La TAC non spaventa i fumatori

Lo screening tramite TAC ha scarsi effetti sulle abitudini relative al fumo dei pazienti, e non induce o promuove la cessazione del fumo attivo. E’ stata rilevata un’eccezione nei fumatori sottoposti a TAC a cui viene richiesto di farsi controllare nuovamente entro tre mesi a causa dei risultati iniziali: questo sottogruppo presenta elevati tassi di cessazione del fumo e bassi tassi di recidiva. Attualmente sono in fase di valutazione programmi di screening dei tumori polmonari basati sulla TAC a basse dosi, nella speranza di rilevare pi? precocemente questi tumori e migliorarne pertanto la sopravvivenza, ma finora nessuno studio randomizzato controllato aveva investigato gli effetti di questi programmi sulle abitudini relative al fumo dei partecipanti. Negli studi futuri in materia sarebbe opportuno incrementare le consulenze ed i trattamenti farmacologici per la cessazione del fumo onde incrementare i reali tassi di cessazione, e nelle indagini sui programmi di screening andrebbe posta maggiore enfasi sulla cessazione del fumo e sulla motivazione dei partecipanti a smettere prima possibile. (Thorax 2009; 64: 388-92)

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Dal cancro tiroideo si pu? guarire

Il tumore tiroideo ? il pi? frequente dei tumori endocrini e rappresenta l’1,5% di tutte le neoplasie. L’incidenza media a livello mondiale ? di circa 10 nuovi casi ogni 100.000 abitanti, anche se ci sono ampie variazioni nelle diverse aree geografiche.
La sua prognosi ? certamente fra le migliori in tutto il panorama oncologico. In particolare il carcinoma papillare si avvicina al 100% di guarigione con l’eccezione dei casi che si presentino con malattia avanzata. Una diagnosi di carcinoma tiroideo, perci?, non ha assolutamente implicazioni drammatiche e non deve essere vissuto in modo allarmante. Lo ha evidenziato Daniele Barbaro, direttore della Sezione di Malattie Endocrine e Metaboliche della A.S.L. 6 di Livorno nel corso di un convegno svoltosi sull?argomento e organizzato da A.T.T.A onlus Toscana, associazione nata con lo scopo di dare supporto alle persone con tumore tiroideo.
Una prognosi buona
La maggior parte dei carcinomi tiroidei (90%) ? costituita da tumori a partenza dalla cellula follicolare (carcinomi papillari 70-80%, carcinomi follicolari 10-20%) e sono normalmente chiamati carcinomi differenziati della tiroide. Raramente (4-5% dei casi) la tiroide ? sede di carcinomi a partenza non da cellule tiroidee (cellule parafollicolari: carcinomi midollari). Raramente, inoltre, (4-5%) la tiroide ? sede di tumori indifferenziati. E qual ? la prognosi? ?La prognosi dei carcinomi tiroidei differenziati, in particolare del carcinoma papillare ? eccezionalmente buona avendo una prognosi che si avvicina al 100% di guarigione? – spiega Barbaro – Non cos? ottimistica ? la prognosi del carcinoma midollare che comunque resta molto buona soprattutto con una corretta diagnosi preoperatoria. Il carcinoma indifferenziato, quello cio? che non parte da cellule tiroidee, ? raro e riguarda il 4-5% dei casi, viceversa ha purtroppo una prognosi molto peggiore?. Ma esiste una predisposizione al carcinoma tiroideo? ?Per i carcinomi tiroidei differenziati ? spiega Barbaro – vi ? una generica predisposizione familiare, mentre i pi? rari carcinomi midollari sono ereditari in un terzo dei casi. Rappresenta, inoltre, un fattore di rischio l’esposizione a radiazioni sul collo in et? infantile a scopo terapeutico. Nessun problema comunque per gli eventuali accertamenti radiologici eseguiti?.
Una vita normale dopo l?intervento
Una corretta diagnosi ? particolarmente importante, ma in che cosa consiste? ?L’esame principale, precisa il medico toscano, ? l’ago-aspirato con ago sottile; in caso di dubbio di carcinoma midollare si esegue un dosaggio della calcitonina che ? un marcatore di eccezionale utilit? per il carcinoma midollare?. E non si tratta di un esame ne doloroso ne pericoloso. Quanto a un eventuale esito negativo. ?Il paziente deve sapere che con una corretta strategia terapeutica questo tipo di tumore potr? essere curato in modo definitivo nella quasi totalit? dei casi?. E l?intervento chirurgico pi? comune ? l?asportazione della tiroide, senza per? necessit? successiva di chemioterapia o radioterapia. Ma si vive senza tiroide? ?Si ? risponde Barbaro. – La cura con ormoni tiroidei riproduce in modo pressoch? perfetto la funzione tiroidea. Le pazienti giovani trattate per carcinoma tiroideo possono avere figli e potranno condurre una vita normale. Vi saranno dei controlli periodici, il primo dopo un anno e i successivi in base alla risposta del primo controllo?.

