischio di infarto raddoppiato rispetto ai soggetti con i geni ?classici?; chi ? portatore di entrambe le varianti ha un rischio quadruplicato. ?La lipoproteina A – aggiungono gli scienziati – ? un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali come colesterolo totale, ipertensione, diabete, obesit? e fumo. I suoi effetti si sommano quindi a quelli dei fattori di rischio pi? conosciuti?. ?Si conosce ancora poco di questa lipoproteina – spiega Maria Grazia Franzosi del Mario Negri, che ha coordinato lo studio per l’Italia – ed ? un tipo di colesterolo cui si dovr? dedicare pi? attenzione nell’immediato futuro. La dieta, l’esercizio fisico e le statine sono poco efficaci nell’ abbassare i suoi livelli, mentre sembrano funzionare alcuni farmaci esistenti da tempo come la niacina e altri in arrivo sul mercato. Il nostro studio apre nuove strade per la ricerca di trattamenti efficaci nella prevenzione: ora che sappiamo che la lipoproteina A ? causa di malattia coronarica, sar? opportuno condurre studi clinici per valutare se i farmaci che ne riducono i livelli prevengono l’infarto?. Il rischio di aumento dell’infarto causato dalla lipoproteina ? comunque inferiore a quello determinato da un elevato colesterolo ?cattivo?. ?La speranza – conclude Franzosi – ? che curandoli entrambi il rischio di infarto si possa ridurre ulteriormente?.
Molti bambini con reflusso vescico-ureterale (RVU) non hanno benefici dalla diagnosi e dal trattamento della loro condizione. L’utilit? della profilassi antibiotica nella prevenzione delle infezioni del tratto urinario in bambini con RVU ? stata messa in discussione da numerosi studi prospettici e diverse analisi di confronto tra soggetti sottoposti ad intervento operatorio vs antibiotico-profilassi che non hanno evidenziato differenze nei due gruppi per funzione renale, progressione o sviluppo del danno renale o infezioni urinarie. Da questo scenario si deduce che nel bambino con RVU ? complesso prendere decisioni. La strategia migliore sembra essere un approccio individualizzato che tenga conto delle numerose variabili che, opportunamente pesate, dovrebbero permettere al clinico di individuare i soggetti che potrebbero beneficiare dell?intervento. Una revisione apparsa su Nature Reviews Urology ha analizzato le basi di conoscenza che sostengono la valutazione, la gestione e il trattamento del bambino con RVU. Questa patologia, caratterizzata dal flusso retrogrado di urina dalla vescica nell?uretere, si verifica in circa il 1-3% dei bambini in tutto il mondo ed ? associata al 7-17% di quelli con diagnosi di malattia renale in stadio terminale. Il trattamento del RVU ? orientato a prevenire le sequele di pielonefrite, di lesioni del parenchima renale, di ipertensione e insufficienza renale cronica. Il tempo di latenza tra la prima pielonefrite e lo sviluppo di ipertensione o di uno stadio terminale di malattia renale ? di 30-40 anni. Pertanto ? essenziale un lungo periodo di follow-up dei pazienti per poter identificare i soggetti che potrebbero beneficiare di un trattamento del RVU. Si stima che il 30-40% dei bambini di et? inferiore ai 5 anni che sviluppano un’infezione del tratto urinario (IVU) hanno un RVU. Nei casi di RVU primario il problema ? spesso attribuito ad un decorso ureterale intravescicale breve e la gravit? dell?anomalia ? direttamente correlata alla gravit? del reflusso, mentre il RVU secondario ? indotto da un incremento anomalo della pressione endo-vescicale, come nell’ostruzione uretrale o nella disfunzione da vescica neurogena. In generale, la gravit? del RVU ? classificata in 5 gradi secondo l?International Reflux Study e rappresenta il fattore principale per determinare la probabilit? di risoluzione