Cefalea – linee guida per la pratica clinica

Raccomandazioni per la diagnosi precoce e terapie efficaci

La cefalea rappresenta la malattia neurologica a più elevata prevalenza al mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inserito la cefalea tra le 20 patologie più invalidanti per le donne di età compresa tra i 15 e 45 anni. La cefalea rappresenta il motivo del 5% delle visite dal medico di medicina generale (MMG) e il 30% delle visite specialistiche neurologiche. In Italia circa 7 milioni di persone soffrono di emicrania e i suoi costi sanitari diretti e indiretti sono stimabili in circa 6 miliardi di euro all’anno. Questo scenario impone una corretta e precoce individuazione dei soggetti e un trattamento appropriato. L’aggiornamento dello specialista che si confronta con questa patologia, e la formazione del MMG nel riconoscere e trattare precocemente l’emicrania sono tra gli obiettivi principali delle linee guida AGE.NA.S. per la prevenzione e terapia della cefalea nell’adulto1 .

Una corretta diagnosi di cefalea si basa su un’anamnesi accurata che deve considerare: frequenza e durata degli attacchi, tipo di dolore, Intensità della cefalea, presenza e tipologia dei sintomi associati al dolore o che possono precederlo, descrizione del comportamento nel corso dell’attacco, disabilità durante gli attacchi, impatto sulla qualità vita. Le raccomandazioni in fase diagnostica orientano il medico a:

  • promuovere l’uso dei diari e questionari di valutazione per supportare la diagnosi e la gestione della cefalea
  • non ricorrere alle neuro‐immagini nei pazienti con una chiara storia di emicrania, senza sintomi di allarme che orientano verso una cefalea secondaria e con un esame neurologico normale
  • eseguire una TC cerebrale immediatamente e comunque entro 12 ore dall’esordio dei sintomi in pazienti con cefalea a rombo di tuono
  • eseguire una rachicentesi nei pazienti con cefalea a rombo di tuono con TC cerebrale normale
  • escludere la cefalea associata ad uso eccessivo di analgesici, in particolare in tutti i pazienti con cefalea cronica quotidiana (cefalea da più di 15 gg /mese da più di 3 mesi)
  • considerare il potenziale rischio di cefalea da uso eccessivo di analgesici in particolare in pazienti con emicrania, cefalea ad alta frequenza e nei soggetti che utilizzano associazioni analgesiche, ergot, combinazioni analgesiche contenenti oppioidi e triptani.

L’obiettivo primario di una terapia sintomatica dell’attacco acuto è ridurre l’intensità del dolore e dei sintomi associati e, se possibile, bloccare completamente l’attacco in tempi brevi in modo di permettere al paziente la ripresa delle attività quotidiane. Esistono varie classi di farmaci da utilizzare: FANS/ analgesici e prodotti di combinazione (farmaci aspecifici); ergotaminici e triptani (farmaci specifici per l’emicrania).

Ancora oggi i FANS sono tra i farmaci più utilizzati nell’attacco acuto. Acido acetilsalicilico, ibuprofene e paracetamolo sono farmaci economici, molto diffusi come prodotti da banco, e rappresentano una buona opzione per un trattamento di prima linea. Però non va dimenticato che i FANS hanno effetti collaterali anche seri e controindicazioni che ne limitano l’uso in particolari sottogruppi di pazienti. L’acido acetilsalicilico e l’ibuprofene devono essere usati con cautela in pazienti con asma e ulcera peptica. Alcuni soggetti rispondono all’indometacina (25‐100 mg per os o per via rettale; 50 mg i.m.) oppure alla nimesulide, ma per l’uso di questi farmaci non esiste una chiara evidenza da studi controllati, così come un’associazione comunemente utilizzata di indometacina con caffeina e proclorperazina. L’efficacia dell’acido acetilsalicilico 1000 mg è simile a sumatriptan 50 mg o 100 mg nel trattamento acuto dell’emicrania, ma con effetti collaterali significativamente più elevati del placebo, la sua associazione con metoclopramide 10 mg ne aumenta l’efficacia su nausea e vomito. Alcuni FANS sono in commercio in associazione con caffeina, butalbital o codeina. Queste associazioni sono sconsigliate per il rischio di maggiori effetti collaterali e per l’alta probabilità di indurre assuefazione e/o cronicizzazione della cefalea.

Gli ergotaminici sono ormai una classe di farmaci in disuso e soppiantata dai triptani. Non sono raccomandati, anche se sono farmaci ad azione antiemicranica specifica, per gli effetti collaterali e i potenziali rischi collegati al loro uso cronico (ergotismo).

