Tumore della mammella: nuovo test per la stratificazione del rischio

Un nuovo marcatore molecolare potrebbe consentire un’efficace previsione del rischio di incidenza di metastasi nei casi di tumore della mammella. Il nuovo test diagnostico ? stato presentato sulla rivista Clinical Cancer Research.
Il marker, denominato TMEM (Tumor Microenvironment of Metastasis), ? presente in quantit? doppia nel flusso ematico delle pazienti che sviluppano metastasi sistemiche rispetto alle pazienti in cui il tumore della mammella rimane invece localizzato, dichiara Joan Jones, professore di Patologia Clinica presso il Weill Cornell Medical College di New York e primo autore della ricerca.
Le attuali tecniche di previsione delle metastasi nei casi di tumore della mammella di basano sull’analisi delle dimensioni della massa tumorale, sul grado di differenziazione delle cellule cancerose rispetto alla massa sana e sull’eventuale loro diffusione ai linfonodi. Secondo Jones, il nuovo test potrebbe rappresentare un utile ed efficace strumento di diagnosi in quanto la concentrazione del TMEM presente nel sangue riflette il meccanismo di formazione delle metastasi.
?Se la sua efficacia clinica venisse confermata?, sostengono gli autori dello studio, ?si potrebbe effettuare una stratificazione del rischio clinico delle pazienti affette da tumore della mammella e ci? condurrebbe a terapie pi? mirate e a una sostanziale diminuzione della spesa sanitaria pubblica?.
Fonte: Robinson BD et al. Tumor microenvironment of metastasis in human breast carcinoma: a potential prognostic marker linked to hematogenous dissemination. Clin Cancer Res 2009; 15(7):2433-41.

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Sclerosi multipla riduce rischio tumorale

I soggetti con sclerosi multipla presentano una riduzione del rischio oncologico complessivo del 10 percento circa, soprattutto se di sesso femminile, ma potrebbero essere esposti ad un leggero aumento del rischio di sviluppare alcuni particolari tipi di tumore, come quelli cerebrali o degli organi urinari. La riduzione del rischio tumorale osservata potrebbe essere una conseguenza della variazione dello stile di vita o del trattamento susseguente alla diagnosi, mentre l’aumento dei tumori cerebrali potrebbe derivare dall’infiammazione dei tessuti locali, ma il dato potrebbe anche non riflettere un reale aumento del rischio: vi sono infatti prove del fatto che l’aumento della frequenza delle indagini neurologiche in questi pazienti incrementa la probabilit? di una diagnosi tumorale precoce. Quanto agli organi urinari, la sclerosi multipla ne determina l’irritazione cronica, che potrebbe aumentarne il rischio tumorale, anche se in ultima analisi il rischio individuale risulta modesto. E’ possibile comunque che nel complesso almeno parte della riduzione del rischio tumorale derivi dal modo in cui il corpo risponde alla sclerosi multipla: studiare questi pazienti pu? aiutare ad identificare fattori che proteggono dai tumori, che a loro volta potrebbero aiutare a determinare l’eziologia della sclerosi multipla stessa. (Neurology. 2009; 72: 1170-7)

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Epatite C cronica: affidabilit? dell?elastografia transitoria nella diagnosi di

L?elastografia transitoria ? una tecnica che sta ricevendo crescente attenzione come mezzo per valutare la progressione della malattia nei pazienti con epatopatia cronica.

Ricercatori del Dipartimento di Medicina Interna dell?Universit? di Firenze hanno valutato la capacit? dell?elastografia transitoria nel predire lo stadio di fibrosi.

La biopsia epatica e l?elastografia transitoria sono state eseguite nello stesso giorno su 150 pazienti consecutivi con epatite correlata ad infezione da virus dell?epatite C ( HCV ) ( 92 uomini e 58 donne; di et? media: 50.6 anni ).

Le aree sotto la curva in grado di predire un significativo stato fibrotico ( maggiore o uguale a F2 ), una fibrosi avanzata ( maggiore o uguale a F3 ) o la cirrosi sono stati, rispettivamente, pari a 0.91, 0.99 e 0.98.

Il calcolo dei rapporti di probabilit? multilivello ha mostrato che i valori dell?elastografia transitoria inferiori a 6 o maggiori o uguali a 12, minori di 9 o maggiori o uguali a 12, e minori di 12 o maggiori o uguali a 18, indicavano chiaramente, rispettivamente, l?assenza o la presenza di fibrosi significativa, fibrosi avanzata, e la cirrosi.
I valori intermedi potevano non essere associati in modo attendibile all?assenza o alla presenza della condizione target.

La presenza dell?infiammazione ha influenzato in modo significativo le misurazioni dell?elastografia transitoria nei pazienti che non presentavano cirrosi ( p<0.0001 ), anche dopo aggiustamento per lo stadio di fibrosi.
Le misurazioni dell?elastografia transitoria non sono risultate influenzate dal grado di steatosi.

