All?erta contro l?epatite B

Contro l?epatite B occorre rialzare la guardia. ? un indubbio successo il continuo calo dei tassi d?infezione dagli anni Ottanta: merito della vaccinazione, che l?Italia per prima ha reso obbligatoria nel 1991 in neonati e dodicenni venendo in seguito copiata da altri, e poi dello screening sul sangue, dell?uso di materiale sanitario a perdere, di una certa prudenza di comportamenti con l?insorgere della paura dell?AIDS. La prevalenza infatti ? scesa dal 2,4-3% degli anni Settanta allo 0,8% degli anni recenti. ?La popolazione sopra i 29 anni d?et?, che aveva cio? pi? di 12 anni nel 1991, non ha ricevuto la protezione? spiega Massimo Colombo, direttore 1? Divisione di Gastroenterologia del Policlinico, Mangiagalli, Regina Elena di Milano, in un incontro sulle strategie terapeutiche di gestione dell?epatite B ?perci?, escludendo i molti che venuti a contatto con il virus hanno sviluppato l?anticorpo, milioni di persone restano formalmente esposte. Se il continuo calo d?incidenza e prevalenza dovrebbe rassicurare, negli ultimi anni tuttavia c?? evidenza di una ripresa dell?epatite B, soprattutto trasmessa per via sessuale, cio? quella principale da noi, seguita dall?uso di strumenti contaminati, di droghe per via venosa e di pratiche come piercing e tatuaggi?. Va ricordato che il virus dell?epatite B ? cento volte pi? contagioso dell?HIV. ?La ripresa sembra dovuta essenzialmente a due motivi? prosegue Colombo. ?In parte c?? un calo d?attenzione alla prevenzione legato all?idea che comunque ci si pu? curare. Inoltre nel nostro paese sono immigrate molte persone provenienti da aree dove l?infezione ? endemica, non solo Asia e Africa, ma anche paesi dell?Europa orientale ed ex Unione Sovietica, importanti serbatoi dell?epatite B e anche della Delta che le si associa nel 5% dei casi. Un numero crescente di adulti/anziani non immunizzati viene contagiata sessualmente da portatori dell?infezione e sviluppa una forma acuta che a volte cronicizza. E aumentano casi prima rari, epatiti B croniche antigene positive, ad alto livello di replicazione virale e quindi contagiosit? gi? in fase precoce (primi 10-15 anni)?.

Casi sfuggenti a lungo asintomatici
I nuovi casi si aggiungono ai circa 500 mila portatori cronici di epatite B che si ritiene ci siano nel nostro paese, dei quali almeno met? ha qualche forma di malattia del fegato. La condizione di portatore non significa malattia ma pu? diventare epatite cronica attiva quando si arriva all?attacco del sistema immunitario che provoca l?infiammazione e i danni successivi. Il rischio ? che la forma cronica evolva in cirrosi e altre complicanze, fino all?epatocarcinoma. Il fatto ? che molto spesso la malattia non viene diagnosticata per anni o decenni, in quanto resta a lungo asintomatica; solo se progredisce cominciano segni dagli iniziali stanchezza e mancanza d?appetito ai successivi ittero, nausea, urine scure e feci chiare. ?Fattori che accelerano il decorso? aggiunge Colombo ?sono sesso maschile, et? meno giovane, sovrappeso, abuso alcolico, fumo e probabilmente modalit? dell?infezione, tipo genetico del virus, co-infezione virale (agente Delta e in quota minore virus dell?epatite C)?. Una conseguenza dell?importazione di nuovi portatori ? anche l?arrivo in Italia di genotipi virali diversi, in particolare le nuove epatiti HBeAg positive, invece del genotipo D predominante da noi, vedono in causa il B e il C, asiatici e africani. Questo ha ripercussioni sul piano terapeutico: poich? la risposta ai diversi farmaci cambia, ? necessario tipizzare geneticamente il virus; inoltre pone il problema di come rivedere la strategia vaccinale, che era rivolta ai soggetti a maggior rischio di cronicizzazione, come i bambini.