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Tumore mammario precoce: inutili i taxani

19 Giu 2009 Oncologia

L’aggiunta di taxani alla chemioterapia standard basata sulle antracicline non ha effetti complessivi sulla sopravvivenza libera da malattia nei pazienti con tumore mammario in fase precoce. Si tratta di un dato in contrasto con quelli derivati da altri studi sulla terapia adiuvante, che invece ne avevano indicato un modesto vantaggio in termini di sopravvivenza. In ogni caso, lo status relativo al recettore per gli estrogeni ed all’HER-2 del tumore potrebbe essere in grado di predire la risposta alla terapia con taxani. Le ragioni alla base della mancanza di risultati di questa strategia terapeutica rimangono ignote, ma rimane il fatto che essa non si dimostra pi? efficace di trattamenti pi? convenzionali e meno tossici, e pertanto non andrebbe raccomandata come terapia adiuvante per il tumore mammario. E’ ancora aperto il dibattito su quale sia il reale beneficio dei taxani e quali siano le pazienti che potrebbero goderne. (Lancet. 2009; 373: 1662-3 e 1681-92)

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Rischio doppio con estrogeno-progesterone

L’uso postmenopausale di una combinazione di estrogeni e progesterone porta a pi? del doppio il rischio di tumore mammario lobulare, e quasi raddoppia quello di tumore mammario duttale, mentre la sola somministrazione di estrogeni non aumenta il rischio. Soltanto nelle donne pi? magre e nei casi di tumore duttale diagnosticato allo stadio regionale/distale l’uso di soli estrogeni ? risultato associato a un aumento del 50% del rischio di tumori lobulari invasivi dopo averne fatto uso per 10 o pi? anni. Quanto riscontrato suggerisce l’esistenza di una finestra di 2-3 anni affinch? il rischio comportato dalla combinazione estrogeno-progesterone divenga evidente dopo l’uso iniziale, e affinch? si attenui dopo la cessazione della terapia.
Cancer 2009; 115: 936-45

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Fibrosi epatica: provata l?efficacia anti-infiammatoria del cardo mariano

17 Giu 2009 Nefrologia

Da una pianta selvatica nuove speranze per proteggere il fegato. Da anni si studiavano gli effetti terapeutici della silibina sulla malattia epatica ma solo oggi nella recente pubblicazione sulla prestigiosa rivista Journal of Hepatology, sono state dimostrate le propriet? epatoprotettive ed anti-fibrotiche della principale componente della silimarina, estratta dal cardo mariano.
I risultati derivano da uno studio in vitro condotto dal prof. Massimo Pinzani dell?Universit? di Firenze, in collaborazione con i colleghi delle Universit? di Napoli e Torino. I ricercatori hanno utilizzato cellule epatiche umane che in risposta a stimoli diversi crescono, si moltiplicano e danno luogo alla fibrogenesi, processo di riparazione del tessuto epatico che porta, nelle malattie croniche del fegato, ad una progressiva alterazione della struttura e delle funzioni di questo organo.
Il danno epatico e la conseguente fibrosi sono generalmente causati da infezioni virali (epatite B o C, di cui oggi si celebra la giornata mondiale per aumentarne la consapevolezza), abuso cronico di alcool, malattie metaboliche o autoimmunitarie, deposito di ferro. Queste cellule epatiche attivate provocano un accumulo di matrice extracellulare, cio? del ?cemento? che tiene insieme le cellule, e di conseguenza promuovono, nel fegato, lo sviluppo di fibrosi e cirrosi, cio? di tessuto cicatriziale.
?Lo studio svolto nel nostro laboratorio – spiega il prof Pinzani – ? stato rivolto a chiarire i meccanismi cellulari e molecolari degli effetti della silibina in cellule isolate da fegato umano e mantenute in coltura. I risultati confermano che la silibina ? in grado di contrastare l?evoluzione della fibrosi e di svolgere un effetto antiossidante. Ma il risultato pi? importante e inatteso ? stata l?osservazione di un potente effetto anti-infiammatorio che apre nuove prospettive non solo per la cura delle malattie del fegato ma anche di altre affezioni infiammatorie dell?apparato digerente, come ad esempio il morbo di Crohn e la retto-colite ulcerosa?.

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Insufficienza pancreatica esocrina: approvato dalla FDA il primo e unico prodott

La Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti ha approvato le capsule a rilascio prolungato (pancrelipasi) per il trattamento dell?insufficienza pancreatica esocrina (IPE) causata da fibrosi cistica (FC) o da altre patologie. Questo farmaco, ? il primo ed unico prodotto enzimatico pancreatico (PEP) ad ottenere l?approvazione della FDA in base alle nuove linee guida fissate per questa classe di farmaci.
“Se non curata, l?IPE provoca maldigestione, malassorbimento e malnutrizione e pu? addirittura comportare rischi per la vita – commenta Virginia Stallings, M.D., Direttrice del Nutrition Center presso il Children’s Hospital di Filadelfia, PA e Professoressa di Pediatria della Scuola di Medicina dell?Universit? della Pennsylvania. – Il trattamento dell?IPE ha i seguenti obiettivi: ottimizzare la digestione e l?assorbimento degli alimenti e delle sostanze nutritive, migliorare i risultati per i pazienti e prevenire la malnutrizione e i disturbi della crescita nei bambini e la perdita di peso negli adulti. Gli enzimi pancreatici rappresentano una componente importante nella cura efficace dell?IPE per l?intera durata di vita di un paziente.”
L?efficacia delle capsule a rilascio prolungato pancrelipasi, approvate dalla FDA, ? stata dimostrata in uno studio cross-over randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo al quale hanno partecipato 32 pazienti affetti da fibrosi cistica. L?endpoint di efficacia primaria era rappresentato dal coefficiente di assorbimento di grassi (CFA) il quale misura la percentuale di assorbimento di grassi assunti con l?alimentazione.
Nello studio in questione, il farmaco ha prodotto valori medi di CFA significativamente pi? elevati rispetto al placebo. Il coefficiente di assorbimento dei grassi medio durante il trattamento con pancrelipasi era infatti dell?89% rispetto al 49% del trattamento con il placebo, ossia una differenza media nel CFA del 41%. Il nuovo farmaco ha mostrato aumenti statisticamente significativi del CFA sia negli adulti di et? superiore a 18 anni, sia negli adolescenti di et? compresa tra i 12 e i 18 anni.
Non ? stata osservata alcuna differenza rilevante nell?ampiezza della risposta tra i gruppi di et?. L?incidenza degli eventi avversi (indipendentemente dalla causalit?) ? risultata pi? elevata durante il trattamento con il placebo (71%) rispetto al trattamento con pancrelipasi (50%).
“Quale primo ed unico prodotto ad essere approvato dalla FDA nella classe dei farmaci a base di enzimi pancreatici secondo le nuove linee guida, il farmaco contribuisce a rispondere alle necessit? di migliaia di pazienti affetti da IPE – ha affermato il Dott. Stephen Hill, Presidente di Solvay Pharmaceuticals, Inc. – Solvay Pharmaceuticals ? impegnata da oltre 20 anni nel mercato statunitense degli enzimi pancreatici ed ? orgogliosa di poter offrire questo prodotto approvato dalla FDA ai pazienti affetti dall?IPE.”
L?immissione in commercio della formulazione di pancrelipasi approvata dalla FDA ? prevista per il terzo trimestre del 2009, mentre quella attualmente in commercio continuer? ad essere disponibile fino al lancio del prodotto approvato dalla FDA.
L?Insufficienza Pancreatica Esocrina (IPE) ? una condizione derivante dalla carenza nella produzione e/o secrezione di enzimi pancreatici necessari a digerire le sostanze nutritive contenute negli alimenti. Per i pazienti affetti da IPE, gli enzimi pancreatici sono fondamentali per garantire un?alimentazione e condizioni di salute adeguate. I prodotti a base di enzimi pancreatici funzionano nei pazienti affetti da IPE rilasciando enzimi pancreatici nell?intestino tenue,contribuendo a scindere i grassi, le proteine e i carboidrati contenuti negli alimenti, agendo quindi da sostituto degli enzimi digestivi secreti dai pazienti.
L?IPE si pu? verificare come complicanza di una serie di patologie o condizioni fra cui la fibrosi cistica (FC), il carcinoma del pancreas, la chirurgia gastrointestinale e la pancreatine cronica. Le statistiche mostrano che oltre l?80% dei pazienti affetti da FC sono anche affetti da IPE che solitamente si sviluppa nel primo anno di vita. I prodotti originali appartenenti alla classe di farmaci a base di enzimi pancreatici sono antecedenti ai moderni requisiti normativi della FDA.
Negli ultimi due decenni, la commercializzazione dei prodotti appartenenti a questa classe ? stata autorizzata nella forma di farmaci con obbligo di ricetta medica senza l?approvazione ufficiale di una NDA (autorizzazione al commercio di un nuovo farmaco). Nel 2004, la FDA ha richiesto ai produttori di presentare le NDA per tutti i prodotti a base di enzimi pancreatici affinch? potessero continuare ad essere commercializzati. Entro aprile 2010, tutti gli enzimi pancreatici dovranno avere NDA approvate e dovranno essere prodotti in base alle nuove linee guida.

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Prospettive e ruolo attuale della diagnosi precoce e prevenzione nel carcinoma p