In conclusione, l?elastografia transitoria ? pi? adatta per l?identificazione di pazienti con fibrosi avanzata che quelli con cirrosi o fibrosi significativa.
Nei pazienti in cui i rapporti di probabilit? non sono ottimali e non forniscono un?indicazione attendibile della fase di malattia la biopsia epatica potrebbe essere presa in considerazione quando clinicamente indicata.
L?attivit? necroinfiammatoria, ma non la steatosi, influenza le misurazioni dell?elastografia transitoria nei pazienti che non hanno cirrosi.

Arena U et al, Gut 2008; 57; 1288-1293

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Screening mammografico: danni e benefici

Attualmente le informazioni che il pubblico riceve sullo screening mammografico non sono bilanciate: i potenziali benefici sono eccessivamente enfatizzati, ed i potenziali rischi raramente vengono discussi. La procedura, iniziata intorno ai 50 anni di et?, salva 1,8 vite ogni 1000 donne nell’arco di 15 anni. Il rischio assoluto di decesso da tumore mammario senza alcun tipo di screening ammonta all’uno percento nello stesso periodo di tempo, il che significa che la percentuale di sopravvivenza nelle donne fra i 50 ed i 60 anni non sottoposte a screening ? del 99 percento. Questi dati statistici sulla mammografia sono in netto contrasto con quanto si pubblicizza su questa forma di screening, in base a cui la mammografia “salva la vita”. E’ necessaria una presentazione equilibrata dei fatti alla paziente, il che includerebbe far menzione dei benefici assoluti associati allo screening e la discussione dei potenziali rischi, come falsi positivi, ansia, biopsie non necessarie ed overdiagnosi, cosa che oggi non accade. E’ ovvio che il principio dello screening consista proprio nell’applicare un intervento ad un gran numero di soggetti sani per fare in modo di beneficiare i pochi che hanno la sfortuna di sviluppare la malattia, ma ? giusto che il pubblico conosca le reali statistiche relative alla procedura in modo da prendere decisioni informate sulla propria partecipazione. (BMC Med Inform Decis Mak. 2009; 9: 18, 19 e 20)

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Colecisti rimossa per via vaginale

di Nicola Miglino
Un piccolo foro di 5 mm a livello addominale, per l?ingresso della telecamera. Poi l?inserimento di un endoscopio attraverso la vagina, una minuscola incisione nella parete posteriore dell?organo e, sotto la guida della telecamera, il posizionamento di un bisturi a ultrasuoni per la rimozione della colecisti, estratta, infine, per via vaginale.
Una procedura mininvasiva da poco eseguita con successo al Policlinico San Pietro di Ponte San Pietro (Bg) su una donna di 45 anni con colecisti contenente calcoli e in fase infiammatoria acuta. La tecnica si chiama colecistectomia laparoscopica transvaginale e appartiene alla categoria di interventi di ultima generazione, definita con la sigla Notes (Natural orifice transluminal endoscopic surgery).
Quello raccontato ? uno dei primissimi casi in Italia in cui ? stata utilizzata per la rimozione di una calcolosi colecistica di tipo acuto, con vantaggi in termini di riduzione del dolore e diminuzione della degenza ospedaliera, durata appena 24 ore.
?La nuova procedura offre importanti benefici al paziente rispetto alle procedure laparoscopiche precedenti, gi? poco invasive ma che richiedevano l?esecuzione di pi? fori addominali anzich? di un unico microforo, con effetti post-operatori visibili? afferma Paolo Ubicali, responsabile della Chirurgia del Policlinico San Pietro, che ha realizzato l?intervento insieme ai colleghi Eugenio Jonghi Lavarini e Rolando Brembilla. ?Il grande valore di questa tecnica chirurgica che sfrutta gli orifizi naturali del corpo umano, e che richiede l? utilizzo di strumenti avanzati di microchirurgia, ? legato anche alle prospettive future che apre per il trattamento di patologie pi? complesse?.

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Tumore al seno: l?incidenza di recidiva locale dopo terapia conservativa ? bassa

3 Set 2009 Oncologia

Ricercatori del Massachusetts General Hospital, a Boston negli Stati Uniti, ha condotto uno studio clinico con lo scopo di determinare se il sottotipo di tumore al seno fosse associato all?esito dopo terapia conservativa della mammella ( BCT ), costituita da lumpectomia e radioterapia.

Sono state arruolate nello studio 793 pazienti con tumore mammario invasivo sottoposte a terapia conservativa tra luglio 1998 e dicembre 2001.
Il 97% di queste pazienti mostrava margini di resezione negativi e il 90% ha ricevuto terapia adiuvante sistemica.
Nessuna paziente ha ricevuto terapia adiuvante a base di Trastuzumab ( Herceptin ).

