Celiachia: le indicazioni dietetiche da fornire. La diagnosi oggi è più comune in età adulta

Proposto un iter diagnostico differenziato in base alla gravità dei sintomi

Il morbo celiaco è dovuto ad un’intolleranza permanente al glutine causante un’atrofia dei villi dell’intestino tenue ed un conseguente malassorbimento di gravità variabile (NEJM 2007, 357: 1731-1743; Ann Intern Med 2005, 142: 289-298).
La prevalenza della celiachia è stimata del 1-1,5% della popolazione e viene sottostimata dal numero dei casi diagnosticati (www.ministerosalute.it).

La celiachia può essere del tutto asintomatica o invece manifestarsi in età adulta o pediatrica solo con dolori addominali ricorrenti e/o con ritardo di crescita o bassa statura, calo ponderale, steatorrea, diarrea o stipsi e numerose manifestazioni extra-intestinali (astenia da anemia da carenza di ferro, folati o vitamina B12, iperparatiroidismo e osteopenia da carenza di vitamina D e calcio, displasia dello smalto dentario, tetania da ipocalcemia, emorragie e porpora da carenza di vitamina K, xeroftalmia da carenza di vitamina A, edemi da enteropatia protido-disperdente con ipoalbuminemia, ipertransaminasemia da epatite autoimmune, alopecia, dermatite erpetiforme, stomatite aftosa, ecc.). La celiachia può associarsi ad altre malattie autoimmuni e se non diagnosticata o non curata può essere complicata da coliti, linfomi e altre neoplasie del tenue e dell’esofago (Br Med J 2004, 329: 716-719).

Diagnosi
Sono test diagnostici di screening per la celiachia la ricerca nel siero di anticorpi anti-transglutaminasi, anti-endomisio, anti-gliadina. Il gold standard diagnostico è la biopsia, mediante endoscopia, della mucosa del digiuno che appare appiattita e documenta all’esame istologico l’atrofia dei villi intestinali, l’iperplasia delle cripte e l’infiltrazione linfocitaria della lamina propria, lesioni reversibili escludendo il glutine dalla dieta.La celiachia non è più intesa come una patologia solo pediatrica in quanto attualmente l’età media di diagnosi è di circa 40 anni.
La determinazione degli anticorpi anti-transglutaminasi e anti-endomisio ha dimostrato una sensibilità del 78% ed una specificità del 100% per la diagnosi di celiachia (Br Med J 2007, 335: 1244-1247).
La biopsia intestinale mediante endoscopia per accertare la diagnosi può essere rifiutata dai pazienti in quanto esame invasivo e inoltre l’esito istologico riscontrabile nella celiachia è riscontrabile anche in altre patologie ( tabella 1), ma esistono forme di celiachia sieronegative in cui la biopsia è determinante per la diagnosi. Perciò è stato proposto e validato un iter diagnostico che distingue i soggetti ad alto e basso rischio di celiachia in base alla sintomatologia riferita, proponendo quindi a coloro che presentano disturbi aspecifici come dolore addominale, dispepsia, nausea e vomito solo la determinazione degli anticorpi specifici, proponendo invece a coloro che presentano perdita di peso, anemia e diarrea la determinazione degli anticorpi specifici seguita sempre, anche in caso di loro negatività, dalla biopsia digiunale (Br Med J 2007, 334: 729).