Non è raccomandato l’impiego degli analgesici oppioidi di routine per il trattamento dei pazienti con emicrania acuta a causa del potenziale sviluppo di una cefalea da abuso. Il Tramadolo 100 mg ev, è risultato efficace per il sollievo dal dolore ad 1 h, ma non per ottenere l’assenza totale di dolore ad 1 h nel trattamento acuto dell’attacco, e non sono state identificate evidenze sull’efficacia degli oppioidi, così come sono assenti per COX2 inibitori, corticosteroidi e indometacina.

I triptani, agonisti dei recettori per la serotonina di tipo 5‐HT1B/D, rappresentano la principale classe di farmaci specifici per l’emicrania in grado di interferire con i meccanismi fisiopatogenetici dell’attacco. Sono raccomandati per il trattamento acuto di emicrania di tutti gradi di severità, se in precedenza gli attacchi non sono stati controllati con semplici analgesici. Sono caratterizzati dal più favorevole profilo rischio/beneficio tra i farmaci sintomatici disponibili. Nella classe dei triptani orali sono preferibili per il trattamento acuto dell’emicrania: Almotriptan 12.5 mg, Eletriptan 40‐80 mg, Frovatriptan 2,5 mg e Rizatriptan 10 mg e Sumatriptan 100 mg. In caso di mancata risposta ad un triptano si dovrebbe passare ad un triptano alternativo. Evidenze scientifiche recenti dimostrano che la somministrazione precoce dei triptani può incrementare la loro efficacia, in particolare rizatriptan 10 mg migliora gli esiti dell’assenza di dolore a 2 h e l’assenza di dolore sostenuta nel tempo, nelle 24 h e almotriptan 12,5 mg, in trattamento precoce, migliora gli esiti primari e secondari rispetto al trattamento tradizionale.

La terapia di profilassi, o preventiva, va riservata ai pazienti con forme emicraniche più importanti, ossia con più di 4 attacchi di emicrania/mese. In questi pazienti è necessario un follow up continuo e regolare con l’utilizzo del diario delle cefalee per una valutazione appropriata di efficacia. I farmaci per la profilassi con evidenze disponibili appartengono a diverse classi faramcologiche (beta bloccanti, antiepilettici, calcio antagonisti e antidepressivi). Tra i betabloccanti il propranololo 40‐120 mg al giorno è indicato in terapia di prima linea per la profilassi dell’emicrania. In alternativa possono esser utilizzati timololo, atenolo, nadololo e metoprololo. Il nebivololo 5 mg è da considerare come alternativa al metoprololo. Tra gli antiepilettici il topiramato è raccomandato a dosi di 75‐200mg/die per la riduzione della frequenza e della severità dell’emicrania in pazienti con emicrania episodica e cronica, così come il valproato di sodio alla dose di 800‐1500 mg al giorno. Per l’impiego degli antiepilettici in donne in età riproduttiva occorre fornire alla paziente un’informazione dettagliata sugli effetti potenzialmente teratogenici di questi farmaci. Tra gli antidepressivi è raccomandata l’amitriptilina alla dose di 25‐150 mg/die.

L’impiego clinico di uno strumento di valutazione chiamato MIDAS (Migraine Disability Assessment) orienta sull’efficacia delle strategie di trattamento. Nella terapia sintomatica dell’emicrania spesso viene impiegato un approccio di “terapia a gradini” (stepped care ) per arrivare, per tentativi successivi, ma con ritardo alla terapia più efficace. In queste linee guida viene proposta una strategia di “terapia stratificata” (stratified care ) che si basa sulla scelta del trattamento più adatto per ogni singolo paziente fin dalla prima visita, e che considera il livello di gravità della cefalea. I pazienti con sintomi più lievi e con grado di disabilità basso ricevono terapie meno potenti, mentre a quelli con attacchi gravi e importanti disabilità vengono prescritti i triptani. Il principale vantaggio della stratified care rispetto alla stepped care è quello di poter trattare in modo adeguato i pazienti con forme emicraniche più gravi, evitando “ritardi” dovuti alla necessità di visite ripetute che aumentano il rischio di perdere il paziente in follow up, alimentando la delusione e un atteggiamento di rinuncia, che porterà il paziente a non ritornare dal medico e indurlo a ”catastrofici” atteggiamenti autoprescrittivi.

Bibliografia

  1. Cefalea nell’adulto ‐ Linee guida nazionali di riferimento per la prevenzione e la terapia 2011 age.na.s http://www.agenas.it/agenas_pdf/Cefalea%20nell’adulto%20.pdf

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Infliximab per la depressione resistente al trattamento

Context Increased concentrations of inflammatory biomarkers predict antidepressant nonresponse, and inflammatory cytokines can sabotage and circumvent the mechanisms of action of conventional antidepressants.

