Fibromialgia: meno sonno pi? dolori

Curando i problemi del riposo notturno si hanno ricadute positive anche sulla malattia.
Chi soffre di fibromialgia presenta spesso disturbi del sonno che, secondo uno studio americano pubblicato su Arthritis Care & Research, contribuirebbero ad accentuare i sintomi della malattia. Non solo, sembrerebbe che i problemi del sonno siano predittivi di sintomi dolorosi e che possano essere collegati anche ai sintomi depressivi che spesso affliggono le persone con fibromialgia.
SINTOMI ? I ricercatori statunitensi hanno esaminato una serie di fattori, ovvero qualit? del sonno, dolore, depressione e funzionalit? fisica, in circa 500 pazienti con fibromialgia, seguiti per un anno. Obiettivo dello studio cercare di identificare i problemi del sonno che affliggono questi pazienti ed esaminarne la relazione con dolore, depressione e funzionalit? fisica. La maggior parte dei pazienti coinvolti, circa il 95%, presentava in effetti disturbi del sonno. Analizzando i collegamenti tra i vari sintomi i ricercatori hanno visto che problemi del sonno erano predittivi di sintomi dolorosi, che sintomi dolorosi erano predittivi di problemi di funzionalit? fisica e che problemi di funzionalit? fisica erano a loro volta predittivi di sintomi depressivi.
SONNO – ?Almeno l?80-90 per cento dei pazienti con fibromialgia presenta disturbi del sonno ? conferma Laura Bazzichi, coordinatrice del Centro per la fibromialgia e la fatica cronica della Clinica reumatologica dell?Universit? di Pisa -. In genere i problemi pi? diffusi sono un sonno non ristoratore e difficolt? ad addormentarsi. Studi in cui ? stata analizzata la microstruttura del sonno dei pazienti fibromialgici hanno in effetti evidenziato che ci sono delle alterazioni nel rapporto tra fase Rem (rapid eye movements = movimenti oculari veloci) e non Rem. Le alterazioni del sonno possono indubbiamente avere ricadute negative sui sintomi tipici della malattia perch? durante il sonno si verifica la produzione dell?ormone della crescita (Gh), che a sua volta induce la produzione di un’altra sostanza, il fattore di crescita insulino simile (Igf-1), che gioca un ruolo importante nella riparazione di tutti quei piccoli danni che si verificano quotidianamente a livello muscolare. Se il sonno ? disturbato ne risente anche tutta questa catena di eventi e quindi i sintomi peggiorano?.
TRATTAMENTO ? Se il sonno non ? ristoratore bisogna fare in modo che lo diventi, ma come? ?L?intervento deve essere su vari livelli. Innanzitutto bisogna vedere se il paziente ha una buona igiene del sonno e se ci? non accade dargli gli accorgimenti necessari come non fare sonnellini pomeridiani, evitare di addormentarsi davanti alla televisione, non bere caff? alla sera, fare un po? di attivit? fisica, svegliarsi e andare a letto a orari regolari ? spiega la dottoressa Bazzichi -. Se invece ci si rende conto di essere in presenza di un vero e proprio disturbo del sonno bisogna capire la causa e quindi intervenire. In molti casi il sonno non ristoratore ? legato alle variazioni ormonali della menopausa o a problemi d?ansia e quindi, se non ci sono controindicazioni, si pu? pensare di ricorrere a trattamenti come la terapia ormonale sostitutiva nel primo caso e farmaci ansiolitici nel secondo. Altre volte invece bisogna puntare sui farmaci ipnotici, scegliendo quello pi? adatto nel singolo caso senza perdere di vista l?obiettivo che non ? aumentare le ore di sonno, ma migliorarne la qualit??.

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Parkinson: lo studio, cura precoce puo’ rallentarlo

Roma, 27 ago. (Adnkronos Salute) – Parkinson ‘lumaca’ se il farmaco per tenere a bada i sintomi del temibile morbo viene assunto precocemente. E’ quanto emerge dai primi dati di una ricerca internazionale, presentata al congresso dell’European Federation of Neurological Societies a Madrid, che ha coinvolto oltre mille pazienti europei e statunitensi.

Secondo i dati iniziali, la terapia farmacologica somministrata fin dai primi sintomi pu? rallentare la progressione della malattia neurologica. Ma i ricercatori che hanno condotto lo studio ci tengono tuttavia a precisare che occorreranno altri 10-15 anni prima di conoscere i benefici a lungo termine di questo approccio.

Intanto, per?, dai risultati preliminari emerge chiaramente che i pazienti trattati con rasagilina – questo il nome della molecola al centro dello studio – subito dopo la diagnosi di Parkinson hanno avuto una forma meno aggressiva della malattia rispetto alle persone curate con la stessa molecola a uno stadio pi? avanzato della malattia.