15 Giu 2009 Oncologia

Un numero sempre crescente di studi e di congressi trova come argomento il carcinoma prostatico, la possibilit? di ridurre il rischio, la progressione, le complicanze ed infine la mortalit? legate a questo tumore attraverso una diagnosi precoce ed un programma di screening e prevenzione.
Questa attenzione scientifica ? motivata da una forte richiesta clinica legata al sostanziale aumento di incidenza della neoplasia prostatica, un interessamento sempre maggiore ad et? meno avanzate.
Quali sono le prospettive e quali gli strumenti attuali per affrontare con efficacia questa neoplasia che rappresenta realmente un problema sociale su larga scala?
Esistono delle linee guida, in particolare della Societ? Europea di Urologia (EAU), che possono aiutarci ad organizzare meglio il nostro lavoro nella gestione clinica del paziente con carcinoma prostatico e sostenere , anche da un punto di vista medico-legale, le nostre decisioni.
Qual ? l’epidemiologia attuale del carcinoma prostatico e quali i fattori rischio?
Il carcinoma prostatico ? considerato ad oggi uno dei maggiori problemi della popolazione maschile in tutto l’ambito medico Rappresenta ormai la neoplasia pi? frequente nel sesso maschile, superando anche il tumore al polmone negli USA ed in Europa. In Europa, si valuta che 2,6 milioni di nuovi casi di carcinoma prostatico sono diagnosticati ogni anno, rappresentando l’11% di tutti i carcinomi maschili in Europa, e rendendosi responsabile del 9% di morti per cancro nell’uomo (EAU). I dati italiani non si discostano dalla media europea ( 14% di tutti i carcinomi maschili).
L’incidenza del carcinoma prostatico risulta in continuo e progressivo aumento in questi ultimi decenni.
Tale situazione ? imputabile a diversi fattori. ? ben noto che il carcinoma prostatico ? correlato all’et? del paziente. Il progressivo aumento dell’et? media della popolazione generale ed anche maschile (attualmente circa il 7% presenta un’et? superiore a 65 anni con una percentuale prevista al 14% nel 2040) ? sicuramente un fattore importante. Tuttavia le diverse analisi epidemiologiche sottolineano il rapido aumento in incidenza successivo al 1990, dopo quindi l’introduzione dell’antigene specifico prostatico (PSA) nella diagnosi della neoplasia prostatica.
In particolare, maggiore ? l’uso del PSA od un atteggiamento aggressivo nella diagnosi precoce, maggiore ? l’incidenza di carcinoma prostatico in quella popolazione.
L’aumento di incidenza del carcinoma prostatico ha permesso anche di meglio analizzare i fattori di rischio per il suo sviluppo. La dieta rimane un fattore di rischio importante; la minore incidenza di carcinoma prostatico nelle popolazioni orientali ? in gran parte secondario all’uso abitudinario di un’alimentazione ricca in prodotti (soia, riso e derivati) ad alto contenuto di sostanze chiamate isoflavonoidi. Queste sostanze sono in grado di agire sui tessuti prostatici proteggendoli dal possibile inizio di processi legati alla carcinogenesi.
Una crescente attenzione ? stata rivolta al concetto di familiarit? ed ereditariet? nel carcinoma prostatico. ? stato possibile, infatti, identificare alcuni geni in grado di trasmettere di
generazione in generazione un aumentato rischio di sviluppo del carcinoma prostatico. Questo dato permette di identificare una percentuale (intorno al 10-15%) di carcinomi prostatici che si sviluppano su base ereditaria o familiare. Da un punto di vista clinico, il rilevamento nell’anamnesi di una storia familiare positiva per carcinoma prostatico (sia nella famiglia paterna che materna) in uno o pi? parenti (in particolare se sviluppato in et? inferiore a 65 anni) aumenta di 2-3 volte il rischio per quel soggetto di sviluppare un carcinoma prostatico nel corso della sua vita. Altra caratteristica importante, ? la forma ereditaria di carcinoma prostatico che si sviluppa precocemente, una decade prima dell’et? media di sviluppo del carcinoma prostatico sporadico ( 45-55 anni).
? raccomandato uno screening per il carcinoma prostatico?
Al momento attuale alcune Societ? Americane (Societ? Americana di Oncologia e di Urologia) raccomandano un programma di screening per il carcinoma prostatico. Non altrettanto avviene per la Societ? Europea di Urologia (EAU). Lo screening per carcinoma prostatico, se raccomandato, deve essere effettuato nel seguente modo:
? inizio a 50 anni (45 anni per popolazioni a maggior rischio su base di razza e familiarit?)
? termine quando l’aspettativa di vita del soggetto ? inferiore a 10 anni
? utilizzo del PSA ed esplorazione rettale
Sottolineo come i due metodi considerati per un programma di screening sono semplicemente PSA ed esplorazione rettale, e nessun metodo per immagine (in particolare l’ecografia) viene incluso. Per concludere che lo screening abbia una sua completa efficacia nella pratica clinica e gestione del paziente con carcinoma prostatico, tre risultati devono essere ottenuti:
? aumento di incidenza e diagnosi del carcinoma prostatico
? diagnosi di carcinoma prostatico ad una et? pi? giovane ed a uno stadio pi? iniziale e localizzato di malattia
? riduzione della mortalit? cancro specifica nella popolazione
I primi due risultati sono sicuramente gi? stati ottenuti da una politica generale di diagnosi precoce (ed in alcuni paesi, come US, di screening). Con l’utilizzo sempre maggiore del PSA, il numero di diagnosi di carcinoma prostatico ? aumentato, ed a un’et? progressivamente pi? precoce, associate ad uno stadio localizzato alla ghiandola prostatica. Al momento attuale, per?, non esistono dati che permettano di evidenziare un vantaggio in termini di sopravvivenza cancro specifica. Vi sono diversi trial randomizzati (screening si versus screening no) in corso, che potranno rispondere a questa domanda. Al momento attuale alla domanda: “deve essere eseguito un programma di screening per carcinoma prostatico?”, la risposta pi? giusta ?: “non esistono sufficienti dati per rispondere, sia in senso affermativo che negativo”. In particolare, il problema che rimane da definire ? l’entit? del rischio di diagnosi non clinicamente significative (il paziente muore con, e non per il carcinoma prostatico) di carcinoma prostatico nella popolazione sottoposta a screening.