Terapia
La dieta priva di glutine è l’unica terapia efficace per la celiachia (www.celiachia.it).Il glutine è presente, ad esempio, nelle farine di frumento, orzo, segale, nel malto, crusca, pane, pasta, pizza, dadi da brodo, lievito di birra, birra, caffè solubile, olio di semi vari, margarina, formaggini, dolciumi, biscotti, cioccolate, gelati confezionati che quindi sono cibi vietati. L’avena non contiene glutine, ma può essere contaminata dal glutine. Così pure i cibi industriali preconfezionati o surgelati.
Sono cibi consentiti nella dieta: riso, mais, miglio, fecola di patate, grano saraceno, soia, tapioca, olio d’oliva, olio di mais e di arachide e di girasole, carni e pesce (non impanati con farine vietate), uova, verdura e frutta fresca, latte e derivati se non è presente un’intolleranza al lattosio secondaria, tè, caffè, spremute e succhi di frutta, vino.
L’associazione dei pazienti celiaci fornisce un’informazione dettagliata sui cibi permessi che di norma presentano sulle confezioni un logo con la spiga barrata attestante che il prodotto è privo di glutine (www.celiachia.it).Il Sistema Sanitario ai sensi della legge n. 123 del 4 luglio 2005 fornisce gratuitamente ai soggetti con diagnosi accertata prodotti alimentari privi di glutine attraverso le farmacie cui si accede con prescrizione del medico curante facente riferimento al Decreto Ministeriale n.279 del 18 maggio 2001 e prevede la possibilità di fornire alimenti senza glutine nelle mense scolastiche, ospedaliere e di strutture pubbliche.

01-12-UNV-2009-IT-2647-W 

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Il cancro non rallenta: i trend 2008-2030

16 Nov 2012 Oncologia

Incrociare i dati di morbilità e mortalità oncologica con gli indicatori di benessere delle nazioni: l’obiettivo di uno studio pubblicato su The Lancet Oncology è tanto originale quanto interessante. Sono stati utilizzati quattro livelli (basso, medio, elevato, molto elevato) di un indicatore che considera attesa di vita, scolarizzazione e prodotto interno lordo pro capite, lo Human Development Index (HDI) e sono stati evidenziati i modelli di andamento delle patologie oncologiche nel 2008 e tra il 1988 e il 2002.

Nelle nazioni a più elevato HDI nel 2008 i tumori della mammella, del polmone, del colon-retto e della prostata erano responsabili della metà dei casi di cancro. Nei Paesi a HDI medio, cancro dello stomaco, dell’esofago e del fegato erano ugualmente frequenti dei precedenti, e a loro sommati valevano il 62% della patologia tumorale. Nelle regioni a basso HDI, il cancro della cervice uterina era più frequentemente diagnosticato sia di quello alla mammella sia di quello epatico. Quanto ai trend, considerati i Paesi mediani, a una riduzione del cancro dell’utero e di quello dello stomaco corrisponde purtroppo un aumento dell’incidenza del cancro del seno, della prostata e del colon-retto. La notizia peggiore è nella crescita complessiva dei nuovi casi dai 12.700.000 del 2008 alla stima, per il 2030, di 22.200.000.

Questo studio si inserisce in una serie di ricerche che confrontano i dati del “Primo mondo” con il cosiddetto “Sud del Pianeta”: nonostante la permanenza di inaccettabili condizioni di indigenza e sottosviluppo, i miglioramenti igienici e una più capillare assistenza sanitaria contribuiscono ad una progressiva riduzione delle patologie oncologica di origine infettiva. Queste “buone notizie” sono purtroppo compensate dall’evidenza di un importante aumento dei tumori originati da cause diverse: riproduttive, ormonali o da cattive abitudini alimentari. Se le strategie vaccinali possono giocare un ruolo essenziale, ci si chiede quanto questa marea montante di neoplasie possa essere fronteggiata con terapie a costo sempre più elevato, probabilmente inaccessibili dalle popolazioni dei paesi economicamente più svantaggiati.

“Sembra che il cancro sia un prodotto inevitabilmente associato ai Paesi più ricchi e con la popolazione più longeva”, ha dichiarato alla CBC uno dei ricercatori autori della ricerca, Freddie Bray, della International Agency for Research on Cancer; sottolineando, però, che i trend di crescita di nazioni come la Cina (allarmanti i dati sul tumore al polmone) e l’Uganda (dove convivono patologie “da povertà” e patologie “da nuova ricchezza”) sono fonte di particolare preoccupazione.

