Tumore della prostata: sorveglianza attiva

19 Ago 2009 Oncologia

La sorveglianza attiva seguita da un trattamento selettivo per gli uomini che manifestano progressione della malattia potrebbe essere un?opzione per i pazienti con tumore della prostata agli stadi iniziali.

Ricercatori dell?University of California at San Francisco ( UCSF ), negli Stati Uniti, hanno riportato la loro esperienza in una coorte di uomini con carcinoma prostatico seguiti con sorveglianza attiva.

I criteri di selezione per la sorveglianza attiva includevano: livelli di PSA ( antigene specifico prostatico ) inferiori a 10 ng/mL, somma dei gradi di Gleason da biopsia minore o uguale a 6 senza pattern 4 o 5, meno del 33% dei campioni bioptici positivi per il tumore, e stadio clinico T1/T2a.

I pazienti sono stati seguiti mediante controlli dei livelli di PSA e esame rettale con cadenza da 3 a 6 mesi e con ecografia transrettale a intervalli di 6-12 mesi.
A partire dal 2003 i pazienti sono stati anche sottoposti a biopsie prostatiche ogni 12-24 mesi.

L?endpoint primario era rappresentato dal trattamento attivo. L?endpoint secondario era la progressione della malattia definita come un aumento del grado di Gleason alla biopsia o velocit? significativa del cambiamento dei livelli di PSA ( maggiore di 0,75 ng/mL all?anno ).

Sono stati individuati 321 uomini sottoposti a sorveglianza attiva come trattamento iniziale ( et? media: 63.4 anni ).

Il periodo osservazionale mediano ? stato di 3.6 anni ( range 3-17 anni ).

Il livello iniziale medio di PSA era di 6,5 ng/mL.

Il 37% della coorte ( n = 121 ) ? rientrato in almeno uno dei criteri di progressione. In totale, il 38% dei pazienti ha mostrato un aumento del grado di Gleason alla ripetizione della biopsia e il 26% una velocit? di aumento dei livelli di PSA maggiore di 0,75 ng/mL.

Il 24% ( n = 78 ) ? stato sottoposto a un trattamento secondario a 3 anni ( valore mediano, range 1-17 anni ) dalla diagnosi.

Il 13% circa dei pazienti senza progressione della malattia sono stati selezionati per ricevere il trattamento.

La densit? del PSA alla diagnosi e l?aumento del grado di Gleason nelle biopsie successive sono stati associati in maniera significativa alla somministrazione di un trattamento secondario.
Il tasso di sopravvivenza specifico per la malattia ? stato del 100%.

In conclusione, i pazienti selezionati con tumore della prostata agli stadi iniziali potrebbero essere dei candidati per un trattamento di sorveglianza attiva.
? necessario definire criteri specifici per selezionare i soggetti pi? adatti per questo tipo di gestione della patologia e per valutare la progressione della malattia.
Potrebbe verificarsi un piccolo tasso di abbandono legato al fatto che alcuni pazienti non riescono o non vogliono accettare la sorveglianza attiva.

Dall?Era MA et al, Cancer 2008; 112: 2664-2670

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Sintomi di reflusso gastroesofageo con l?uso di ormoni in postmenopausa

Studi clinici hanno suggerito che elevati livelli di estrogeno e progesterone, da fonti esogene o endogene, aumentano il reflusso gastroesofageo.

Per valutare la relazione tra i sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo ( MRGE ) e la terapia ormonale postmenopausale incluso l?uso di modulatori selettivi del recettore dell?estrogeno e preparazioni ormonali da banco, un gruppo di Ricercatori della Boston University ha condotto uno studio prospettico di coorte su 51.637 donne in postmenopausa, arruolate nello studio clinico Nurses? Health Study, che hanno fornito dati sull?uso della terapia ormonale sostitutiva postmenopausale a cadenza biennale a partire dal 1976 e informazioni sui sintomi della MRGE nel 2002.

Tra i partecipanti eleggibili, 12.018 ( 23% ) hanno riportato sintomi di malattia da reflusso gastroesofageo.

Rispetto alle donne che non avevano mai fatto uso di terapia ormonale sostitutiva in postmenopausa, l?odds ratio multivariato di rischio per i sintomi di MRGE ? risultato pari all?1,46% per le donne che avevano assunto ormoni in passato, all?1,66% per quelle che stavano assumendo solo estrogeni, e all?1,41% per quelle che stavano facendo uso di estrogeni e progesterone.