Objectives To determine whether inhibition of the inflammatory cytokine tumor necrosis factor (TNF) reduces depressive symptoms in patients with treatment‑resistant depression and whether an increase in baseline plasma inflammatory biomarkers, including high‑sensitivity C‑reactive protein (hs‑CRP), TNF, and its soluble receptors, predicts treatment response.

Design Double‑blind, placebo‑controlled, randomized clinical trial.

Setting Outpatient infusion center at Emory University in Atlanta, Georgia.

Participants A total of 60 medically stable outpatients with major depression who were either on a consistent antidepressant regimen (n = 37) or medication‑free (n = 23) for 4 weeks or more and who were moderately resistant to treatment as determined by the Massachusetts General Hospital Staging method.

Interventions Three infusions of the TNF antagonist infliximab (5 mg/kg) (n = 30) or placebo (n = 30) at baseline and weeks 2 and 6 of a 12‑week trial.

Main Outcome Measures The 17‑item Hamilton Scale for Depression (HAM‑D) scores.

Results No overall difference in change of HAM‑D scores between treatment groups across time was found. However, there was a significant interaction between treatment, time, and log baseline hs‑CRP concentration (P = .01), with change in HAM‑D scores (baseline to week 12) favoring infliximab‑treated patients at a baseline hs‑CRP concentration greater than 5 mg/L and favoring placebo‑treated patients at a baseline hs‑CRP concentration of 5 mg/L or less. Exploratory analyses focusing on patients with a baseline hs‑CRP concentration greater than 5 mg/L revealed a treatment response (≥50% reduction in HAM‑D score at any point during treatment) of 62% (8 of 13 patients) in infliximab‑treated patients vs 33% (3 of 9 patients) in placebo‑treated patients (P = .19). Baseline concentrations of TNF and its soluble receptors were significantly higher in infliximab‑treated responders vs nonresponders (P < .05), and infliximab‑treated responders exhibited significantly greater decreases in hs‑CRP from baseline to week 12 compared with placebo‑treated responders (P < .01). Dropouts and adverse events were limited and did not differ between groups.

Conclusions This proof‑of‑concept study suggests that TNF antagonism does not have generalized efficacy in treatment‑resistant depression but may improve depressive symptoms in patients with high baseline inflammatory biomarkers.

Trial Registration clinicaltrials.gov Identifier: NCT00463580, http://clinicaltrials.gov/show/NCT00463580. 

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Stress percepito e infarto del miocardio

22 Mar 2013 Cardiologia

Uno stress percepito di livello da moderato a elevato nei pazienti che subiscono un infarto acuto del miocardio (acute myocardial infarction, AMI) è associato a outcome molto negativi nel lungo periodo. Lo rivela uno studio pubblicato dal Journal of the American College of Cardiology.

Si ritiene che lo stress cronico contribuisca allo sviluppo e alla progressione delle patologie cardiovascolari e ai tassi di decessi cardiovascolari. Il meccanismo alla base di tale associazione è di natura complessa e include fattori comportamentali (fumo, sedentarietà, obesità, mancanza di aderenza alle terapie farmacologiche) e fisiologici (ipertensione, aritmie, insulinoresistenza, disfunzione endoteliale, aumento dell’aggregazione piastrinica). Numerosi sono stati quindi gli studi su stress e salute cardiovascolare: sono pochi però i trial che hanno valutato l’impatto negativo dello stress cronico sui pazienti reduci da un AMI.

Per chiarire l’associazione tra stress cronico percepito (validato mediantela Perceived StressScale-4, PSS, che va da0 a16), outcome clinici e mortalità, i ricercatori della Washington University di St. Louis coordinati da Suzanne V. Arnold hanno preso in esame una coorte di 4204 pazienti (età media 59 anni) colpiti da infarto acuto del miocardio ricoverati tra 2005 e2008 in24 ospedali statunitensi e arruolati nello studio TRIUMPH (Translational Research Investigating Underlying disparities in acute Myocardial infarction Patients’ Health status). In tutti i pazienti erano presenti evidenza da biomarker di necrosi del miocardio, diagnosi di AMI, sintomi ischemici prolungati (≥20 min) o cambiamenti del tratto ST nelle prime 24 ore di ricovero. Di questi 4204 pazienti, 1622 (38,6%) avevano mostrato livelli di stress percepito da moderati a elevati nelle 4 settimane precedenti l’AMI (score da6 a16). Tra quelli con i livelli di stress percepito più elevati sono risultati più numerosi i pazienti giovani, di sesso femminile, non coniugati, non caucasici, con scarso supporto sociale e bassa scolarizzazione, con ipertensione, diabete, depressione, obesità e abitudine al fumo. Dopo un follow-up di 1 anno lo stato di salute dei pazienti in vita è stato monitorato mediante Seattle Angina Questionnaire, Short Form-12 ed EuroQol Visual Analog Scale.