Resistenze sul lungo periodo
Quanto a interrompere la progressione con i farmaci attuali ? possibile oltre che con gli interferoni (terapia a tempo), che riducono l?attivit? virale ma con una buona parte di soggetti non responder e risultati nel lungo termine bassi, con gli analoghi di nucleotidi o nucleosidi che vanno per? somministrati a tempo indeterminato. ?La strategia terapeutica va ben ponderata in base al paziente e al farmaco? sottolinea Stefano Fagioli, direttore USC Gastroenterologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo. ?Il soggetto pi? delicato ? quello pi? giovane con decenni di trattamento davanti a s?, per il quale la strategia terapeutica sar? pi? decisa; vanno poi considerate gravit? ed evolutivit? distinguendo forma HBeAg positiva o negativa, presenza di cirrosi compensata o scompensata. Nel trattamento a lungo termine il rischio ? quello delle mutazioni del virus e quindi delle farmaco-resistenze. Si sa che pi? precocemente e decisamente si abbassa la viremia, cio? il farmaco ? potente e rapido, meno probabilmente insorgeranno mutazioni. In quest?ottica si inseriscono molecole di nuova generazione che sembrano pi? efficaci nell?impedire lo sviluppo di mutazioni virali: come il pi? recente, tenofovir, che sopprime rapidamente la viremia, con risposte gi? nel primo anno dell?80% nei pazienti e positivi e del 100% negli e negativi?. La nuova opzione ? stata appena approvato dall?EMEA per la terapia dell?epatite B cronica sia in soggetti mai trattati sia in malati farmaco-resistenti.

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Fibrillazione indipendente dagli anticoagulanti

21 Nov 2008 Cardiologia

L’incidenza cumulativa di tromboembolie ed emorragie nell’arco di tre mesi non viene significativamente influenzata da una temporanea interruzione della terapia anticoagulante nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare. Tali interruzioni possono rendersi necessarie per praticare procedure invasive, ma l’incidenza degli eventi negativi rimane bassa e non viene influenzata dalla terapia ponte. Quest’ultima strategia viene riservata di solito ai casi ad alto rischio con un’anamnesi di ictus o portatori di fattori di rischio multipli per questa complicazione. I dati rilevati tuttavia presentano alcune incertezze sulla strategia da applicare su questi pazienti, a causa della possibile eterogeneit? dell’assetto dei fattori di rischio e della possibile opportunit? di proseguire almeno in parte la terapia anticoagulante in un sottogruppo di pazienti. (Mayo Clin Proc 2008; 83: 628-9 e 639-45)

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Sorpresa velenosa in giardino

Chi pensa che il giardinaggio sia un hobby innocuo si deve ricredere. In Gran Bretagna, infatti, un uomo ha sviluppato gravi problemi respiratori dopo aver fatto banali lavori nel suo giardino e avendo a che fare con materiali piuttosto comuni anche per un giardiniere dilettante, dal concime al pacciame fino al legno decomposto. Il caso dell’uomo quarantasettenne, riportato da Lancet e ripreso dalle cronache britanniche, si ? concluso con la morte dello stesso. Come ? potuto succedere? Colpa di un fungo, l’Aspergillus, uno dei pi? comuni funghi ambientali che si ritrova molto frequentemente nella vegetazione in putrefazione o nei cumuli di concime. Le spore del fungo possono portare a un gruppo di malattie infettive e allergiche note come aspergillosi polmonari. Le spore, infatti, si diffondono nell’aria e una volta inalati gli aspergilli colonizzano l’albero tracheobronchiale determinando una successiva risposta autoimmune. Tra gli esiti pi? probabili, una cronicizzazione della malattia asmatica e alterazioni importanti come fibrosi e insufficienza respiratoria. I rischi si fanno ancora maggiori se i funghi si diffondono ad altri organi quali cervello e reni. Ecco perch?, osservano gli autori, potrebbe essere una buona idea dovendo gestire grandi quantit? di terriccio o di compost, dotarsi di una maschera che protegga dalle polveri. L’aspergillo, infatti, ? piuttosto comune nei giardini, i rischi mortali sono rari, per?. Il caso dell’uomo britannico ? illuminante da questo punto di vista.