spontanea del reflusso e il rischio di danno renale. Gradi pi? elevati di reflusso sono associati a tassi di risoluzione ridotta e maggiore prevalenza di cicatrici renali. In aggiunta al grado, altri fattori hanno dimostrato di essere predittivi della risoluzione del reflusso e/o del rischio di sviluppare danno renale. Questi fattori includono l’et?, il sesso, la lateralit?, il volume della vescica e la pressione al momento della comparsa del reflusso, la presenza di cicatrici renali, la presenza di disfunzione vescicale, e una storia di IVU. L?eredititariet? ? da tenere in considerazione nei casi di RVU primaria. Infatti la possibilit? che un fratello di un bambino con RVU di avere lo stesso problema ? di circa il 25%, e la prole degli individui affetti ha un rischio aumentato del 27-51%. Gli studi prospettici che hanno cercato di affrontare l’efficacia di un intervento operatorio rispetto alla profilassi antibiotica nei bambini con RVU hanno dimostrato che non esistono differenze significative della funzione renale o della crescita, progressione o sviluppo di nuove cicatrici o infezioni del tratto urinario nei pazienti trattati con intervento rispetto agli altri. Questi studi rafforzano la necessit? di definire meglio il sottoinsieme dei bambini con RVU che potrebbero trarre beneficio da un intervento. Spesso il giudizio clinico parte da un presupposto errato e cio? che il RVU sia responsabile di UTI, soprattutto perch? la diagnosi di reflusso segue spesso un UTI, ma se il reflusso non ? abbastanza grave da indurre la stasi non predispone il bambino a sviluppare IVU. Pi? spesso, le infezioni sono il risultato di condizioni predisponenti, come una precedente storia di UTI, sesso femminile, costipazione, minzione frequente, svuotamento incompleto e compromesse difese dell’ospite. Anche se generalmente sicura e ben tollerata, la profilassi antibiotica comporta costi e rischi potenziali per la salute per i bambini. La profilassi antibiotica per ridurre la probabilit? di sviluppare un evento di UTI ? associata ad un aumento di 24 volte del rischio che l?Escherichia coli sviluppi resistenza al trimetoprim-sulfametossazolo. Studi di sottoinsiemi di popolazione hanno individuato come fattori di rischio correlati a UTI ricorrenti e febbrili l?et? pi? giovane e il grado crescente di reflusso. Purtroppo, come detto in precedenza, l’intervallo di tempo tra lo sviluppo del danno renale e apparenti conseguenze cliniche di ipertensione o insufficienza renale richiedono decenni di follow-up per caratterizzare il gruppo di bambini realmente a rischio. L?Uretrocistografia minzionale ? la prova di routine pi? affidabile per individuare il reflusso e fornisce informazioni per quanto riguarda i dettagli anatomici del reflusso, compresa la presenza o l’assenza di diverticoli periureterali, anomalie ureterali (doppio uretere), anomalie della vescica e permette una pi? precisa classificazione del reflusso. In genere, gli studi di follow-up sono eseguiti con radioisotopi mediante la cistografia nucleare, che permette una riduzione dell’esposizione alla radioattivit?. In una meta-analisi che ha esaminato la presenza di danno renale nei bambini ricoverati in ospedale con IVU, uno studio ha rilevato che circa il 34% dei bambini con pielonefrite aveva RVU, e di quelli con RVU e pielonefrite, il 72% ha avuto una scintigrafia con acido dimercaptosuccinico (DMSA) anomala. Questo esame risulta pi? sensibile della pielografia per via endovenosa per l’individuazione della nefropatia da reflusso ed ? in grado di rilevare cambiamenti da pielonefrite acuta, con una maggiore sensibilit? e specificit? della TC, della risonanza magnetica o dell?ecografia. Anche la Mercaptoacetiltriglicina (MAG3) ? stata utilizzata per l’imaging renale e i vantaggi rispetto alla scintigrafia con DMSA includono l’esposizione a radiazioni ridotte, bassi costi e una migliore visualizzazione del sistema estretore , che potrebbe migliorare la specificit? rispetto alla scintigrafia DMSA nei bambini con marcata idroureteronefrosi. Un terzo dei pazienti con RVU ha cicatrici renali che implicano la presenza di regioni di danno renale e un aumentato rischio di sequele a lungo termine. I bambini con RVU e IVU concomitanti hanno un rischio maggiore di sviluppare cicatrici renali rispetto ai bambini con solo infezioni del tratto urinario. Le cicatrici renali hanno inoltre dimostrato di essere un fattore predittivo negativo di risoluzione del reflusso indipendente dal grado. Il trattamento chirurgico del RVU si ? evoluto nel corso degli ultimi 50 anni. Sono state utilizzate diverse tecniche di chirurgia intravescicale ed extravescicale per la risoluzione del RVU, senza che ci sia una chiara documentazione della superiorit? di una rispetto alle altre. Molte delle domande riguardanti il RVU rimangono senza risposta, ma ? chiaro che spesso il trattamento definitivo e la diagnosi di RVU sono inutili per molti pazienti. La decisione di operare un bambino con reflusso o di continuare o interrompere la profilassi antibiotica si basa su una valutazione rischi/benefici da parte del medico e della madre. Questa decisione ? stata tradizionalmente basata prevalentemente sul grado di reflusso. Oggi una decisione davvero informata deve prendere in considerazione altre variabili, tra cui l’et? del paziente, il sesso, la storia di infezioni del tratto urinario, lo stato renale, e la valutazione probabilistica di risoluzione spontanea. Non per ultimo l?analisi individualizzata di un bambino con RVU deve tener conto della situazione sociale del paziente e delle preferenze dei genitori. Allo scopo viene proposto un sistema automatico computerizzato di valutazione prognostica basato sulle reti neurali che potrebbe facilitare il compito al medico che deve prendere questa decisione in condizioni di estrema incertezza. Bibliografia Christopher S. Cooper Diagnosis and management of vesicoureteral reflux in children Nat Rev Urol 2009;6:481-9
Gli incidenti all’interno e fuori dall’abitazione rappresentano una delle principali voci di richiesta di intervento sanitario urgente per la popolazione in et? avanzata. Ma ridurne frequenza e gravit? si pu?. Sergio Locatelli, medico responsabile della Residenza “San Martino”di Bollate (Milano) e consigliere della Sezione lombarda della Societ? italiana di geriatria e gerontologia (Sigg), ci spiega come. Quali fattori correlati all’invecchiamento fisiologico predispongono l’anziano alle cadute? Anche in assenza di patologie specifiche, l’invecchiamento si associa a modificazioni fisiche e metaboliche che compromettono le possibilit? di movimento, di reagire a stimoli e interferenze esterne e di mantenere un equilibrio ottimale, favorendo indirettamente il rischio di cadute. Oggi un anziano sano inizia ad avere problemi di questo tipo in et? molto avanzata, in genere soltanto dopo gli 85-90 anni, e per ragioni che potrebbero essere almeno in parte contrastate con il mantenimento di abitudini motorie adeguate. Quali sono le patologie che possono facilitare i traumi nell’anziano? Le condizioni cliniche che promuovono maggiormente le cadute nella popolazione anziana sono la malattia di Parkinson e le demenze, a partire dall’Alzheimer, soprattutto nelle fasi pi? avanzate. E ci? sia per le caratteristiche intrinseche di queste patologie sia per la riduzione di vigilanza che possono determinare alcuni farmaci utilizzati per contrastarle. Altro problema diffuso sono cali