Nei 2 anni successivi alla dimissione 432 pazienti (10,3%) sono deceduti e i pazienti con stress percepito da moderato a lieve hanno mostrato tassi di mortalità più elevati rispetto agli altri (12,9% vs. 8,6%; log-rank test, p < 0,001). I livelli di stress percepito nei 2 anni successivi all’evento cardiaco sono risultati associati ad un aumento del rischio di morte (hazard ratio: 1,79; 95% CI da1,48 a2,16; p < 0,001). Livelli di stress da moderato a elevato sono risultati associati poi a peggiori outcome dopo 1 anno di follow-up: peggioramento dell’angina (95% CI: da1,14 a1,75; p = 0,001), peggiore qualità di vita, peggiore status psicofisico.

Spiegala Arnold: “Saranno studi futuri a dimostrarci se nuovi interventi mirati a ridurre lo stress cronico potrebbero avere un impatto positivo sugli outcome clinici post-AMI”.

▼ArnoldSV, Smolderen KG, Buchanan DM, Li Y, Spertus JA. Perceived Stress in Myocardial InfarctionLong-Term Mortality and Health Status Outcomes. J Am Coll Cardiol 2012;60(18):1756-1763 doi:10.1016/j.jacc.2012.06.044 

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Nel cervello scoperto nuovo centro della paura

Scoperto nel cervello un nuovo centro della paura, diverso rispetto all’amigdala, l’area cerebrale a forma di mandorla nota per registrare i timori legati a pericoli esterni. Secondo gli studiosi dell’University of Iowa, dunque, altre regioni – come la corteccia insulare – possono percepire i segnali di un pericolo interno, che minaccia la stessa vita, scatenando il panico. Lo studio, pubblicato su ‘Nature Neuroscience’ dal team di John Wemmie, è stato condotto attraverso alcuni test condotti su tre donne con danni significativi all’amigdala, fra cui anche la celebre ‘SM’, una paziente di 40 anni ‘ribattezzata’ dagli scienziati la donna senza paura perchè, a causa della malattia di Urbach-Wiethe che le ha lesionato quest’area cerebrale, non prova questa sensazione fin da quando era adolescente.

Quando i ricercatori hanno fatto respirare alle tre pazienti aria ricca di Co2, tutte hanno sperimentato una sensazione di panico e hanno chiesto aiuto, perchè temevano di soffocare. “Questa ricerca ci dice che il panico, o la paura intensa, viene indotto da qualche parte al di fuori dell’amigdala”, dice Wemmie, secondo il quale la ricerca potrebbe far luce sul perchè alcune persone soffrono di attacchi di panico. Ebbene, quando i ricercatori hanno ripetuto il test su 12 soggetti sani, solo tre di loro hanno provato sensazioni di panico analoghe a quelle delle ‘donne senza paura’. Questo ha suggerito ai neurologi che, se l’amigdala funziona bene, normalmente può inibire il panico dovuto a stimoli interni. 

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Trattamento dell’osteoporosi: l’acido ibandronico (Bonviva) tra i farmaci più consigliati dagli specialisti del settore

19 Mar 2013 Ortopedia

I Bisfosfonati, sono considerati i farmaci di prima scelta nel trattamento dell’osteoporosi e nella prevenzione del rischio di fratture ossee. Diversi studi pubblicati su riviste internazionali hanno valutato l’efficacia terapeutica e i vantaggi di impiego di questi farmaci nelle patologie osteoporotiche frequenti soprattutto nel periodo post-menopausale, quando tendono a ridursi i livelli dell’ormone femminile estrogeno. L’acido ibandronico, è un bisfosfonato che  agisce inibendo l’azione degli osteoclasti responsabili della decomposizione del tessuto osseo

L’efficacia è stata valutata in uno studio clinico nel quale sono state arruolate 3.000 donne affette da osteoporosi ed è stato osservato il numero di fratture riportate dalle pazienti nell’arco di tre anni.  Nelle pazienti trattate con l’acido ibandronico si è osservata  una riduzione del 62% del rischio di fratture vertebrali rispetto a quanto osservato con il placebo1,2.
Altri studi hanno inoltre dimostrato che il farmaco garantisce una miglior aderenza (in termini sia di persistenza che di compliance) rispetto a risedronato settimanale e ranelato di stronzio giornaliero3e incrementa i valori di BMD della colonna vertebrale e del femore totale4.