Il rischio di sintomi di malattia da reflusso gastroesofageo aumentava in maniera significativa con l?aumento del dosaggio di estrogeno ( P<0.001 ) e l?aumento della durata dell?assunzione di estrogeno ( P<0,001 ). Inoltre, le donne che stavano utilizzando modulatori selettivi del recettore dell?estrogeno ( SERM ) mostravano un odds ratio di 1,39 per i sintomi di MRGE e quelle che stavano utilizzando preparazioni ormonali da banco un odds ratio di 1,37. In conclusione, l?utilizzo in postmenopausa di estrogeni, di modulatori selettivi del recettore dell?estrogeno o di preparazioni ormonali da banco, ? associato a una maggiore probabilit? di sviluppare sintomi di malattia da reflusso gastroesofageo.
Questo suggerisce l?esistenza di una componente ormonale nelle caratteristiche patofisiologiche della malattia da reflusso gastroesofageo nelle donne.

Jacobson BC et al, Arch Intern Med 2008;168:1798-1804

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La somminstrazione di 5-MTHF ? associata a prolungata sopravvivenza e a ridotta

I pazienti in emodialisi presentano un aumentato rischio di morbidit? e mortalit? cardiovascolare. Per questo motivo sono stati fatti tentativi con l?obiettivo di normalizzare l?iperomocisteinemia.

Ricercatori dell?Universit? di Bologna hanno compiuto uno studio randomizzato, prospettico, per determinare quali fattori di rischio fossero predittori di mortalit?, e se alti dosaggi di Folato o 5-Metiltetraidrofolato ( 5-MTHF ) fossero in grado di migliorare l?iperomocisteinemia e la sopravvivenza nei pazienti sottoposti ad emodialisi.

Allo studio hanno preso parte 341 pazienti, divisi in 2 gruppi: il gruppo A ? stato trattato con 50 mg per via endovenosa di 5-MTHF, mentre il gruppo B ha ricevuto 5 mg/die di Acido Folico per os.
Entrambi i gruppi sono stati trattati con Vitamina B6 e B12 per via endovenosa.

Dopo aver diviso i soggetti dello studio in quartili per i livelli della proteina C-reattiva ( CRP ), ? stato osservato che i pazienti del gruppo A e con livelli di CRP inferiori a 12 mg/l presentavano una pi? alta sopravvivenza, mentre nel gruppo B non ? stata riscontrata alcuna differenza nella sopravvivenza.

La proteina C-reattiva era il solo fattore di rischio predittivo di mortalit? ( RR=1.17; p=0.02 ).

L?et? della diagnosi, l?iperomocisteinemia, il polimorfismo MTHF, l?albuminemia, la lipoproteina ( a ) ed il folato non hanno influenzato il rischio di mortalit?.

La sopravvivenza nel gruppo A ? risultata pi? alta rispetto a quella del gruppo B ( in media, 36.2 mesi vs 26.1; p=0.03 ).

Lo studio ha indicato che la proteina C-reattiva, ma non l?iperomocisteinemia, ? il principale fattore di rischio per la mortalit? nei pazienti in emodialisi che ricevono supplementi vitaminici.
Il 5-MTHF somministrato per via endovenosa appare migliorare la sopravvivenza nei pazienti in emodialisi, indipendentemente dall?abbassamento dei livelli di omocisteina.

Cianciolo G et al, Am J Nephrol 2008; 28: 941-948

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Effetti nel lungo periodo della Finasteride sui livelli di PSA

Studi hanno dimostrato che la Finasteride ( Proscar ) riduce i livelli di PSA ( Prostate Specific Antigen ) di circa il 50% durante i primi 12 mesi di impiego.

Ricercatori della Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle hanno stimato gli effetti nel lungo periodo della Finasteride sui livelli di PSA negli uomini con e senza un tumore della prostata, al termine dello studio.

Sono stati analizzati i PSA seriali tra i partecipanti al Prostate Cancer Prevention Trial, sottoposti, al termine dello studio, a biopsia ( 928 con tumore e 8.620 con biopsia negativa ) o una diagnosi di tumore prostatico ( n = 671 ).

Nei soggetti senza tumore al termine dello studio, i livelli di PSA sono aumentati annualmente del 6% ( placebo ) e del 7% ( Finasteride ).

Tra coloro che hanno avuto una diagnosi di tumore della prostata, i livelli di PSA sono aumentati annualmente dell?11% ( placebo ) e del 15% ( Finasteride ) prima della diagnosi.

I soggetti con malattia tumorale ad alto grado ( Gleason 7 o superiore ) presentavano pi? alti aumenti di PSA rispetto ai soggetti con malattia a basso grado ( p < 0.001 ). Etzioni RD et al, J Urol 2005; 174: 877-881

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Incontinenza da prostatectomia radicale: la Duloxetina riduce la perdita urinari

Fino al 70% dei pazienti che si sottopongono a prostatectomia radicale si lamenta di perdita urinaria, ma l?incontinenza da stress che persiste 1 anno dopo l?intervento chirurgico interessa meno del 5% dei pazienti.