Cosa si intende per diagnosi precoce?
Se un programma di screening non ? ancora giustificato, in quasi tutto il mondo, compresa Italia, viene eseguita e richiesta (Societ? Europea di Urologia) (EAU) una diagnosi precoce per il carcinoma prostatico. Quali sono le linee guida per eseguire una diagnosi precoce?
? inizio a 50 anni (45 anni per popolazioni a maggior rischio sulla base di razza e familiarit?)
? termine quando l’aspettativa di vita ? inferiore a 10 anni
? utilizzo del PSA ed esplorazione rettale
? importante segnalare l’et? a cui iniziare una diagnosi precoce ma ancor pi? l’et? in cui un atteggiamento di diagnosi precoce del carcinoma prostatico non ha pi? senso (aspettativa di vita inferiore a 10 anni).
? importante inoltre sottolineare come, anche per la diagnosi precoce, la raccomandazione ? di utilizzare semplicemente il PSA e l’esplorazione rettale. Ancora una volta la tecnica per immagini nella neoplasia prostatica non svolge un ruolo importante. La sensibilit? e specificit? dell’ecografia prostatica transrettale e della RMN prostatica sono inferiori al binomio PSA ? esplorazione rettale nell’identificazione precoce del nodulo dubbio prostatico.
Ancora oggi le richieste di ecografia prostatica a questo scopo sono molte, e spesso non si procede alla biopsia prostatica se anche l’ecografia non conferma il sospetto di neoplasia prostatica. La raccomandazione invece ? precisa: deve essere sufficiente un sospetto sulla base dell’esplorazione rettale o (non necessariamente in entrambe) del PSA per richiedere subito la verifica attraverso la biopsia prostatica. L’ecografia prostatica transrettale non deve essere richiesta a supporto di queste due informazioni, ma solo utilizzata per eseguire la biopsia prostatica. Sottolineo come la diagnosi definitiva di carcinoma prostatico puo’ essere ottenuta solo istologicamente alla verifica bioptica. La biopsia prostatica deve essere sempre ecoguidata e con prelievi multipli (minimo 6 ma crescenti al crescere del volume prostatico).
La mancanza di una tecnica per immagine nella diagnostica prostatica ? una lacuna clinicamente rilevante. Speranze vengono dalla risonanza magnetica con spettroscopia. Questa tecnica associa all’indagine morfologica per immagine della RMN, un indagine metabolica del tessuto. In particolare su aree considerate spesso specificamente sospette dalla RMN si esegue un esame spettroscopico attraverso l’analisi di tre sostanze: citrato (associato alla prostata normale ed iperplastica), creatina e colina (associata stati ipermetabolici ed elevato turnover cellulare). Il risultato ? un istogramma dove, nel tessuto prostatico non neoplastico la curva della creatina ha la prevalenza sulle altre, mentre nel tessuto neoplastico la colina e citrato hanno la prevalenza sul citrato. La tecnica ? molto interessante e disponibile gi? in diversi centri italiani, ma la sua validit? nella diagnosi o gestione successiva del paziente con carcinoma prostatico deve essere ancora provata su numeri sufficientemente elevati.
Cosa c’? di nuovo sul PSA?
In questi ultimi anni il PSA ha subito numerose contestazioni, ma al momento la maggior parte della ricerca non ? rivolta a nuovi marcatori per il carcinoma prostatico, ma su come meglio gestire il PSA. Questo dato sottolinea come il PSA debba essere considerato un buon marcatore (il migliore forse in oncologia) ed utilizzato in maniera estesa nella popolazione maschile oltre 45-50 anni, fino a 70 anni. La novit? sul PSA si basa sulla definitiva fine dello storico cut-off di 4,0 ng/ml. Ancora la maggior parte di risposte di laboratorio indicano come valori di riferimento per il PSA totale 0-4 ng/ml. Un esteso studio ha per la prima volta eseguito biopsie prostatiche nella popolazione maschile anche per valori di PSA considerati prima insospettabili. Il risultato ? stato che circa il 20% dei soggetti con PSA fra 2.5-4.0 ng/ml presentavano un carcinoma prostatico alla biopsia.
Questo dato sottolinea come la capacit? del PSA di evidenziare una neoplasia prostatica ? perfettamente uguale nel range fra 2,5 ? 4,0 e 4,0-10,0 ng/ml. Per questo motivo l’atteggiamento rispetto ai valori del PSA totale e rapporto free/total (da eseguire e leggere solo se il PSA totale ? compreso fra 2,5 e 10 ng/ml) ? il seguente:
in assenza di sospetti alla esplorazione rettale
? PSA totale <2,5 ng/ml = basso rischio di carcinoma prostatico. Si raccomanda un controllo annuale del PSA
? PSA nel range 2,5 -10.0 ng/ml = rischio intermedio. Un atteggiamento pi? aggressivo (in particolare se presente una storia di familiarit?) puo’ considerare la biopsia in tutti i casi. Un atteggiamento meno aggressivo, volto a ridurre il numero di biopsie non necessarie, stratifica i pazienti in base al rapporto free/total; se il rapporto ? inferiore a 0,25 si richiede la biopsia prostatica; se superiore controllo a 6 mesi intervallo
? PSA >10 ng/ml = alto rischio. Indipendentemente dal valore free/total si raccomanda subito una biopsia prostatica.
Un altro dato interessante ottenuto dallo stesso lavoro ? relativo all’influenza degli inibitori della 5 alfa reduttasi sul PSA. Diversi studi avevano gi? sottolineato come un inibitore della 5 alfa reduttasi non riduce la validit? del PSA come marcatore tumorale, perch? la riduzione indotta da queste terapie ? molto costante e pari al 50% ed ? sufficiente moltiplicare il valore nel paziente del PSA X 2, per ottenere il valore reale del PSA totale ed utilizzarlo di conseguenza. Inoltre l’inibitore della 5 alfa reduttasi non altera il rapporto free/total del PSA. Tuttavia a volte nella pratica clinica si tende erroneamente ancora ad interrompere il trattamento medico per utilizzare il PSA. Lo studio ha sottolineato che il PSA non solo non ? influenzato negativamente dalla terapia con inibitore della 5 alfa reduttasi , ma proprio nei pazienti sottoposti a queste terapie, il PSA diviene un marker significativamente superiore per la diagnosi precoce dei tumori prostatici a maggiore aggressivit?. In pratica: se un aumento del PSA ? dovuto ad una concomitante iperplasia prostatica e non ad un carcinoma, la terapia con inibitore della 5 alfa reduttasi produrr? una riduzione del valore del PSA totale del 50% , valore che si manterr? stabile nel follow-up successivo. Al contrario, se l’aumento del PSA ? dovuto ad un carcinoma prostatico, la terapia con inibitori della 5 alfa reduttasi produrr? una riduzione del PSA inferiore al 50 % ed il suo valore tender? successivamente a ri-aumentare nonostante la terapia medica.