▼ Bray F et al. Global cancer transiting according to the Human Development Index (2008-2030) A population-based study. Lancet Oncology 2012; DOI: 10.1016/S1470-2045(12)70211-5

ONCO-1044934-0000-UNV-W-06/2014 

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Nutritional counseling – Parte 1

 

Sezione 1

Le basi fondamentali della nutrizione e della dietetica

Il concetto di nutrizione o l’insieme di processi grazie ai quali l’organismo riceve, trasforma e utilizza i principi alimentari o nutrienti è oggi uno degli argomenti di maggiore interesse e attualità. La nutrizione dipende essenzialmente dall’ alimentazione, la quale finisce in definitiva per condizionare lo stato di salute. I nutrienti, interagendo con il patrimonio genetico, possono favorire o prevenire patologie degenerative, difetti congeniti, danno biologico ossidativo, turbe della flogosi e della reattività immunitaria. In questa direzione il medico di medicina generale (MMG) si trova spesso nella posizione di dover consigliare una dietoterapia, come supporto indispensabile alla cura della maggior parte delle patologie incontrate nella pratica clinica quotidiana. I consigli dietetici divengono una vera e propria prescrizione medica, nella quale è necessario che vengano citati alimenti e raccomandazioni qualitative e quantitative, il concetto di nutrizione diviene, in questo modo, interdisciplinare ed implementato da acquisizioni che conducono ad applicazioni pratiche di educazione alimentare con la finalità di perseguire, attraverso la risposta fisiologica, un ottimo stato di salute e di benessere. Alcuni dismetabolismi o deficit congeniti possono trarre beneficio da apporti o diete specifiche; la carenza proteica è responsabile della malnutrizione calorico-proteica che durante la gravidanza, si può associare ad un deficit di proliferazione dei neuroni e, dopo la nascita, ad una ridotta produzione di succo gastrico, pancreatico e biliare, ad un alterato assorbimento intestinale, ad una depressione dell’immunità cellulo-mediata. Sul versante opposto, diete iperproteiche si ripercuotono negativamente sui processi digestivi, sul carico renale dei soluti, sul metabolismo degli aminoacidi, favorendo l’insorgenza di malattie cronico degenerative. Per il ruolo primario dei glicolipidi e delle glicoproteine nel metabolismo energetico, nella sintesi degli acidi nucleici e dei cerebrosidi, e per soddisfare i bisogni energetici del cervello e dei globuli rossi, un equilibrato apporto glucidico è un indispensabile requisito alimentare. 
L’acido folico e l’acido retinoico svolgono un ruolo importante nella morfogenesi e differenziazione dell’embrione: la carenza di acido folico in gravidanza, impedendo il normale sviluppo delle strutture nervose, favorisce l’aumentato rischio di difetti del tubo neurale. Un deficit di vitamina B12 impedisce, a livello del DNA, la trasformazione dell’omocisteina in metionina, con mancata formazione di timidina, e anemia megaloblastica. 
Tutto ciò esplicita chiaramente l’importanza di un regime alimentare equilibrato e la necessità di un intervento sanitario basilare volto a sensibilizzare abitudini e comportamenti qualitativi e quantitativi corretti.