Lo stato recettoriale ? stato utilizzato per determinare il sottotipo: recettore per l?estrogeno ( ER) o del progesterone ( PR ) positivo e recettore per HER-2 negativo = luminale A; ER+ o PR+ e HER-2+ = luminale B; ER- e PR- e HER-2+ = HER-2; ER- e PR- e HER-2- = basale.

E? stato analizzato il tempo alla comparsa di recidive locale e di metastasi a distanza.

Il periodo osservazionale medio ? stato di 70 mesi.

A 5 anni, l?incidenza cumulativa di recidiva locale ? stata pari a 1.8%: 0.8% per il luminale A, 1.5% per il luminale B, 8.4% per l?HER-2 e 7.1% per il basale.

All?analisi multivariabile con il luminale A come base, il sottotipo HER-2 ( hazard ratio aggiustata [ aHR ] = 9.2; P = 0.012 ) e il basale ( aHR = 7.1; P = 0.009 ) sono risultati associati a un?aumentata recidiva locale; il luminale B ( aHR = 2.9; P = 0.007 ) e il basale ( aHR = 2.3; P = 0.035 ) sono invece risultati associati ad un aumento delle metastasi a distanza.

In conclusione, i tassi di recidiva locale a 5 anni dopo terapia conservativa della mammella sono bassi, ma variano nei diversi sottotipi individuati in base allo stato di ER, PR e HER-2.
La recidiva locale ? risultata particolarmente bassa nel sottotipo luminale A, ma ? stata inferiore al 10% a 5 anni per tutti i sottotipi.

Nguyen PL et al, J Clin Oncol 2008; 26: 2373-2378

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Tumore al seno: il trattamento con Arimidex ? associato a perdita ossea a 5 anni

2 Set 2009 Oncologia

Lo studio ATAC (Arimidex, Tamoxifen, Alone or in Combination ), con un follow-up mediano di 68 mesi, ha mostrato che l?Anastrozolo ( Arimidex ) ha una maggiore efficacia e una migliore tollerabilit? rispetto al Tamoxifene ( Nolvadex ).

Tuttavia, l?Anastrozolo riduce i livelli di estrogeno in circolo, e bassi livelli di estradiolo sono associati a una diminuzione della densit? minerale ossea e a un aumento del rischio di fratture.
? dunque importante conoscere gli effetti a lungo termine della terapia a base di inibitori dell?aromatasi sulla densit? minerale ossea.

Utilizzando i dati di un sottostudio dello studio ATAC, sono stati valutati i cambiamenti di densit? minerale ossea in donne in postmenopausa con tumore invasivo del seno in trattamento con Anastrozolo ( 1 mg/giorno ) o Tamoxifene ( 20 mg/giorno ) come terapia adiuvante per 5 anni.
La densit? minerale ossea della colonna lombare e dell?anca sono state valutate a livello basale e dopo 1, 2 e 5 anni.

Questo sottostudio sulla densit? ossea ha interessato 197 donne del braccio monoterapia dello studio ATAC, e 108 sono state incluse nell?analisi primaria.

Tra le pazienti trattate con Anastrozolo si ? verificata una diminuzione della densit? minerale ossea mediana dal basale a 5 anni a livello della colonna lombare ( – 6,8% ) e dell?anca ( – 7,24% ), rispetto al gruppo Tamoxifene ( colonna lombare: +2,77%, anca: +0,74% ).
Nessuna delle pazienti con densit? minerale ossea normale al basale ? diventata osteoporotica dopo 5 anni.

In conclusione, l?Anastrozolo ? associato a una demineralizzazione ossea accelerata lungo un periodo di trattamento di 5 anni.
Tuttavia, nonostante le pazienti con preesistente osteopenia richiedano strategie di controllo e di protezione ossea, per quelle con densit? minerale ossea normale non sembra essere necessario un monitoraggio ulteriore rispetto alle indicazioni fornite alle donne sane in postmenopausa.
Nello studio ATAC l?effetto dell?Anastrozolo dovrebbe essere valutato in rapporto alla sua superiorit? in termini di efficacia e di tollerabilit? rispetto al Tamoxifene.

Eastell R et al, J Clin Oncol 2008; 26: 1051-1057

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Chirurgia non-cardiaca: nessuna evidenza a supporto dell?uso perioperatorio dei

Le linee guida dell?American College of Cardiology ( ACC ) e dell?American Heart Association ( AHA ) raccomandano l?impiego perioperatorio dei beta-bloccanti per gli interventi chirurgici non cardiaci, sebbene i risultati di alcuni studi clinici non sembrino essere a supporto di questa raccomandazione.