A che punto siamo nei programmi di prevenzione?
Il carcinoma prostatico ha diverse caratteristiche che possono renderlo idoneo ad un programma di prevenzione:
? elevata incidenza, tale da considerare questa neoplasia un problema sociale
? morbilit? legata al suo trattamento
? possibilit? di evidenziare soggetti a maggior rischio di sviluppo
? markers sierici e tissutali
Dal 2000 l’attenzione ad un possibile programma di prevenzione nel carcinoma prostatico ? aumentata esponenzialmente.
La prima domanda ? su quale popolazione eseguire un programma di prevenzione. Ad oggi pensare di sviluppare un programma di prevenzione su tutta la popolazione maschile potrebbe sembrare gravato da costi troppo elevati e da un numero eccessivo di trattamenti non necessari. Pi? favorevole puo’ sembrare un programma di prevenzione rivolto ad una popolazione selezionata, a rischio aumentato di sviluppo futuro del carcinoma prostatico. Il PSA ancora una volta sembra poter identificare classi di rischio crescente di sviluppo futuro di carcinoma prostatico . Il concetto di familiarit? permette di selezionare altri pazienti a maggior rischio. Alcune lesioni istologiche precoci nella cancerogenesi prostatico (Postinflammatory atrophy PIA) , legate al concetto di infiammazione cronica prostatica come fattore di rischio nello sviluppo futuro del carcinoma prostatico, potrebbero permettere ulteriori selezioni anche da un punto di vista istologico e tissutale.
L’et? in cui iniziare un programma di prevenzione varia, in base al farmaco utilizzato ed al suo meccanismo di azione. Sostanze naturali necessitano di diversi anni per poter prevenire il meccanismo di cancerogenesi prostatica, e come tali devono essere iniziate molto precocemente per avere un effetto chemopreventivo sulla prostata. Altri farmaci, ad azione pi? diretta sulla cellula prostatica, possono agire pi? rapidamente ed effettuare un importante azione preventiva anche se utilizzati a partire da et? pi? avanzate (45-50 anni).
Per poter dare una risposta reale a queste domande servono studi importanti, multicentrici su grandi popolazioni e su periodi di valutazione lunghi; inoltre randomizzati al trattamento da studiare versus placebo. Questi studi esistono, in parte sono conclusi, in parte sono in corso. Un voluminoso studio di prevenzione sta esaminando vitamine (A ed E) licopeni ed isoflavonodi nella prevenzione del carcinoma prostatico. I risultati sono previsti intorno al 2010. Uno studio sugli inibitori del ciclo-ossigenasi 2 ? stato interrotto precocemente. Due studi utilizzano invece inibitori della 5 alfa reduttasi per la prevenzione del carcinoma prostatico. Il razionale ? l’effetto apoptotico di morte cellulare indotto dal farmaco sulla cellula epiteliale prostatica che, in futuro, potrebbe sviluppare un processo di cancerogenesi. Riducendo l’attivit? proliferativa di queste cellule si riduce anche il rischio di trasformazione neoplastica. Di questi ultimi due trial, ? ancora in corso lo studio con inibitore di entrambe le 5 alfa reduttasi tipo 1 e 2, mentre ? concluso lo studio con inibitore della 5 alfa reduttasi tipo 2.
Quest’ultimo studio ha randomizzato pi? di 18000 uomini senza sospetto di carcinoma prostatico a 7 anni di trattamento versus placebo. L’importanza di questo studio ? sottolineata dal fatto che nel Dicembre 2006 la Societ? Europea di Urologia ha considerato necessario sviluppare e successivamente pubblicare su European Urology della raccomandazioni su come utilizzare i risultati di esso. Le raccomandazioni sottolineano l’indipendenza dello studio che risulta in grado di offrire risultati clinicamente significativi. Il risultato ottenuto ? una riduzione del 25 % circa di incidenza di carcinoma prostatico nei soggetti trattati con il farmaco rispetto al placebo. Questa riduzione ? importante e considerata clinicamente significativa per valutare la terapia come efficace, in termini di prevenzione, del carcinoma prostatico. Ma una terapia preventiva viene anche giudicata sulla base della tollerabilit? del farmaco in una popolazione che non ha malattia, ma ? solo a rischio di svilupparla. Nello studio, la terapia con inibitore della 5 alfa reduttasi produceva un aumento, anche se limitato, rispetto al gruppo trattato con placebo, di effetti collaterali legati alla sfera sessuale, ma un miglioramento della sintomatologia legata ad una concomitante iperplasia prostatica e suo rischio di progressione clinica.
Le raccomandazioni della Societ? Europea di Urologia affermano:
? il clinico ha il dovere e compito di informare il paziente dei risultati di questo studio
? il paziente deve essere informato della possibilit?, ad oggi, di una terapia in grado di ridurre del 25 % il rischio futuro di sviluppo di un carcinoma prostatico (e quindi di intraprendere un iter diagnostico-terapeutico con conseguenti effetti collaterali)
? il paziente deve, allo stesso tempo, essere informato anche dei possibili svantaggi (sfera sessuale) e vantaggi associati (controllo dell’IPB) di questa terapia.
L’affermazione della Societ? Europea di Urologia sono sufficientemente decise per poter utilizzare nella pratica clinica questi dati. In particolare la Societ? invita il clinico a diffondere questa informazione, sia a livello medico che di paziente, e a decidere insieme a lui, adeguatamente informato, l’opportunit? di intraprendere tale terapia preventiva.
Data di deposito AIFA 27/04/2009