Sezione 2

Scelte e abitudini alimentari

Numerose indagini e ricerche sono state volte alla comprensione dei motivi alla base delle scelte alimentari quotidiane; il risultato è che nella gran parte dei casi, esse risultano condizionate da una serie di fattori etnici, ambientali, climatici, e comportamentali. 
L’Institute of European Food Studies (IEFS) di Dublino (Irlanda) ha condotto uno studio pubblicato in un report del 1999 che ha considerato 14.500 consumatori dei Paesi membri dell’Unione Europea. Lo scopo principale dell’indagine era di analizzare le convinzioni e le abitudini più diffuse tra i cittadini europei in materia di alimentazione. La qualità si è rivelata il criterio fondamentale, mentre, per quanto riguarda i criteri di gusto e prezzo si evidenziavano alcune differenze. Grecia, Lussemburgo e Irlanda, per esempio, valutano in primo luogo l’economia di spesa, mentre Finlandia, Germania e Spagna considerano il gusto come il criterio di selezione principale. Inoltre, circa un terzo degli intervistati, ha dichiarato che la ricerca di un’alimentazione sana sia uno dei tre fattori principali che condizionano gli acquisti. In Austria e Danimarca, questo aspetto è prioritario per la metà degli intervistati, mentre in Francia e in Italia, questa preoccupazione cala al 25%. Un’importanza minore è stata, attribuita agli alimenti dietetici, agli additivi, alla confezione dei prodotti, alla cucina vegetariana o tipica. In merito alle scelte alimentari rispetto alle raccomandazioni nutrizionali, la metà degli intervistati non prende in considerazione il passaggio ad un’alimentazione più sana. Poco meno di un terzo si è sensibilizzato in materia e ha valutato in maniera definitiva il passaggio ad un regime alimentare che includa le raccomandazioni preventive per la salute. In un piccolo gruppo di soggetti dopo un’iniziale cambio di approccio si è verificato un ritorno alle vecchie scelte alimentari. Ma c’è di più. La maggior parte degli intervistati (71%) si riteneva in buona salute. 
Molte ricerche, sono state condotte allo scopo di verificare la relazione tra la dieta e l’insorgenza di patologie. A tal proposito in letteratura è ormai stabilità la stretta dipendenza tra l’insorgenza di coronaropatie e una dieta ricca di grassi saturi e colesterolo. Vegetali e carni di pesce, risultano invece preventivi nei confronti del rischio cardiovascolare. 
Un gruppo di ricercatori svedesi ha pubblicato un recente studio nel quale sono stati arruolati 138 uomini ospedalizzati per cardiopatia coronarica o cardiopatici e valutati per un periodo di follow-up della durata di 12 anni, durante i quali si è osservato che frutta e ortaggi sono direttamente associati ad una riduzione del rischio di cardiopatica coronarica quando combinati con prodotti lattiero – caseari grassi, assunti in quantità elevate. Il consumo di pane integrale e di carni di pesce per almeno 2 volte la settimana, non è stato associato ad alcun miglioramento. Sebbene questi risultati siano da considerare con cautela, dato che appaiono in parte in controtendenza con le consolidate raccomandazioni nutrizionali, mostrano come la ricerca sull’argomento non si sia ancora arrestata e quanto il regime alimentare possa influire sulla salute. Tra i fattori che possono condizionare la scelta tra gli alimenti quelli più riportati sono: le caratteristiche organolettiche quali colore, odore, presentazione e gusto, ma anche l’ambiente e la famiglia. In merito all’ultimo punto, nel 2009 è stato condotto un lavoro di ricerca che ne ha dimostrato la correlazione e il condizionamento. Sono stati arruolati nello studio 247 bambini australiani tra i 7 e i 12 anni. 
In questo studio l’osservazione dei bambini è durato 3 settimane consecutive, nelle quali i bambini sono stati divisi in 2 gruppi e poi incrociati. Un primo gruppo osservava un’alimentazione regolata e monotona e aveva accesso a merende sempre uguali in forma sapore e aspetto. Il secondo gruppo osservava un’alimentazione controllata, ma al momento della merenda aveva accesso libero a differenti tipi di merenda. Al termine dell’osservazione si è potuto dimostrare che, nel lungo periodo, i bambini si sono orientati sempre verso le stesse scelte, senza dare importanza al gusto. In pratica, solo la forma dell’alimento ha influenzato le loro preferenze. I bambini cui sono state proposte merende sempre uguali in forma e gusto, quando messi di fronte all’opportunità di scegliere hanno optato per merendine piccole mantenendo questa scelta costante nel tempo. Questi risultati hanno dimostrato come anche l’aspetto e la continua e costante proposta di un certo alimento possa orientare verso una preferenza e spiegherebbe perché bambini che sono sottoposti ad alimentazione monotona, sono molto diffidenti verso le proposte di nuovi alimenti. E’ probabile quindi che l’ambiente familiare e gli educatori siano responsabili di questa diffidenza innata, in quanto le proposte alimentari durante lo svezzamento sono troppo monotone, e lo svezzamento eccessivamente lungo.