L’acido ibandronico disponibile commercialmente con il nome di Bonviva compresse (150 mg) o soluzione iniettabile (3 mg) è per  efficacia a lungo termine e aderenza nella terapia dell’osteoporosi1,5 uno dei farmaci più consigliati dagli specialisti del settore. Da oggi, è disponibile sul mercato farmaceutico con un prezzo più basso la formulazione in compresse (da €41,52a €21,60), offrendo un nuovo vantaggio che si aggiunge al profilo di efficacia: il rapporto qualità prezzo

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Francia, al bando l’antiacne Diane 35 usato come contraccettivo: sette morti e 125 casi di trombosi. Bloccato anche il generico

La Francia ha deciso di mettere al bando la Diane 35, nata come anti-acne ma usata anche come contraccettivo, perché aumenta il rischio di trombosi e embolie polmonari. Secondo le autorità sanitarie transalpine i rischi per le donne che la prendono sono troppo elevati, quindi ne saranno vietate la vendita e la prescrizione, e tutti gli stock verranno ritirati dalle farmacie. Il divieto sarà effettivo tra tre mesi e riguarderà anche i generici equivalenti.

Il farmaco è in vendita anche in Italia ma può essere prescritta solo come pillola anti-acne. Ma per  il momento nel nostro Paese non dovrebbero essere prese decisioni riguardo la pillola. La questione sara’ infatti trattata nella prossima riunione del Comitato Prac (l’organismo dell’Agenzia Europea che si occupa di valutare i rischi e di raccogliere dati sulla farmacovigilanza) a Londra dal 4 al 7 febbraio e solo dopo eventualmente l’Agenzia Europea sui farmaci esprimera’ una posizione attesa dalle Agenzie nazionali del farmaco come l’Aifa in Italia. Nel nostro paese il farmaco puo’ essere dispensato con una ricetta medica non ripetibile per curare forme di acne, in particolare quelle accompagnate da stati infiammatori. Il rischio di trombosi venosa con il medicinale e’ descritto anche nel foglio illustrativo e nel riassunto delle caratteristiche del prodotto destinato al medico. Nelle indicazioni sul foglietto viene anche precisato che la pillola non puo’ essere utilizzata a soli fini contraccettivi, come impropriamente avvenuto in alcuni paesi.

Decessi misteriori. E’ la morte sospetta di quattro pazienti ad aver spinto l’Agenzia di Sicurezza del Farmaco (ANSM) a prendere la decisione categorica di bloccare il farmco in Francia.  Il quotidiano Le Figaro, che ha avuto accesso a documenti medici, ha citato sette casi mortali, ma almeno altre 125 trombosi non mortali sono di sicuro legate all’uso della pillola incriminata dal 1987 ad oggi, da quando cioè è entrata in commercio. La pillola messa oggi all’indice era nata come farmaco per combattere l’acne severa, ma la presenza di ormoni (un mix di estrogeni e un progestativo, il ciproterone) ne ha esteso l’uso a contraccettivo. Sono ancora 315 mila (dati del 2012) le donne in Francia che la prendono dunque anche per evitare gravidanze indesiderate. Il direttore generale dell’ANSM, Dominique Maraninchi, ha consigliato loro di non interrompere il trattamento in modo brusco, ma di consultare il medico al più presto. Hanno tre mesi di tempo, dopo di che tutte le confezioni di Diane 35 e dei suoi generici spariranno dalle farmacie. Di fronte alla polemica il colosso tedesco Bayer, che produce la Diane, si è detto ”sorpreso”, e ha sottolineato in una nota che la medicina in questione ”non è mai stata oggetto di ritiro di autorizzazione di messa in vendita per motivi di sicurezza” nei Paesi in cui è commercializzato. Ma sulla responsabilità di Bayer resta ancora un punto interrogativo. E’ da notare infatti che una legge, votata in Francia nel 2011 (la legge Bertrand), obbliga i laboratori a ricordare ai medici le indicazioni per cui il farmaco prodotto deve essere prescritto. E sono tenuti a farlo ogni qualvolta vengono registrate irregolarità. La Diane non è però l’unica pillola sotto i riflettori in questi giorni: sono tutte i contraccettivi orali di 3/a e 4/a generazione ad essere messe sotto accusa per via di un rischio elevato di formazione di trombi, pericolosi grumi di sangue che ostruiscono le vene, anche se l’Ema ci va cauta. L’Europa ha aperto un’indagine, e in l’ansia Francia comincia a diventare palpabile. Ogni giorno consultori familiari e studi specialistici sono sommersi da chiamate allarmate. Non c’è tregua al numero verde attivato poche settimane fa. Angoscia e sospetti hanno già spinto molte donne ad interrompere il trattamento, secondo la Federazione farmaceutica francese.