di pressione improvvisi, spontanei o indotti da terapie antipertensive sempre abbastanza difficili da calibrare in et? avanzata. Non di rado poi, le cadute sono dovute a vertigini e alterazioni dell’equilibrio, fenomeni cerebrovascolari di lieve entit? o scompensi cardiometabolici, dalla sincope all’ipoglicemia. Un certo contributo viene anche dalla presenza di patologie vascolari periferiche e osteoarticolari che limitano le possibilit? di muoversi correttamente, come l’arteriopatia obliterante o l’artrosi agli arti inferiori, ma il loro impatto ? meno rilevante. Dormire male pu? aumentare i rischi? I disturbi del sonno sono una delle principali concause di incidente a qualunque et? e, a maggior ragione, negli anziani. Se non li si contrasta, ? l’inevitabile stanchezza diurna a promuovere le cadute. Se si assumono sonniferi o ansiolitici per porvi rimedio, possono essere gli effetti residui di questi farmaci a ridurre prontezza di riflessi e attenzione durante il giorno. Per questo ? essenziale informare il medico non soltanto della difficolt? a riposare adeguatamente, ma anche delle sensazioni sperimentate assumendo la terapia prescritta. Quali accorgimenti possono essere utili per aumentare la sicurezza all’interno della casa? Innanzitutto, ? indispensabile eliminare tutti i tappeti, compresi quelli antiscivolo con ventose da inserire nella vasca da bagno o nella doccia. Meglio installare maniglie alle pareti per offrire un supporto stabile. Quindi, vanno livellati i pavimenti tra una stanza e l’altra o tra superfici esterne e interne all’abitazione se sono presenti piccoli scalini oppure bordi degli stipiti sporgenti. Inoltre, andrebbero posti corrimano e strisce antiscivolo lungo le scale ed eliminati tutti gli ulteriori possibili ostacoli dai pavimenti, che non vanno trattati con cere o altri composti che possono renderli sdrucciolevoli n? lucidati. E per alzarsi e sedersi senza difficolt?? La soluzione ideale per l’anziano sono le sedie, ma devono essere comode, stabili e, possibilmente, con braccioli d’appoggio. Divani e poltrone sarebbero, invece, da evitare: sono troppo bassi e, oltre a mettere in difficolt? quando ci si alza, facilitano la perdita di equilibrio. Un problema analogo si ritrova in bagno, dal momento che quasi tutti i water installati nelle abitazioni sono troppo bassi, rendendo pi? difficili i movimenti. Ma rimediare ? semplice e non dispendioso: basta acquistare gli appositi “alza water” in plastica.
La forza muscolare risulterebbe correlata al rischio di sviluppare Alzheimer e declino cognitivo lieve in individui anziani. Si tratta dei risultati di uno studio prospettico osservazionale apparso su Archives of Neurology che ha considerato oltre 900 persone senza segni di alterazioni cognitive al momento del reclutamento. La forza, misurata a livello di nove gruppi muscolari delle braccia e delle gambe e dei muscoli assiali, ? stata poi espressa attraverso un indice composito. In sintesi, al termine del follow-up durato 3,6 anni, 138 persone hanno sviluppato la malattia di Alzheimer e dopo le opportune correzioni per et?, sesso e livello di educazione, ogni incremento unitario nella potenza muscolare ? risultato associato a un decremento del 43% del rischio di demenza senile (hazard ratio= 0,57). Questa correlazione continua a risultare significativa anche dopo specifici aggiustamenti per indice di massa corporea, attivit? fisica, funzione polmonare, fattori di rischio vascolare, patologie cardiovascolari e livelli di apolipoproteina E4. Infine, aumenti nella forza muscolare sono apparsi associati anche a decremento del rischio di declino cognitivo lieve, condizione patologica che precorre l’Alzheimer (hazard ratio= 0,67). (L.A.)