Revisione e adattamento : 
Maria De Chiaro 
Laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche– Medical Information Merqurio Editore

 

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Pochi studi in letteratura hanno valutato l’effetto della terapia radio iodio sul sistema di drenaggio lacrimale.

Lo studio recentemente pubblicato ha valutato la sintomatica e asintomatica ostruzione del dotto naso-lacrimale (NLDO) come complicazione della terapia ad alte dosi. Sono stati selezionati ottantuno casi in modo casuale da una popolazione di pazienti trattati con radioiodio e affetti da carcinoma differenziato della tiroide. I pazienti sono stati classificati in quattro sottogruppi sulla base della dose cumulativa di iodio-131 (I-131). Inoltre, 17 persone di pari età e sesso sono stati scelte come gruppo di controllo. Utilizzando una scheda clinica, i pazienti e i controlli sono stati valutati per NLDO parziale o completa e sintomatica o asintomatica. I dati sui diversi sottogruppi di pazienti sono stati confrontati con i dati del gruppo controllo.

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Circa 29 occhi di 162 esposti (18%) e tre su 34 occhi di controllo (9%) hanno avuto NLDO. Tra i pazienti trattati con meno di 11,1 GBq di I-131 (sottogruppo A), sei su 78 occhi (7,7%) hanno NLDO parziale o completa. Questo è stato evidente in 23 dei 84 occhi (27,4%) tra i pazienti trattati con 11,1 GBq o più (sottogruppo B). La frequenza di NLDO aumenta significativamente quando la dose cumulativa di radioiodio supera i 11,1 GBq (2,9% nel gruppo controllo, 3,8% nel sottogruppo A, e il 23,8% nel sottogruppo B, P = 0,006).

Bibliografia: Fard-Esfahani A, Farzanefar S, Fallahi B, Beiki D, Saghari M, Emami-Ardekani A, Majdi M, Eftekhari M. Nasolacrimal duct obstruction as a complication of iodine-131 therapy in patients with thyroid cancer. Nucl Med Commun. 2012 Jul 19. [Epub ahead of print]

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Sterilizzare l’epidermide in pochi istanti anche in condizioni estreme? Ora si può

Messo a punto un dispositivo portatile al plasma simile a una torcia in grado di sterilizzare in pochiistanti e a temperatura ambiente le aree di epidermide umana irradiate. L’annuncio arriva dal Journal of Physics D: Applied Physics .

Il dispositivo, alimentato da una batteria a 12 volt e realizzato da un team internazionale di ricercatori cinesi ed australiani coordinati da Kostya Ostrikovdel Plasma Nanoscience Centre Australia (PNCA), potrebbe rivelarsi molto utile come dotazione di mezzi di pronto soccorso urbano, in siti colpiti da disastri, in teatri di guerra e in caso di assistenza sanitaria in aree geografiche remote.

Lo studio ha dimostrato la capacità del dispositivodi inattivare in circa 5 minuti un biofilm di 25,5µm di spessore di uno dei ceppi batterici esistenti più resistenti al trattamento con antibiotici e al calore, Enterococcus faecalis . Il plasma non si è limitato a inattivare gli strati superiori del biofilm, ma ha ucciso anche i batteri presenti negli strati più profondi.“Si tratta di un risultato molto importante”, spiega Ostrikov, “perché i biofilm batterici si sono finora dimostrati molto resistenti alle strategie di inattivazione, a meno di usare alte temperature che però danneggerebbero l’epidermide umana e causerebbero dolore nel paziente”. Si tratta di un device dal costo stimato decisamente contenuto, meno di 100 dollari a pezzo: “Forse prima di metterlo sul mercato sarà necessario miniaturizzare qualcosa e dotare il dispositivo di un design più accattivante, ma la sostanza non cambia”, commenta ancora Ostrikov.