Il parere di Garattini. Sara’ l’Ema, agenzia europea dei farmaci, a dovere ora dire la sua sulla pillola anti-acne bloccata in Francia. Il farmaco, presente anche in Italia e’ utilizzabile solo come anti acne e non come anticoncezionale, conferma l’azienda Bayer che la produce. L’uso improprio ha riguardato altri paesi come la Francia. Silvio Garattini ricorda che il rischio era noto, l’Ema aveva gia’ aperto un’indagine in proposito. ”Le pillole di terza e quarta generazione sono sotto accusa per i problemi di trombosi per i progestinici che fanno parte integrante della capacita’ di bloccare l’ovulazione. Il rischio comunque, che la si usi per uno scopo o per un altro, e’ sempre quello”. La decisione della Francia sara’ quindi ora sottoposta ad arbitrato da parte dell’agenzia europea ma gli stati membri potranno comunque eventualmente decidere di prendere una misura di cautela. ”Anche se la questione era sul tappeto da diverso tempo – ha concluso Garattini – purtroppo non si fanno studi comparativi che per capire meglio i rischi”

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Aumentano i casi di tumore al seno tra le più giovani

19 Mar 2013 Oncologia

Aumentano i casi di tumore del seno in donne giovani tra i 25 ed i 39 anni, e si impennano addirittura del triplo i casi nella stessa fascia di eta’ di cancro gia’ con metastasi, in stadio avanzato: a lanciare l’allarme e’ un nuovo studio Usa pubblicato sulla rivista dei medici americani Jama.  L’aumento – spiega l’indagine condotta da Rebecca Johnson dell’universita’ di Washington a Seattle – si e’ registrato costantemente negli ultimi 34 anni, dal 1973 al 2009, con un nuovo picco tra il 2000 ed il 2009.

E la scienza non sa spiegarsi quali siano i fattori scatenanti.  Analizzando i dati raccolti dal National Cancer Institute, gli studiosi hanno osservato che l’incidenza del tumore del seno tra le donne tra 25 ed i 39 anni e’ salito di circa il 2.09% l’anno, con un aumento dei casi del 3.6% l’anno dall’inizio del secolo.  Ancora piu’ grave il dato sui casi gia’ con metastasi, ossia in cui il tumore al momento della diagnosi ha gia’ raggiunto altri organi: per le giovani tra i 25 ed i 39 anni questi casi sono addirittura triplicati tra il 1973 ed il 2009.  ”Nel 1975 questi casi erano circa 250 l’anno, oggi sono almeno 800”, ha spiegato Johnson.  Lo stesso trend non si registra invece tra le donne piu’ anziane.  ”Siamo di fronte ad un grave problema – spiega il rapporto – in quanto usualmente non sottoponiamo a mammografie le donne prima dei 40 anni a meno che ci sia una forte storia familiare del tumore o una mutazione genica”.

Fonte: Jama

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Epatite da trasfusione, maxi risarcimento agli eredi

Il tribunale di Palermo ha condannato il ministero della Salute a risarcire il danno di 1.438.365 euro nei confronti degli eredi di una donna agrigentina che in seguito a trasfusione, praticatale nel 1988 in un ospedale di Firenze, contrasse il virus dell’epatite C, successivamente evolutosi in tumore al fegato che ne ha determinato la morte a soli 50 anni. Le due figlie della donna, rappresentate dai legali Angelo Farruggia ed Annalisa Russello del foro di Agrigento, hanno intrapreso una causa civile contro il ministero della Salute, ritenuto responsabile di non avere adeguatamente assolto il compito di vigilare sulla raccolta e sulla distribuzione del sangue e degli emoderivati da destinare alle trasfusioni.