Il caso su Lancet
Il fatto risale al maggio 2007 nel Buckinghamshire, quando si ? presentato all’ospedale un uomo con difficolt? respiratorie in via di rapido peggioramento, febbre e dolore muscolare. Dall’esame ai raggi x i medici hanno interpretato un possibile caso di polmonite e hanno somministrato antibiotici. Senza effetto. Anzi l’infiammazione polmonare ? andata peggiorando. Si ? arrivati cos? al trasferimento presso l’unit? di cura intensiva ma neanche questo passaggio ha sortito alcun effetto. Si ? reso necessario perci? il trasferimento in un ospedale pi? grande, per un tentativo da ultima spiaggia. Quello di introdurre ossigeno nel suo corpo. E’ a questo punto che gli esami di laboratorio hanno evidenziato la presenza di aspergillo in due campioni e si ? reso necessario consultare la compagna del paziente, da cui si ? appreso che il giorno prima che si manifestassero i sintomi, l’uomo era stato investito da nuvole di polvere mentre lavorava a terra. A questo ? partita la giusta terapia, quella a base di trattamenti antifungini, ma troppo tardi, l’uomo ? morto pochi giorni dopo con una rapidit? sorprendente per i medici. Al di l? dell’essere un fumatore e di lavorare come saldatore, infatti, l’uomo era nel complesso in buona salute. L’aspergillo, commenta David Denning dell’Universit? di Manchester alla Bbc, ? comune in molti giardini e diventa pericoloso solo se ? mosso in grandi quantit? e se la polvere che ne risulta viene inalata. Nessun problema, perci?, quando si ha a che fare con giardini su piccola scala o con poche quantit? di compost. In sostanza con i fiori del terrazzo non si dovrebbero rischiare esiti fatali e non ? necessario bardarsi con tute mimetiche. Se le quantit? aumentano, un blando rischio esiste. Si tratta di identificare rapidamente il problema e provvedere con l’adatta terapia antifungina. Molti medici non hanno mai avuto a che fare con casi di aspergillosi nella loro professione. Forse sarebbe meglio contemplarli.
Fonte
Russell K et al. Gardening can seriously damage your health. The Lancet

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Stili di vita salva-prostata

La progressiva identificazione di geni implicati nello sviluppo di malattie (ce ne sono anche di protettivi) potrebbe essere letta da alcuni in chiave di scarsa utilit? della prevenzione, come alibi per non cambiare stili di vita poco sani. Invece ? sempre pi? evidente che la genetica da sola non basta, conta l?interazione dell?ambiente e cio? dei fattori esterni, che decidono se si attiver? o disattiver? un determinato processo, o almeno sono in grado di modularlo. Una nuova dimostrazione, esemplare nei risultati, viene da una ricerca californiana, nella quale una decisa modifica dei comportamenti alimentari e d?altro tipo in uomini con tumore prostatico indolente a basso rischio ha prodotto gli attesi miglioramenti fisici e metabolici, ma ha anche mostrato di ?spegnere? un folto gruppo di oncogeni e di accenderne altri invece benefici. In un?altra ricerca, sempre californiana, si sono viste le implicazioni delle stesse famiglie di geni dannosi e della restrizione energetica nella diversa resistenza di cellule sane o tumorali a stress ossidativo o chemioterapia.