La rasagilina ? gi? usata per curare il Parkinson, ma ? aperto il dibattito su quando sia il momento giusto per iniziare a somministrarla. Alcuni medici, infatti, sono restii a prescriverla nella fasi precoci della malattia, temendo che nel tempo l’effetto possa smorzarsi.

Lo studio, che secondo David Burn dell’universit? di Newcastle ha fornito dei primi risultati “esaltanti”, ha mostrato che i pazienti trattati con rasagilina subito dopo la diagnosi erano, dopo 18 mesi, in condizioni migliori rispetto a quelli in terapia con lo stesso farmaco ma solo a partire da nove mesi dalla diagnosi. Gli studiosi ritengono che il farmaco potrebbe essere in grado di creare una protezione di lunga durata in difesa delle cellule cerebrali. Una sorta di scudo contro la progressione del morbo di Parkinson.

L’effetto della rasagilina ? tuttavia molto sottile, sottolineano i ricercatori che hanno presentato lo studio a Madrid. I benefici, infatti, sono stati riscontrati nei pazienti trattati con una dose di un milligrammo, non in quelli curati con una dose maggiore.

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Parkinson: tremore addio, tenuto a bada nel 90% malati

Madrid, 26 ago. (Adnkronos Salute) ? E’ il tratto distintivo del Parkinson, impresso nella memoria dell’opinione pubblica mondiale dalle immagini di papa Woitjla o del gigante della boxe Mohammed Al? piegato dalla malattia. Eppure il tremolio che accompagna questa patologia neurodegenerativa sembra essere ormai “nient’altro che un brutto ricordo”. Un terzo dei malati, infatti, non sviluppa questo tipo di sintomo, mentre per tutti gli altri “nel 90% dei casi – spiega Angelo Antonini, docente di neurologia all’universit? Milano-Bicocca, a margine di un incontro a Madrid, dove ? in corso il XII congresso dell’European Federation of Neurological Societies ? ? possibile tenerlo a bada grazie alle terapie attualmente in uso”.

In pensione o quasi, dunque, il sintomo per antonomasia del Parkinson, ma la strada per chi fa i conti con questa malattia resta innegabilmente tutta in salita. Oltre ai problemi motori e muscolari, infatti, ansia, depressione, apatia e attacchi di panico rendono un inferno la vita di questi malati. In particolare, la depressione ? il sintomo ‘Cenerentola’ per eccellenza. Affligge, infatti, “ben un parkinsoniano su due – spiega Anthony Schapira, docente di neurologia al National Hospital and Royale Free Hospital di Londra – anche se parte della letteratura sostiene che la percentuale sia ben pi? alta, ovvero si aggiri attorno al 76%”. Tutta colpa della dopamina, il neurotrasmettitore le cui alterazioni sono coinvolte nell’insorgenza del Parkinson, che “incide anche sulla sfera emotiva – sottolinea Antonini – alterandola”. Eppure il ‘mal di vivere’ finisce spesso per passare in sordina.

“In uno studio condotto in 50 centri italiani, ad esempio, emerge che solo un terzo dei malati di Parkinson alle prese con la depressione riceve una terapia contro il male oscuro. Eppure – prosegue Antonini – questa condizione incide significativamente sulla qualit? di vita dei pazienti”. Anche se, a dire il vero, non sempre l’antidepressivo rappresenta la soluzione per questi pazienti. I sintomi depressivi, infatti, persistono in circa la met? dei malati di Parkinson che riceve farmaci ad hoc. Per questo, gli studiosi stanno passando sotto la lente di ingrandimento una molecola gi? in uso per tenere a bada i sintomi del Parkinson, che potrebbe tuttavia rivelarsi preziosa anche come antidepressivo. “Si tratta – spiega Antonini – del pramipexolo, che interagisce sul sistema della dopamina e su quegli squilibri biochimici che accendono la malattia”. I primi risultati, intanto, “lasciano ben sperare.

Il profilo recettoriale di pramipexolo potrebbe essere responsabile delle possibili propriet? antidepressive della molecola. Se identificati correttamente, dunque, i pazienti con Parkinson e afflitti da depressione – conclude l’esperto – potrebbero riconoscere in questa la terapia migliore per salvaguardare, per quanto possibile, il loro stile di vita”. La Boehringer Ingelheim, azienda produttrice della molecola, ? intanto a lavoro su una nuova formulazione del pramipexolo, per sostituire le tre pasticche giornaliere attualmente in uso con un’unica compressa. All’appuntamento madrileno sono stati presentati gli studi di farmacocinetica, fase I, della nuova formulazione

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Placche aortiche e ictus ricorrente