Il meccanismo dell’attività fortemente antibatterica del plasma, già nota da tempo, è tuttora largamente inspiegato: si suppone che l’interazione tra plasmae aria crei un cocktail di sostanze chimiche (principalmente derivati di azoto e ossigeno altamente reattivi) simili a quelle sintetizzate dal sistema immunitario umano.

▼Pei X, Yang Y, Ostrikov K et al. Inactivation of a 25.5 µm Enterococcus faecalis biofilm by a room-temperature, battery-operated, handheld air plasma jet. Journal of Physics D: Applied Physics 2012; 45(16) doi:10.1088/0022-3727/45/16/165205 

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Dolore cronico al collo, esercizi meglio con supervisione esperti

12 Nov 2012 Ortopedia

In uno studio randomizzato controllato americano su pazienti con dolori cronici al collo, esercizi di rafforzamento effettuati sotto supervisione, con o senza manipolazione, hanno prodotto risultati migliori rispetto agli esercizi svolti a casa, soprattutto nel breve termine. I 270 pazienti studiati lamentavano dolore al collo aspecifico che durava da almeno 12 settimane e di intensità almeno pari a 3 in una scala da 0 a 10. Un terzo di loro ha seguito un programma intenso di esercizi di rafforzamento con l’aiuto di terapisti e la supervisione di clinici combinati con interventi di manipolazione spinale o di mobilizzazione, un altro terzo ha effettuato gli stessi esercizi ma senza manipolazione, mentre ai rimanenti sono stati assegnati esercizi più blandi da eseguire a casa. Oltre che al basale, gli autori dello studio hanno controllato i partecipanti dopo 4, 12, 26 e 52 settimane, verificando la presenza e l’intensità del dolore oltre ad eventuali disabilità, allo stato di salute generale, all’uso di medicinali, all’effetto percepito e alla soddisfazione riguardo al trattamento ricevuto. Gli esercizi intensi, effettuati sotto la supervisione di esperti, hanno mostrato un’efficacia maggiore nel ridurre il dolore rispetto al programma domiciliare, mentre la manipolazione non ha prodotto un miglioramento aggiuntivo. Gli effetti sono stati evidenti soprattutto nel controllo dopo 12 settimane; a un anno le differenze si sono affievolite, ma un’analisi statistica complessiva ne ha confermato il vantaggio. Risultati analoghi si sono registrati anche considerando l’effetto percepito e la soddisfazione dei pazienti.

Spine, 2012 May 15; 37(11):903-14

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Validato un punteggio di rischio di emorragia intracraniale

11 Nov 2012 Neurologia

Uno studio che ha visto la collaborazione di ricercatori svizzeri e finlandesi ha elaborato uno strumento – chiamato Sedan score – che permette di valutare il rischio di emorragia intracraniale sintomatica nei pazienti colpiti da ictus ischemico trattati con trombolisi intravenosa. Il metodo è stato messo a punto analizzando 974 pazienti con ictus ischemico che dal 1995 al 2008 sono stati trattati con trombolisi per via venosa presso l’ospedale universitario di Helsinki ed è stato poi provato su altri 828 pazienti in Svizzera, a Losanna, Basilea e Ginevra. Il Sedan score è costituito da un punteggio che può variare da zero a sei ed è determinato a partire dalla valutazione, al momento del ricovero, di diversi parametri: la concentrazione di glucosio nel sangue, la presenza di segni precoci che possono indicare la comparsa di un infarto, il segno dell’arteria cerebrale media iperdensa, l’età e la scala dell’ictus del National institute of health (Nih). Il rischio assoluto determinato nel gruppo di derivazione in Finlandia  è stato di 1,4%, 2,9%, 8,5%, 12,2%, 21,7% e 33,3% rispettivamente per i punteggi 0, 1, 2, 3, 4 e 5 dello score Sedan. Nel gruppo di validazione in Svizzera le percentuali sono state simili (1,0%, 3,5%, 5,1%, 9,2%, 16,9% e 27,8%) confermando in tal modo la capacità dello score nella valutazione del rischio di emorragia intracraniale sintomatica per la tipologia di pazienti considerata.