Dieta, gestione dello stress, esercizio
L?epidemiologia ha gi? messo in luce che l?incidenza del cancro della prostata ? molto inferiore nelle popolazioni con alimentazione povera di grassi e prevalentemente vegetale, cos? come alcuni studi hanno mostrato che misure dietetiche e comportamentali in uomini con il tumore in stadio precoce possono diminuire l?antigene prostatico PSA o rallentarne l?aumento, risultando potenzialmente terapeutiche. Un aspetto importante da chiarire anche perch?, in molti malati con la forma indolente sottoposti a screening per il PSA a lungo termine, non si rileva la progressione della malattia, tanto che non si ritiene necessario trattarli ed esporli cos? a effetti indesiderati. Lo studio GEMINAL (Gene Expression Modulation by Intervention with Nutrition and Lifestyle) ha voluto approfondire le conseguenze di modifiche intensive dello stile di vita rispetto all?espressione dei geni prostatici in uomini appunto con il tumore indolente a basso rischio, selezionati in modo da minimizzare la possibilit? di malattia metastatica. I trenta partecipanti, et? media 62 anni, che non avevano voluto sottoporsi nell?immediato a chirurgia o radioterapia od ormonoterapia, mentre erano sotto sorveglianza rispetto alla progressione del tumore, hanno partecipato a un programma completo che prevedeva cibi poveri di grassi (l?11,6% delle calorie totali), integrali e di base vegetali, tecniche di gestione dello stress, esercizio moderato in forma di cammino quotidiano (3,6 ore a settimana). Dopo tre mesi si sono andati a vedere gli effetti, analizzando anche materiale genetico (RNA) estratto dalle agobiopsie prostatiche.

Possibile nuova strategia per la che mio
Com?era nelle attese questo regime ha prodotto un significativo miglioramento di fattori negativi, cio? riduzione dell?indice di massa corporea, della pressione sistolica e diastolica, della lipidemia, della circonferenza vita; calo non significativo per la trigliceridemia e la proteina C-reattiva; diminuito significativamente anche il distress psicologico e migliorato il benessere psicologico legato alla qualit? della vita. Non solo: si ? dimostrata una sotto-regolazione di 453 geni coinvolti nella modulazione di processi critici per l?oncogenesi, implicati nel metabolismo, nel trasporto e nella fosforilazione di proteine. Per esempio oncogeni della famiglia RAS oppure, come visto in analoghi studi su obesi, geni legati all?IGF-1 (fattore di crescita insulino-simile), o geni del metabolismo dei carboidrati. Inoltre ? risultata una sovra-regolazione, di carattere positivo, di altri 48 geni. Modulare l?espressione genica agendo sullo stile di vita sembra dunque possibile. A questo si ricollega la seconda ricerca californiana, per sondare l?ipotesi che una dieta meno calorica potesse proteggere cellule normali ma non cellule tumorali da un elevato stress ossidativo o dalla chemioterapia. In diversi animali, in mancanza di geni equivalenti agli oncogeni umani delle famiglie RAS e IGF1, si ? vista un?associazione tra longevit? e migliore resistenza allo stress; quest?ultima si ? vista anche in esperimenti che valutavano l?effetto sull?organismo delle restrizioni caloriche. Gli autori statunitensi hanno verificato che le cellule ?affamate? e sane erano fino a mille volte pi? protette, ma non quelle malate. Una possibile futura strategia potrebbe basarsi su nuove chemioterapie che generano alti livelli ossidativi in combinazione con la minore resistenza allo stress delle cellule cancerose determinata dalla dieta.

Elettra Vecchia
(Ornish Dean e coll. Changes in prostate gene expression in men undergoing an intensive nutrition and lifestyle intervention. PNAS 2008; 105 (24): 8369-74
Raffaghello Lizzia e coll. Starvation-dependent differential stress resistance protects normal but not cancer cells against high-dose chemotherapy. PNAS 2008; 105 (24): 8215-20)