Nei pazienti con ictus, la presenza di grandi placche aortiche ? associata ad ipercoagulabilit?, ed entrambe le patologie sono un fattore di rischio di recidiva dell’ictus. Il potenziale embolico di una placca ? composto da qualcosa di pi? del suo mero spessore: placche dello stesso spessore possono avere una composizione differente diversi cofattori associati, come ad esempio l’ipercoagulabilit?, il che potrebbe determinare propensioni molto diverse all’embolia. Per questi pazienti, se si guarda all’attivazione del sistema della coagulazione, l’anticoagulazione sistemica risulterebbe preferibile agli agenti antipiastrinici, ma rimane da dimostrarsi se l’uso dell’anticoagulazione possa di fatto risultare in una riduzione del rischio di ictus recidivante. Prendere decisioni terapeutiche solo sulla base dello spessore della placca comunque potrebbe non essere adeguato: sono necessari ulteriori studi per chiarire se la combinazione fattori di rischio clinici, ecocardiografici e biologici possa aiutare a stratificare pi? accuratamente il rischio di tromboembolia nei pazienti con grave arteriosclerosi dell’arco aortico e determinare l’impatto prognostico di questi marcatori in diversi ambiti clinici. Nel frattempo, l’anticoagulazione orale dovrebbe essere riservata ai pazienti con trombi sovraimposti rilevati tramite ecocardiografia transesofagea. Le indicazioni per l’endoarteriectomia aortica chirurgica dovrebbe essere ristretta a pazienti altamente selezionati con un basso rischio operatorio ed eventi embolici documentati nonostante la somministrazione di un trattamento ottimale. (J Am Coll Cardiol 2008; 52: 855-64)

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Effimera ipercolesterolemia da chetogena

Nella maggior parte dei bambini che seguono una dieta chetogena a elevato contenuto in grassi e basso contenuto in carboidrati per l’epilessia si sviluppa ipercolesterolemia, ma i livelli di colesterolo migliorano naturalmente nella met? di questi bambini senza bisogno di alcun intervento. L’eccesso di grassi che si produce viene dunque metabolizzato dal bambino: dato che molti bambini riescono a controllare molto bene gli attacchi epilettici con la dieta chetogena, l’incremento probabilmente temporaneo della colesterolemia va messo in prospettiva e non ? probabilmente pericoloso. In alcuni casi, comunque, in alcuni bambini nemmeno i migliori farmaci disponibili riescono a diminuire i livelli di colesterolo, e quindi sono necessarie comunque nuove strategie. (J Child Neurol online 2008, pubblicato il 12/9)

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Ernie intervertebrali: conveniente chirurgia

La dischectomia aperta standard risulta moderatamente conveniente se confrontata al trattamento non chirurgico: il valore economico dell’intervento varia in modo considerevole, in base al metodo usato per assegnare i costi chirurgici, ma rimane relativamente favorevole. Bench? la chirurgia sia pi? costosa del trattamento non operatorio, gli esiti a due anni risultano migliori fra i soggetti trattati chirurgicamente. Ci? non deve sorprendere: la chirurgia inizialmente ? pi? costosa, ma a lungo termine presenta dei vantaggi evidenti anche per coloro il cui stato di salute iniziale ? peggiore. Dato che la chirurgia per? pu? costare approssimativamente il doppio rispetto ad altre opzioni, i medici potrebbero prendere in considerazione un approccio conservativo per i pazienti con difficolt? economiche. (Spine. 2008; 33: 2108-15)

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Strategia terapeutica contro l’osteoporosi

Nelle malattie croniche, quale l’osteoporosi, il miglioramento dell’aderenza ? uno degli obiettivi prioritari per assicurare il successo del trattamento e la persistenza ? un fattore determinante nell’outcome clinico. I bisfosfonati sono notoriamente di prima scelta sia nel controllo della patologia sia nella prevenzione delle relative complicanze fratturative. Tuttavia la persistenza nell’assunzione di questi farmaci risulta ancora insoddisfacente, in relazione agli schemi posologici non sempre di facile attuazione e praticit?. La nuova formulazione mensile di risedronato 75 mg, da somministrare in 2 giorni consecutivi al mese, recentemente approvata anche in Italia, rappresenta la prima opzione terapeutica a soddisfare pienamente i requisiti attualmente considerati imprescindibili al fine del successo terapeutico: rapidit? d’azione, efficacia in tutti i distretti scheletrici e suo mantenimento nel tempo, sicurezza, tollerabilit? e maggiore semplicit? di assunzione. Le conclusioni degli studi clinici, tra cui un trial prospettico in doppio cieco di Delmas e coll. (Osteoporos Int. 2008;19:1039-1045), su oltre 1.200 donne in post-menopausa affette da osteoporosi, hanno dimostrato l’equivalenza di risedronato 75 mg mensile rispetto al dosaggio giornaliero di 5 mg, in termini di densit? minerale ossea, marker di turnover osseo, incidenza di fratture vertebrali e profilo degli eventi avversi. Evidenze, queste, confermate anche da un’indagine di Watts e coll. (J Bone Miner Res. 2007;22:S456), che ha posto retrospettivamente a confronto i dati ottenuti con risedronato 75 mg con una coorte storica costituita da pazienti dei gruppi placebo degli studi VERT (Vertebral Efficacy of Risedronate Therapy): dopo 12 mesi di trattamento il rischio di nuove fratture vertebrali nel gruppo risedronato ? apparso inferiore del 79% rispetto al gruppo placebo “storico” (p = 0,016), con una riduzione analoga a quella verificatasi nei gruppi degli studi VERT MN e NA (rispettivamente 61 e 65%) in trattamento attivo con 5 mg al giorno di risedronato.