 Il ministero, assistito dall’Avvocatura dello Stato, si e’ difeso – secondo quanto viene reso noto dagli avvocati Farruggia e Russello – sostenendo che in capo al ministero non poteva riconoscersi alcuna colpa, visto che all’epoca della trasfusione il virus dell’Epatite C non era stato ancora classificato.  Il tribunale di Palermo, accogliendo la diversa tesi sostenuta dai legali dei danneggiati, ha, invece, condannato il ministero della Salute. Farruggia, nel commentare la sentenza ed esprimere la sua soddisfazione per il risultato conseguito, evidenzia che ”in Italia si contano almeno 1.600.000 contagiati da HCV e il costo in termini di vite umane per le cirrosi da HBV o HCV e le sue complicanze, e’ di circa 12 mila persone all’anno, con un incidenza della infezione molto piu’ elevata al Sud. Si tratta, dunque, – conclude – di un’epidemia silenziosa che spesso, dopo avere inflitto gravi afflizioni in vita, conduce alla morte”.

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Impiego di steroidi nella radicolopatia cronica, i risultati di uno studio multicentrico, randomizzato

La radicolopatia, condizione clinica caratterizzata da compressione dei nervi nella spina dorsale, si manifesta con dolore, intorpidimento, formicoli, debolezza lungo il decorso del nervo. L’attuale scelta terapeutica deve basarsi su una meditata valutazione interdisciplinare (ortopedica, neurochirurgica, neurofisiologica, fisiatrica) dei dati clinici e strumentali, non tralasciando considerazioni sullo stato generale del paziente e la sua età.

Uno studio multicentrico ha valutato l’efficacia dell’iniezione epidurale caudale di steroidi o soluzione salina nella forma cronica della patologia a breve ( 6 settimane ), intermedio ( 12 settimane ) e lungo termine ( 52 settimane ). Sono stati esclusi dallo studio i soggetti con sindrome della cauda equina, grave paresi, dolore grave, precedente iniezione o chirurgia vertebrale, deformità, gravidanza, allattamento terapia con Warfarin, o con farmaci anti-infiammatori non steroidei, indice di massa corporea maggiore di 30, condizioni psichiatriche non ben controllate. I risultati hanno mostrato un miglioramento non significativo, in tutti i gruppi di trattamento per cui le iniezioni epidurali caudali di steroidi o di soluzione salina non sono raccomandate nella radicolopatia cronica.
 

 

Bibliografia: Iversen T, Solberg TK, Romner B, Wilsgaard T, Twisk J, Anke A, Nygaard O, Hasvold T, Ingebrigtsen T. Effect of caudal epidural steroid or saline injection in chronic lumbar radiculopathy: multicentre, blinded, randomised controlled trial. BMJ. 2011 Sep 13;343:d5278. doi: 10.1136/bmj.d5278

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Presto anche in Italia. A dicembre il piano nazionale antiepatiti

Agisce con un’azione di ‘bersaglio’ sul virus dell’epatite C (hcv), raddoppiando e addirittura triplicando la percentuale di guarigione dei pazienti: un passo avanti di grandissima importanza poiché, rilevano gli esperti, in questo modo si apre la strada all’eradicazione definitiva del virus. Il nuovo farmaco antivirale di ultima generazione (boceprevir) arriverà presto in Italia, dopo aver ottenuto il via libera da parte dell’Agenzia italiano del farmaco (Aifa). L’annuncio arriva dal 63/mo Congresso mondiale dell’Associazione americana per lo studio delle malattie del fegato (Aasld) in corso a Boston.

Si attende ora l’istituzione dei registri di monitoraggio per l’utilizzo del farmaco da parte dell’Aifa, prevista a breve.  Una nuova ‘arma’, con un vantaggio ulteriore: la potenza antivirale di boceprevir riesce a negativizzare il virus anche nelle donne in menopausa, nelle quali è maggiore l’accelerazione della patologia e più rapida l’insorgenza di una resistenza irreversibile alla terapia standard. L’epatite C è la più insidiosa malattia del fegato, che nel mondo colpisce due persone ogni ora, circa 2 mln in Italia, e rappresenta la prima causa di decesso per malattie infettive trasmissibili. Con questo farmaco, l’obiettivo di eradicare completamente un virus temibile, commentano gli esperti, appare oggi più vicino. Analogamente a quello dell’epatite b, il virus dell’epatite c può cronicizzare nel 60-70% dei casi e chi diventa portatore cronico è esposto a gravi danni epatici, come sottolinea Antonio Gasbarrini, gastroenterologo dell’università Cattolica di Roma e presidente della Fondazione italiana ricerca in epatologia (Fire): ”Solo il 15-20% dei pazienti che vengono in contatto col virus – spiega – riescono a guarire dall’infezione spontaneamente, mentre la maggioranza evolve in un’infezione cronica. In questo caso l’organismo può convivere per molti anni col virus, che però in maniera subdola nel 20-30% dei casi può arrivare a causare una malattia del fegato severa, come la cirrosi e il cancro”. Risultato efficace contro l’hcv di genotipo 1, il più temibile, perché rappresenta il 60% delle infezioni globali ed è più refrattario ai trattamenti, boceprevir, aggiunto alla terapia standard con interferone e ribavirina, riesce a raddoppiare e addirittura triplicare la percentuale di guarigione dei pazienti, arrivando al 67% nei soggetti che avevano ricevuto il farmaco per 44 settimane. ”Questo farmaco agisce diversamente dalle terapie standard che potenziano il sistema immunitario e ad esso delegano la risposta antivirale – chiarisce Savino Bruno, direttore della struttura complessa di medicina interna a indirizzo epatologico presso l’ospedale Fatebenefratelli di Milano -. Boceprevir, infatti, aggredisce il virus hcv con un’azione diretta, inattivando le proteasi, gli enzimi che consentono all’hcv, una volta entrato nell’organismo, di replicarsi all’interno delle cellule epatiche. il blocco enzimatico inibisce la replicazione virale e l’eradicazione, una volta raggiunta, è definitiva”. Grande, dati i risultati di efficacia, l’attesa dei pazienti italiani: ”Ci auguriamo – sottolinea Ivan Gardini, presidente dell’associazione di pazienti Epac onlus – che l’Aifa comprenda l’urgenza della situazione: è in gioco la vita di molti malati alle prese con una malattia in stadio avanzato. Auspichiamo inoltre che in futuro si prenda in considerazione la possibilità di rendere più flessibile il processo autorizzativo dei farmaci istituendo corsie di rapida approvazione per i pazienti a rischio più elevato come i trapiantati e i cirrotici”.