In donne affette da cancro al seno con linfonodi ascellari positivi, la somministrazione di trastuzumab al termine di chemioterapia adiuvante a base di antracicline non produce significativi vantaggi in termini di riduzione del rischio di recidive. ? quanto hanno pubblicato su Journal of Clinical Oncology ricercatori francesi dell’Institut Gustave Roussy di Villejuif. Oltre 3mila pazienti con carcinoma mammario operabile sono state randomizzate a ricevere terapie chemioterapiche con antracicline con o senza docetaxel. Le pazienti affette da tumori Her-2 positivi sono state sottoposte, in un secondo momento, a un regime terapeutico con trastuzumab (6mg/kg, ogni 3 settimane) per un anno oppure semplicemente a osservazione (gruppo controllo). Al termine del follow-up durato 47 mesi, la somministrazione di trastuzumab ? risultata associata a una riduzione non significativa del rischio di recidive pari al 14% (hazard ratio= 0,86). ? stata registrata, inoltre, un’incidenza di mortalit? libera da malattia a tre anni pari al 78% nel gruppo controllo e all’81% nelle pazienti trattate con trastuzumab. (L.A.)
Journal of Clinical Oncology 2009, 16 november, early online pubblication
La posizione prona non determina, come faceva ritenere una metanalisi, un significativo beneficio in termini di sopravvivenza nei soggetti con sindrome da distress respiratorio acuto (Ards) n? in sottogruppi con ipossiemia da moderata a grave. Questo l’esito dello studio Prone-Supine II, un trial multicentrico in aperto, controllato e randomizzato, condotto in 23 centri in Italia? e in 2 in Spagna. I pazienti erano 342 adulti con Ards in ventilazione meccanica, stratificati in due sottogruppi, con ipossiemia moderata (n=192) e grave (n=150), e assegnati in modo randomizzato alla posizione supina (n=174) o prona (20 ore al giorno; n=168) durante la ventilazione. I pazienti in posizione prona e supina nell’intero studio ebbero simili tassi di mortalit? a 28 giorni (31,0% vs 32,8%; Rr 0,97; P = 0,72) e sei mesi (47,0% vs 52,3%; Rr 0,90; P = 0,33), sebbene il tasso di complicanze fosse maggiore nel gruppo prono. Anche gli esiti sono stati simili nei soggetti con ipossiemia da moderata a grave a 28 giorni (25,5% vs 22,5%; Rr 0,98; P=0,85) e a 6 mesi (42,6% vs 43,9%; Rr 0,98; P=0,85). La mortalit? a 28 giorni dei soggetti con grave ipossiemia era di 37,8% e 46,1% nei gruppi prono e supino, rispettivamente (P=0,31), mentre quella a 6 mesi era di 52,7% e 63,2% (P=0,19). (A.Z.)
Il primo trial umano di un vaccino contro il tumore alla prostata si ? rivelato in grado di stimolare in modo sicuro una risposta immunitaria utile in chiave anti tumore. ? quanto emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista Clincal Cancer Research, nella quale il vaccino, che consiste di un comune vettore adenovirale, ? stato testato a differenti dosaggi e con diverse modalit? di somministrazione. Nello studio sono stati arruolati 32 pazienti (et? media 71 anni, Psa medio 128 ng/mL), con metastasi avanzate e resistenza alle terapie, sia di prima che di seconda linea. Ciascun soggetto ha ricevuto una dose di vaccino e la maggior parte ? stata seguita fino a un anno dalla somministrazione? per valutare tossicit?, risposte immunitarie, modifiche nel tempo di raddoppio del Psa e sopravvivenza. La met? dei soggetti ha ricevuto il vaccino in sospensione acquosa o in una matrice collagenica Gelfoam. Il vaccino si ? rivelato sicuro a tutte le dosi e in tutte le somministrazioni. In pi? ? stata riscontrata una buona risposta immunitaria, con una risposta T-cell mediata nel 77% dei pazienti. Infine il 48% dei pazienti ha aumentato il tempo di raddoppio del Psa e il 55% dei pazienti ? sopravvissuto pi? a lungo di quanto previsto dal nomogramma di Halabi. Un risultato promettente, anche se rimane da stabilire la rilevanza clinica del vaccino, perch? precisa il responsabile della ricerca “il numero di pazienti ? troppo ristretto per evocare qualsiasi rilievo statistico definitivo”. Sar? questo l’obiettivo del trial di fase II. (M.M.)