Ann Neurol, 2012; 71(5):634-41

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TAO, aspirina e scompenso cardiaco

I pazienti affetti da scompenso cardiaco (HF) vanno incontro, rispetto alla popolazione generale, ad un maggior numero di stroke ed eventi tromboembolici sistemici; per una serie di motivi, tra cui la stasi nel ventricolo sin, disfunzione a livello dell’endocardio, stato di ipercoagulabilità. Ci si aspetterebbe dunque che una terapia anticoagulante sia di fondamentale importanza clinica, ma in realtà non si sa se nei pazienti scompensati in ritmo sinusale la terapia anticoagulante sia superiore alla terapia antiaggregante. A tale proposito il NEJM ha di recente pubblicato uno studio di Homma e coll. [Warfarin versus Aspirin in Reduced Cardiac Ejection Fraction (WARCEF) trial] in cui  2.305 pazienti di età media di 61  anni – relativamente giovani per una popolazione con HF – con disfunzione ventricolare severa (mediamente FE 25%) sono stati randomizzati a ricevere warfarin (INR 2-3.5) o ASA (325 mg/die) per una media di 3.5 anni. Ebbene, non c’è stata differenza significativa tra i due gruppi di pazienti nell’outcome primario di stroke (ischemico o emorragico) o morte. Il warfarin nei confronti dell’ASA era accompagnato da una significativa riduzione dello stroke ischemico (probabilmente tromboembolico) nel periodo di follow-up, ma al prezzo di un più elevato numero di emorragie maggiori (P<0.001), mentre i tassi di emorragia intracranica e intracerebrale non differivano significativamente. In definitiva quindi i risultati del WARCEF trial sono in accordo con precedenti piccoli trials, che già erano arrivati alla conclusione che nei pazienti scompensati in ritmo sinusale la terapia con warfarin non è superiore a quella con ASA e quindi non è da utilizzare routinariamente, ma caso per caso. 

Homma S et al,for the WARCEF Investigators. N Engl J Med 2012; 366:1859-1869

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Valutazione della mortalità dopo intervento chirurgico non cardiaco

Il ‘Revised Cardiac Risk Index’ è uno score ampiamente utilizzato per valutare il rischio di complicanze cardiache in pazienti sottoposti ad interventi chirurgici non cardiaci, ma non sono disponibili sistemi per predire la mortalità post-operatoria globale. Per individuare un tale sistema di valutazione, Glance e collaboratori hanno utilizzato un database dell’American College of Surgeons, relativo ad alcune centinaia di ospedali americani, proponendo un modello che utilizza 3 predittori di rischio ed uno score di 9 punti. La coorte studiata includeva 300.000 pazienti sottoposti ad intervento chirurgico non cardiaco sotto anestesia generale o loco-regionale. Per elaborare un modello semplificato, i ricercatori hanno selezionato 3 variabili (l’American Society of Anesthesiologists (ASA) Physical Status, il rischio chirurgico specifico relativo al tipo di intervento e la chirurgia di urgenza versus chirurgia di elezione) ed hanno attribuito un punteggio di rischio di mortalità per ogni variabile (vedi tabella). Il modello di previsione del rischio è stato calcolato sulla metà della coorte di pazienti considerata e risultava accettabile nella rimanente metà. La mortalità a 30 giorni è risultata pari rispettivamente a

  • < 0.1% nei pazienti con 0-2 punti
  • 0.2% nei pazienti con 3 punti
  • 0.5% nei pazienti con 4 punti
  • 1.5% nei pazienti con 5 punti
  • 4.0% nei pazienti con 6 punti
  • 10.0% nei pazienti con 7 punti
  • 25.0% nei pazienti con 8 punti
  • 50.0% nei pazienti con 9 punti.