L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di persone positive al virus dell’Epatite C, infiammazione del fegato causata dal virus HCV che provoca la morte delle cellule epatiche.

– I NUMERI DELLA MALATTIA: circa il 3% della popolazione italiana è entrata in contatto con l’HCV. Nel nostro Paese i portatori cronici del virus sono circa 1,6-2 milioni, di cui 330.000 con cirrosi epatica: oltre 20.000 persone muoiono ogni anno per malattie croniche del fegato (due persone ogni ora) e, nel 65% dei casi, l’Epatite C risulta causa unica o concausa dei danni epatici. A livello regionale il Sud è il più colpito: in Campania, Puglia e Calabria, per esempio, nella popolazione ultra settantenne la prevalenza dell’HCV supera il 20%. Nel mondo si stima che siano circa 180 milioni le persone che soffrono di Epatite C cronica, di cui intorno ai 4 milioni in Europa e altrettanti negli Stati Uniti: più del 3% della popolazione globale. I decessi causati nel mondo da complicanze epatiche correlate all’HCV sono più di 350.000 ogni anno.

– PASSI AVANTI: negli ultimi 20 anni l’incidenza è notevolmente diminuita nei Paesi occidentali, per una maggior sicurezza nelle trasfusioni di sangue e per il miglioramento delle condizioni sanitarie. Tuttavia, in Europa l’uso di droghe per via endovenosa è diventato il principale fattore di rischio per la trasmissione di HCV.

– COME SI MANIFESTA: la fase acuta dell’infezione del virus dell’Epatite C decorre quasi sempre in modo asintomatico, tanto che la patologia è definita un silent killer. La cronicizzazione dell’Epatite, che accade in più del 70% dei pazienti, si manifesta con transaminasi elevate o fluttuanti e con l’insorgenza della fibrosi. La gran parte degli infetti ha un’età superiore a cinquant’anni e ciò testimonia un’endemia di tale infezione tra la popolazione del nostro Paese negli anni 50-70. Purtroppo, tra i pazienti portatori dell’infezione il 20-30% è evoluto in una grave epatopatia e si stima che in Italia i cirrotici da virus C siano oltre 150.000 e siano circa 4-5.000 i casi di tumore del fegato conseguenti all’infezione cronica da tale virus. Oltre il 60% dei 1.100 trapianti di fegato che si effettuano in Italia ogni anno sono causati dal virus C.

Piano antiepatiti. Sara’ pronto entro dicembre il Piano nazionale per la lotta alle epatiti, infezioni che in Italia fanno registrare complessivamente oltre due milioni di casi.  Il Piano, al quale ha lavorato una commissione nominata dal ministero della Salute, verra’ presentato con tutta probabilita’ il 29 novembre, in occasione della celebrazione italiana della Giornata mondiale delle epatiti.  Nel 2010, l’Organizzazione mondiale della sanita’(Oms) ha dichiarato le epatiti da virus A e B un ”problema sanitario mondiale”, richiedendo a tutti gli Stati di dotarsi di Piani specifici per il contrasto di tali patologie

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