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Riparare la mielina: istruzioni per l?uso

La scoperta di un meccanismo chiave per la riparazione della mielina potrebbe portare alla messa a punto di nuove terapie. I ricercatori dell?Universit? del New Jersey hanno studiato come l?organismo, nelle forme a ricadute e remissioni, ricostruisce il rivestimento gliale distrutto durante le fasi attive. Hanno cos? individuato che a dirigere il processo di rigenerazione degli oligodendrociti produttori di mielina ? il target della rapamicina nei mammiferi, in sigla mTOR (mammalian target of rapamycin). ?Non sappiamo ancora per? se per indurre l?organismo a riparare il danno baster? attivare questa via, oppure se ci sono altri impedimenti ambientali, per esempio il processo infiammatorio in atto, a impedire la sua normale funzione? ha messo le mani avanti Teresa L. Wood, docente al Department of Neurology and Neurosciences dell?ateneo del New Jersey e titolare di una cattedra specifica in sclerosi multipla, che ha coordinato il lavoro.

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Emorragia intracerebrale associata a Warfarin: predittori di outcome

L?emorragia intracerebrale associata a terapia con Warfarin ( Coumadin ) sta diventando pi? comune in seguito all?aumento dell?uso di questo tipo di trattamento nella popolazione anziana.

Scopo dello studio retrospettivo condotto da Ricercatori della Mayo Clinic di Rochester negli Stati Uniti, ? stato quello di delineare i fattori associati alla mortalit? precoce, di determinare le variabili responsabili per l?esito funzionale non-favorevole e di valutare le possibili ragioni dell?espansione dell?emorragia e dell?edema parenchimale associato.

Sono state valutate le informazioni cliniche e radiologiche di 88 pazienti con emorragia intracerebrale associata a Warfarin.
Al momento della presentazione, i pazienti arruolati nello studio avevano un INR ( International Normalized Ratio ) di 1.5 o superiore.

Le variabili di outcome includevano: mortalit? a 7 giorni, allargamento dell?ematoma ed esito funzionale in base al punteggio della Scala di Rankin modificata.

La mortalit? a 7 giorni ( 39.8% ) ? risultata associata a un pi? basso punteggio complessivo alla scala Glasgow Coma Score ( GCS ), e a un maggiore volume di emorragia intracerebrale alla presentazione.

L?analisi univariata ha rivelato che un pi? basso punteggio complessivo alla scala GCS, un maggiore volume iniziale di emorragia intracerebrale, una pi? alta concentrazione massima di glucosio in fase iniziale e dopo 48 ore, e una maggiore percentuale di espansione dell?emorragia intracerebrale sono risultati significativamente associati a un esito funzionale non-favorevole al momento della dimissione dall?ospedale.

Dopo analisi multivariata solo un pi? basso punteggio complessivo alla scala di Glasgow e un maggiore volume iniziale di emorragia intracerebrale sono rimasti significativamente associati all?esito funzionale misurato al momento delle dimissioni e all?ultima visita di follow-up.

Al contrario, il valore di INR alla presentazione, il tempo necessario per correggere l?INR, la pressione sanguigna iniziale e l?allargamento dell?edema non sono risultati associati all?esito funzionale alla dimissione o all?ultimo controllo di follow-up.

Non ? stata osservata alcuna correlazione tra l?aumento dell?emorragia intracerebrale o l?edema parenchimale e la glicemia al momento dell?ammissione in ospedale o nelle prime 48 ore.

In conclusione, un pi? basso livello di stato di coscienza alla presentazione e un maggiore volume iniziale di emorragia intracerebrale sono risultati essere predittori di una prognosi non-favorevole nei pazienti con emorragia intracerebrale associata a Warfarin.
In questo studio di popolazione il valore di INR alla presentazione non era associato all?esito funzionale.