I vantaggi di questo modello sono rappresentati dalla sua relativa semplicità di utilizzo e dal fatto che è stato elaborato a partire da un ampio database di pazienti. Al contrario, i limiti del modello sono riferibili alla assegnazione soggettiva del punteggio ASA da parte del medico e la necessità di definire quali procedure chirurgiche sono da ritenere a rischio basso, intermedio ed elevato. Gli autori dello studio ritengono che il loro modello possa essere utilizzato come un punto di partenza per una valutazione bedside del rischio perioperatorio; questa conclusione appare ragionevole anche se alcuni pazienti presentano caratteristiche che non rientrano nelle 3 variabili del modello. 

Glance LG et al. The surgical mortality probability model: Derivation and validation of a simple risk prediction rule for noncardiac surgery. Ann Surg 2012; 255: 696

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Prescivere i farmaci in base al peso corporeo

I medici hanno a disposizione per la cura degli adulti compresse o altre formulazioni farmaceutiche a dosaggi differenti (ad esempio 250 e 500 mg per la maggior parte degli antibiotici e per alcuni analgesici). Ma questa ridotta disponibilità di differenti posologie per la maggior parte dei farmaci a disposizione consente di trattare al meglio i nostri pazienti? In base ai principi di farmacocinetica e farmacodinamica, vari fattori legati al paziente come  funzionalità renale ed epatica, età e sesso devono essere presi in considerazione quando prescriviamo un farmaco. La valutazione del peso corporeo è pratica clinica di routine in alcune specialità come in oncologia, dove la terapia con agenti tossici avviene costantemente, ed in pediatria dove la dose è condizionata dal peso e dal grado di maturità. Molte malattie determinano un aumento o una diminuzione del peso corporeo; inoltre valutando sia l’epidemia crescente di obesità in alcuni paesi che gli alti tassi di malnutrizione in altri, prendere in considerazione il peso del paziente ha una logica sia di ordine farmacologico che clinica. Adattare la dose del farmaco al peso del paziente non solo potrebbe conferire una maggiore efficacia alla terapia, ma anche una maggiore tollerabilità determinando minori effetti collaterali. Il peso corporeo andrebbe quindi ad assumere una maggiore importanza nel trattamento se, questo principio di aggiustare la dose in base a questo parametro, potesse essere esteso a tutti i farmaci e non limitato come oggi ai soli antineoplastici o agli anti-infettivi. Sono necessari trial randomizzati e controllati per rispondere adeguatamente a questa domanda. I medici sarebbero maggiormente disposti ad implementare la pratica di adattare la dose dei farmaci al peso corporeo se trial robusti ne mostrassero il beneficio per il paziente. Dal momento che la maggior parte dei medici prescrive via computer, un appropriato algoritmo potrebbe esservi applicato e, così come avviene in pediatria, l’uso di formulazioni liquide o soluzioni potrebbe rendere molto più semplice il calcolo della dose. Questo tipo di formulazioni sono spesso costose ed hanno una emivita più breve; tuttavia se le evidenze scientifiche evidenziassero i vantaggi terapeutici nell’adattare la dose al peso corporeo, sarebbe indispensabile avere a disposizione una più ampia gamma di formulazioni: forse un business per l’industria farmaceutica? 

Falagas ME and Karageorgopoulos DE. The Lancet 2010; 375: 248-251

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