? stata compiuta una revisione della letteratura con l?obiettivo di valutare l?impiego perioperatorio dei beta-bloccanti nei pazienti sottoposti a chirurgia non-cardiaca.

Sono stati individuati 33 studi clinici, che hanno incluso 12.306 pazienti.

I beta-bloccanti non sono risultati associati a nessuna significativa riduzione del rischio di mortalit? totale, mortalit? cardiovascolare o insufficienza cardiaca, ma sono risultati associati a una riduzione ( odds ratio, OR=0.65 ) dell?infarto miocardico non-fatale ( numero di pazienti necessario da trattare per prevenire 1 evento, NNT=63 ) e a una riduzione ( OR=0.36 ) nell?ischemia miocardica ( NNT=16 ) a scapito di un aumento ( OR=2.01 ) negli ictus non-fatali ( numero necessario per il danno, NNH=293 ).

Gli effetti benefici dei beta-bloccanti sono emersi principalmente da studi clinici ad alto rischio di bias.

Riguardo alla sicurezza, i beta-bloccanti erano associati a un alto rischio di bradicardia perioperatoria richiedente trattamento ( NNH=22 ) e ipotensione perioperatoria richiedente trattamento ( NNH=17 ).
Non ? stato riscontrato nessun aumento del rischio di broncospasmo.

In conclusione, l?evidenza non fornisce elementi a supporto della terapia con beta-bloccanti nella prevenzione degli outcome ( esiti ) clinici perioperatori nei pazienti sottoposti a chirurgia non-cardiaca.

Bangalore S et al, Lancet 2008; 372: 1962-1972

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Rischio di tromboembolia venosa ricorrente e difetti trombofilici durante la ter

Uno studio ha valutato se i difetti trombofilici fossero in grado di aumentare la tromboembolia venosa ricorrente durante terapia con Warfarin ( Coumadin ).

Un totale di 661 pazienti con tromboembolia venosa non-provocata che erano stati assegnati in modo casuale a terapia anticoagulante a bassa intensit? ( INR: 1.5-1.9 ) o a intensit? convenzionale ( INR: 2-3 ), sono stati esaminati per la trombofilia.

Il periodo osservazionale ? stato di 2-3 anni.

Uno o pi? difetti trombofilici erano presenti nel 42% dei pazienti.

La percentuale generale di tromboembolia venosa ricorrente ? stata pari allo 0,9% per paziente ? anno.

La tromboembolia venosa ricorrente non ? aumentata in presenza del fattore VI di Leiden ( hazard ratio, HR=0.7 ); della mutazione 202109>A nel gene della prototrombina ( HR=0 ), deficienza di protrombina ( HR=0 ), elevato fattore XI ( HR=0.7 ) o elevati livelli di omocisteina (HR=0.7); ? stato invece osservato un trend verso un aumento con un anticorpo antifosfolipide ( HR=2.9 ).

Rispetto ai pazienti con nessun difetto trombofilico, la percentuale di recidiva non ? aumentata in presenza di uno ( HR=0.7 ) o pi? di un difetto ( HR=0.7 ).

In conclusione, i difetti trombofilici singoli o multipli non sono associati a pi? alto rischio di tromboembolia venosa ricorrente durante terapia con Warfarin.

Kearon C et al, Blood 2008; 112: 4432-4436

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Mammografia: danni e benefici

Attualmente le informazioni che il pubblico riceve sullo screening mammografico non sono bilanciate: i potenziali benefici sono eccessivamente enfatizzati, e i potenziali rischi raramente vengono discussi. La procedura, iniziata intorno ai 50 anni di et?, salva 1,8 vite ogni 1.000 donne nell’arco di 15 anni. Il rischio assoluto di decesso da tumore mammario senza alcun tipo di screening ammonta all’1% nello stesso periodo di tempo, il che significa che la percentuale di sopravvivenza nelle donne fra i 50 ed i 60 anni non sottoposte a screening ? del 99%. Questi dati statistici sulla mammografia sono in netto contrasto con quanto si pubblicizza su questa forma di screening, in base a cui la mammografia “salva la vita”. ? necessaria una presentazione equilibrata dei fatti alla paziente, il che includerebbe far menzione dei benefici assoluti associati allo screening e la discussione dei potenziali rischi, come falsi positivi, ansia, biopsie non necessarie e overdiagnosi, cosa che oggi non accade. ? ovvio che il principio dello screening consista proprio nell’applicare un intervento a un gran numero di soggetti sani per fare in modo di beneficiare i pochi che hanno la sfortuna di sviluppare la malattia, ma ? giusto che il pubblico conosca le reali statistiche relative alla procedura in modo da prendere decisioni informate sulla propria partecipazione.
BMC Med Inform Decis Mak 2009; 9: 18, 19 e 20

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