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Nefropatia, giocare d?anticipo

In Italia si stimano oltre due milioni di persone che soffrono, spesso senza saperlo, di danni renali, danni che, quando aggravati, mettono a rischio di complicanze cardiovascolari, di dialisi, di trapianto. L?incidenza delle malattie renali aumenta con il crescere dell?et?, ma anche per fattori di rischio come ipertensione, diabete, obesit?, colesterolo alto e fumo, e la progressione ? lenta e subdola per cui spesso la scoperta ? a danno avanzato: prevenzione e diagnosi restano perci? fondamentali, a fronte di concreti progressi terapeutici. Queste le ragioni della Giornata mondiale del rene, il 12 marzo, e della Campagna di prevenzione promossa da SIN e SIR (Societ? Italiana di Nefrologia e Fondazione Italiana del Rene) con il sostegno di Amgen Domp?, con visite gratuite in 65 piazze italiane, Nefrologie aperte, screening in scuole superiori. ?Il problema, nel mondo, ? che le malattie renali sono sempre pi? frequenti, si pensi che nel 2010 si prevedono due milioni di pazienti in dialisi cronica, mentre la gente non ? informata in materia, come ha mostrato anche un?indagine italiana d?inizio anno? commenta, alla presentazione della Giornata, Vittorio Andreucci, ordinario di Nefrologia dell?Universit? Federico II di Napoli e presidente FIR.

Pressione da controllare
In Italia ci sono 6.000 nuovi casi di dialisi all?anno, e rispetto alla valutazione di 200 nuovi casi per milione di persone (340 negli Stati Uniti) il dato dovrebbe essere pi? alto. C? ? anche il risvolto economico, dato che il trattamento sostitutivo dell?insufficienza renale arriva al 5% della spesa sanitaria nazionale. ?La prevalenza italiana delle malattie renali ? elevata: si calcola che circa il 10% della popolazione ne abbia una cronica, con perdita cio? di pi? di met? della funzione renale data dalla filtrazione di 60 ml/sangue al minuto contro i 120 normali (stadio 3 su cinque stadi di gravit?, dei quali l?ultimo richiede dialisi o trapianto)? sottolinea Antonio Dal Canton, ordinario di Nefrologia dell?Universit? di Pavia e presidente SIN. Il tema di quest?anno della Giornata ? ?Tieni sotto controllo la pressione?: i reni infatti contengono gomitoli di capillari (i glomeruli) che filtrano il sangue e l?ipertensione danneggia i vasi, come avviene a livello cardio e cerebrovascolare; in senso opposto, i reni malati causano a loro volta ipertensione. Primi segni di potenziali problemi per i reni sono l?ipertensione, la perdita di proteine nelle urine (proteinuria) e il diabete, che per? sovente non causano disturbi e restano inosservati, mentre si possono correggere e curare, prevenendo danni irreversibili. ?La diagnosi precoce di nefropatia ? essenziale perch? interventi di prevenzione e terapia possono rallentare o arrestare la progressione? spiega Dal Canton. ?Bastano semplici esami come creatinina e proteine nel sangue, e nelle urine, proteinuria, ematuria, peso specifico; importante naturalmente misurare periodicamente la pressione. I sintomi invece sono spesso generici, come stanchezza eccessiva, inappetenza, nausea, minzioni frequenti e soprattutto notturne, urine scure, edema alle gambe?.

No a obesit? e fumo, meno sale
Le buone regole della prevenzione sono controllare la pressione, la colesterolemia e la glicemia, fare l?esame delle urine almeno annualmente, mantenere il peso ideale, non fumare, alimentarsi con poco sale, curarsi in particolare per ipertensione, aterosclerosi, diabete e obesit?, consultare il medico se c?? familiarit? per malattia renale o se ci sono sintomi sospetti come quelli citati. ?I dati di 17.000 soggetti osservati dalla prima Campagna di prevenzione nel 2004? riprende Andreucci ? hanno indicato invece che il 20% era iperteso (pressione uguale o maggore di 140/90 mmHg) e che il 14% presentava proteinuria, in entrambi i casi senza saperlo. E che l?informazione sulle malattie renali sia scarsa lo attesta l?indagine Gfk Eurisko per Amgen Domp?, nella quale il 56% ha risposto erroneamente che danno sempre sintomi, il 49% di coloro che sapevano cosa fosse l?insufficenza renale (89% dei 1400 soggetti intervistati) ha detto che non si pu? fare nulla per prevenirla, il 19% ha affermato di averne sentito parlare dal medico contro il 70% dai media?. Da questo l?utilit? della Giornata e della Campagna. Le iniziative per il 12 marzo sono il Progetto Camper insieme con la Croce Rossa in 65 citt?, con controllo gratuito di pressione ed esame urine; il Progetto Scuole medie superiori per gli stessi controlli tra gli studenti; le Nefrologie aperte sempre per esami e informazioni; la distribuzione (anche attraverso medici di famiglia) di 62.500 opuscoli dal titolo ?conoscere i reni?. Informazioni sui siti SIN e FIR, cio? www.sin-italy.org e www.fondazioneitalianadelrene.org.

Elettra Vecchia

Fonti
Conferenza stampa ?Cura la salute dei tuoi reni?, Milano 2 marzo 2009.

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