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Dal linfoma si guarisce di pi?

Oltre un milione di persone nel mondo convivono con un linfoma. Tumori maligni del sistema linfatico in forte aumento anche in Italia, con un ritmo pari a 15.000 nuovi casi l’anno. “Penso che oggi 200.000 italiani vivano e lottino anche da anni con un linfoma”, stima Franco Mandelli, padre dell’ematologia italiana e presidente dell’Ail (Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma), ieri a Roma per la celebrazione della Giornata mondiale per la conoscenza dei linfomi. “Una giornata necessaria perch? la gente li teme, ma conosce poco i linfomi. La buona notizia – aggiunge l’ematologo – ? che oggi questi tumori sono sempre pi? curabili e guaribili e in alcune forme, come il linfoma di Hodgkin, arriviamo all’80% di guarigioni”. Ma a fronte di armi sempre pi? potenti e selettive e di protocolli pi? efficaci, la frequenza di questa malattia ? in aumento. Sotto accusa principalmente quattro sospettati speciali. “Pensiamo infatti all’aumento dell’et? media, ma anche degli inquinanti come lo smog e le polveri sottili in citt?, al fumo e al ruolo di pesticidi e insetticidi”, sottolinea Mandelli.

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Osteoartrosi del ginocchio inutile l’artroscopia

La chirurgia artroscopica per l’osteoartrosi del ginocchio non offre alcun beneficio aggiuntivo rispetto ad una terapia medica e fisica ottimale. L’efficacia di questa strategia era finora sconosciuta: la chirurgia artroscopica, nella quale un artroscopio viene inserito nell’articolazione del ginocchio, consente di effettuare il lavaggio, una procedura che rimuove materiale particolato quale i frammenti di cartilagine ed i cristalli di calcio. Essa consente anche di effettuare il cosiddetto “debridement”, con il quale ? possibile ripulire le superfici articolari ed eliminare gli osteofiti. Il fatto che essa non sia utile in questi pazienti non significa che non lo sia anche in presenza di altre condizioni patologiche del ginocchio, come le lacerazioni del menisco. L’osteoartrosi, in sostanza, non ? una controindicazione alla chirurgia artroscopica, che rimane appropriata nei casi in cui si pensa che l’osteoartrosi non sia la causa primaria del dolore. La decisione corretta dunque rimane a carico del giudizio clinico del chirurgo. (N Engl J. Med. 2008; 359: 1097-107 e 1169-70)

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Il rischioso rebound delle statine

31 Gen 2009 Cardiologia

I pazienti che sospendono la terapia statinica dopo un infarto miocardico acuto risultano esposti ad un rischio di mortalit? raddoppiato durante l’anno successivo rispetto a quelli che non hanno mai fatto uso di statine. Al contrario, nessuna delle altre strategie di prescrizione riguardanti altri farmaci cardiovascolari ha alcun effetto deleterio statisticamente significativo sulla sopravvivenza. La spiegazione pi? probabile per il fenomeno consiste in un effetto rebound biologico dopo la sospensione delle statine, bench? non sia possibile escludere che esso sia in realt? un dato non veritiero che rispecchia semplicemente la sospensione della terapia in pazienti molto gravi. I pazienti infartuati comunque sono fortemente a rischio di altri eventi, ed in assenza di chiare controindicazioni devono essere trattati aggressivamente, sottolineando anche l’importanza di aderire alle prescrizioni. Questi dati confermano quelli di studi precedenti, e quindi la prosecuzione della terapia statinica a seguito dell’insorgenza di sindromi coronariche acuta ? cruciale e probabilmente importante in sommo grado per i pazienti ad elevato rischio cardiovascolare. (Eur Heart J 2008; 29: 2061-3 e 2083-91)

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