La Duloxetina ( Yentreve ) ? un inibitore della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina che produce sollievo dei sintomi dell?incontinenza urinaria da stress.

Uno studio ha valutato l?efficacia della Duloxetina nel management dell?incontinenza urinaria dopo prostatectomia radicale ed il suo impatto sui parametri urodinamici, come la pressione di chiusura uretrale massima ( MPCU ), abdominal leak point pressure ( ALPP ) e retrograde leak point pressure ( RLPP ).

Allo studio hanno partecipato 18 uomini con incontinenza urinaria da stress, 12 mesi dopo la prostatectomia radicale.

Tutti i pazienti sono stati sottoposti al test del pannolino ( pad test ) per quantificare il grado di urina persa, ed una valutazione urodinamica prima e dopo un trattamento della durata di 3 mesi con Duloxetina ? stata eseguita.

Alla valutazione di pretrattamento il valore medio di ALPP era 52.1cm H2O, MUCP era 52.5cm H2O, e RLPP era 43.1cm H2O.

Dopo 3 mesi di trattamento con Duloxetina, il valore medio di ALPP era 59.1cm H2O, MUCP era 67.3cm H2O, e RLPP era 45.1cm H2O.

L?impiego della Duloxetina ha comportato lieve aumento della pressione di chiusura uretrale massima ed una significativa riduzione della perdita urinaria.
L?azione della Duloxetina a livello dello sfintere estrinseco, fa si che il farmaco non rappresenti un?opzione di trattamento completo per l?incontinenza post-prostatectomia.

Zaharion A et al, Urol Int 2006; 77: 9-12

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Carcinoma prostatico metastatico androgeno-indipendente: la proteina C-reattiva

Studi sul rischio di cancro e sulla carcinogenesi molecolare ipotizzano un ruolo dell?infiammazione nello sviluppo e nella progressione del tumore.

E? stato verificato se specifiche proteine del sangue associate all?infiammazione fossero in grado di predire gli esiti negli uomini con tumore metastatico della prostata androgeno-indipendente ( AIPC ) sottoposti a chemioterapia a base di Docetaxel ( Taxotere ).

Sono stati conservati a -80 ?C i campioni di sangue basali ( prelevati al momento dell?arruolamento nello studio ) di 160 dei 250 pazienti arruolati nello studio ASCENT ( AIPC Study of Calcitriol ENhancing Taxotere ), uno studio clinico randomizzato, placebo-controllato, che ha confrontato la somministrazione settimanale di Docetaxel pi? alte dosi di Calcitriolo ( Rocaltrol ) con la somministrazione settimanale del solo Docetaxel.

Sono stati misurati con test immunologici i livelli di 16 citochine, chemochine, marcatori cardiovascolari o infiammatori.

La proteina C-reattiva ( CRP ) ? risultata essere un predittore significativo di una minore sopravvivenza generale ( hazard ratio [ HR ] di 1.41; P < 0,0001 ). Dopo l?inserimento dei valori di CRP in un modello multivariato con 13 variabili cliniche basali, solo elevati valori di proteina C-reattiva sono rimasti predittori significativi ( P < 0.0001 ) di una minore sopravvivenza. Dopo una classificazione in normali ( inferiori o uguali a 8 mg/mL ) o anormali ( superiori a 8 mg/mL ), i valori elevati di CRP sono risultati predittori significativi di minore sopravvivenza ( HR = 2.96; P = 0.001 ), cos? come l?emoglobina ( 0.007 ). Valori elevati di CRP sono anche risultati associati ad una minore probabilit? di diminuzione dei livelli di PSA ( odds ratio di 0.74; P = 0.007 ). In conclusione, elevate concentrazioni plasmatiche di CRP sembrano essere dei buoni predittori di scarsa sopravvivenza e di minore probabilit? di diminuzione dei livelli di PSA in risposta al trattamento per pazienti con carcinoma prostatico metastatico androgeno-indipendente in terapia con Docetaxel. Beer T M et al, Cancer 2008; 112: 2377-2383

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Ruolo della demenza nella sopravvivenza dei pazienti con malattia di Parkinson

Il rischio di demenza nella malattia di Parkinson ? alto con importanti conseguenze cliniche per i pazienti.
Nonostante ci?, il rischio assoluto di demenza e gli effetti di tale condizione sulla sopravvivenza nella malattia di Parkinson non sono noti.

Ricercatori del Stavanger University Hospital in Norvegia, hanno condotto uno studio longitudinale prospettico partendo da uno studio sulla prevalenza della malattia di Parkinson in Norvegia.
I pazienti sono stati rivalutati a 4, 8, 9, 10, 11 e 12 anni dal momento dell?identificazione della presenza di malattia di Parkinson.

In accordo con i criteri del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders ( terza edizione ), la diagnosi di demenza era basata su interviste al personale di assistenza, scale di valutazione cognitiva e test neuropsicologici.

In totale 223 pazienti con malattia di Parkinson sono stati inclusi nello studio e 140 ( 60% ) hanno sviluppato demenza entro la fine del periodo di osservazione.

Secondo i dati raccolti, l?incidenza cumulativa di demenza ? cresciua in maniera costante al crescere dell?et? e della durata della malattia di Parkinson e, subordinata alla sopravvivenza, aumenta dall?80% al 90% dopo i 90 anni.

Rispetto agli uomini, le donne vivono un numero maggiore di anni con malattia di Parkinson e con demenza.
A 70 anni, un uomo con malattia di Parkinson e senza demenza ha un?aspettativa di vita di 8 anni, 5 dei quali probabilmente liberi da demenza e 3 con demenza.

In conclusione, la demenza svolge un ruolo chiave nella sopravvivenza dei pazienti con malattia di Parkinson.

Buter TC et al, Neurology 2008; 70: 1017-1022

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Morti violente frequenti in sesso maschile e minoranze

Le morti violente dovute a violenza autoinflitta o interpersonale colpiscono in modo sproporzionato gli adulti giovani e di mezza et?, il sesso maschile ed alcune minoranze. In base ad un’indagine svolta negli USA su dati del 2006, il 55,9 percento di tutte le morti violente sono dovute a suicidio, seguite nell’ordine dai decessi dovuti ad omicidio o ad alterchi con la polizia, da quelle di intento indeterminato ed infine da quelle da colpi di arma da fuoco non intenzionali. Il suicidio ? pi? frequente nel sesso maschile, negli indiani americani e nei nativi dell’Alaska, nelle razze bianche non ispaniche e nei soggetti di et? compresa fra 45 e 54 anni, ed implica l’uso delle armi da fuoco. (MMWR Surveill Summ. 2009; 58: 1-44)

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Arteriosclerosi frenata da LDL e pressione normali

I pazienti coronaropatici che riducono fortemente i propri livelli di colesterolo LDL ed ottengono una pressione sistolica normale presentano la pi? lenta progressione dell’arteriosclerosi coronarica alla valutazione ecografica intravascolare: ci? supporta la gestione intensiva del rischio globale nei pazienti coronaropatici. Negli ultimi anni, l’avvento di statine pi? potenti e la componente educativa che esso ha comportato ha ottenuto il raggiungimento dei livelli target di colesterolo LDL in molti pazienti, ma far raggiungere un doppio traguardo al paziente non ? cosa facile: ? dunque importante motivarlo dimostrando che il raggiungimento di questo duplice traguardo pu? non soltanto rallentare la malattia, ma anche farla regredire. (J Am Coll Cardiol 2009; 53: 1110-5 e 1116-8)

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Defibrillatori impiantabili davvero utili nell’anziano?

10 Ago 2009 Cardiologia

Nonostante la loro comprovata utilit? in quasi ogni soggetto con insufficienza cardiaca e scarsa funzionalit? sistolica ventricolare, i defibrillatori impiantabili (ICD) non sono in grado di prolungare di molto la sopravvivenza in molti pazienti che ci? nonostante rispondono a tutti gli attuali criteri di indicazione. E’ necessario un approccio cauto e selettivo all’uso degli apparecchi per la prevenzione primaria nei pazienti anziani con comorbidit? multiple: tali pazienti, soprattutto in caso di ricoveri multipli per insufficienza cardiaca, hanno meno probabilit? di morire di una morte improvvisa prevenibile tramite ICD che da altre cause, e quindi non trarrebbero molto beneficio dal riceverne uno. Di contro, i pazienti al di sotto dei 65 anni e quelli pi? anziani senza nefropatie, demenza o tumori ne trarrebbero maggiore beneficio. Gli studi clinici su cui si basano le attuali linee guida per l’uso degli ICD sono stati condotti in larga parte su pazienti intorno ai 60 anni con poche comorbidit?, mentre invece nella pratica clinica ? molto pi? probabile avere a che fare con pazienti intorno ai 70 anni con patologie croniche spesso non cardiache. Da un punto di vista sociale, sarebbe un vantaggio ridurre l’uso di terapie costose nei pazienti che probabilmente non ne hanno bisogno: non ? ancora possibile sconsigliare l’uso degli ICD in alcune categorie di pazienti, ma i medici potrebbero fare uso di queste informazioni per comunicare con il paziente ed aiutarlo a prendere decisioni informate. I pazienti al di sopra dei 90 comunque hanno una prognosi infausta a prescindere dalla presenza di comorbidit?. (CMAJ 2009; 180: 599-600 e 611-6)

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