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SOY ISOFLAVONES COULD REDUCE INFANT MORTALITY

A soy isoflavone used in soy infant formula could reduce diarrhea in infants, according to a new study, and thereby save lives in developing countries.
Researchers at the University of Illinois at Urbana-Champaign (UIUC) found that the soy isoflavone genistin may reduce a baby’s susceptibility to rotavirus infections by as much as 74 percent. The study, published in September’s Journal of Nutrition, exposed cells in culture to rotavirus in both the absence and presence of soy isoflavones.
According to the researchers, the results could flag up soy isoflavones as a potential alternative to expensive rotavirus vaccines that are inaccessible to poorer families.
“It’s exciting to think that the isoflavones in soy formula could be a cost-effective nutritional approach to decreasing the incidence and severity of rotavirus infections, especially among children in developing countries who are most at risk,” said Sharon Donovan, professor of Nutrition at UIUC.
During 2004 alone, the World Health Organization (WHO) estimates around 527,000 deaths in children worldwide were caused by the rotavirus infection. These deaths represented approximately five percent of all child deaths globally.
“Rotavirus is the primary cause of diarrhea in infants, affecting virtually all children before age five,” said Donovan. “In the United States, it mainly leads to dehydration, doctor’s visits, and parents missing work to care for sick children.”
Soy isoflavones are the biologically active compounds in soy that are thought to have health benefits, such as relieving the symptoms of menopause, increasing bone density and reducing cholesterol. Genistin is the major isoflavone in soy.
Soy as an ingredient has already gotten a large plug from a US Food & Drug Administration approved health claim linking it to heart disease risk reduction: “Diets low in saturated fat and cholesterol that include 25 grams of soy protein a day may reduce the risk of heart disease. One serving of (name of food) provides ____ grams of soy protein.”
As part of the UIUC study, performed by doctoral candidate Aline Andres, different forms of soy isoflavones were tested individually as well as together in the complete mixture that is used in infant formula.
“Genistin and the mixture significantly reduced rotavirus infectivity by 33 to 74 percent,” said Donovan. “But when genistin was taken out of the mixture, anti-rotavirus activity was lost, suggesting that it is the active component in reducing infectivity.”
Throughout the course of the study, funded by the US Department of Agriculture and the Illinois Soybean Association, rotavirus inhibition began at the isoflavone concentrations used in soy formula, and then levelled off. According to the researchers, this points to the existence of a level of ingestion at which soy isoflavones is effective, beyond which there is no additional benefit for preventing rotavirus.
“We then exposed the cells to different concentrations of rotavirus,” said Donovan. “If an infant had a severe infection or was exposed to a lot of rotavirus, we wondered if the isoflavones would still be as effective.”
The researchers involved now plan to take their investigation one step closer to humans by conducted studies on neonatal piglets.
“We’ll be interested to see if we have the same results when we work with young animals,” said Donovan.
Source: Andres, Aline et al. “Isoflavones at concentrations present in soy infant formula inhibit rotavirus infection in vitro.” Journal of Nutrition. 2007 137: 2068-2073.

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SOY ISOFLAVONES MAY CUT PROSTATE CANCER RISK IN HALF

Increased intake of soy isoflavones may cut the risk of prostate cancer by 58 percent, suggests a new study from Japan.
The research, published in the Journal of Nutrition, adds to an earlier study that claimed to be the first prospective study to report an inverse association between isoflavones and prostate cancer in Japanese men.
Over half a million new cases of prostate cancer are diagnosed every year world wide, and is the direct cause of over 200,000 deaths. More troubling, the incidence of the disease is increasing by 1.7 percent over 15 years.
The new study recruited 200 Japanese men with different stages of prostate cancer and compared their dietary intakes with 200 healthy male controls.
The intake of 12 food items was measured: tofu (soybean curd), natto (fermented soybeans), miso soup (soybean paste soup), bean curd refuse, fried bean curd, fried bean curd with vegetables, soy flour, dried bean curd, soy milk, soy sauce, green soybeans, and bean sprouts.
The researchers report that an increased intake of the soy isoflavones genistein and daidzein was significantly associated with a decreased risk of prostate cancer. The highest average isoflavone intake was associated with a 58 percent reduction in risk compared with the lowest average isoflavone intake.
They also report that the isoflavone intake was correlated with magnesium and omega-3 and omega-6 fatty acid intake, since soy products are also rich sources of these nutrients.
“On the other hand, isoflavone significantly decreased the risk of prostate cancer regardless of adjustment by PUFA, (omega-6) fatty acids or magnesium,” they said.
The researchers indicated that the results may not be generalized to other populations since the traditional Japanese diet is a rich source of dietary isoflavones.
The earlier study linking isoflavones to potential protection from prostate cancer stated that the benefits could be due to the weak oestrogenic activity of soy isoflavones, which may act to reduce testosterone levels and inhibit an enzyme involved in the metabolism of testosterone.
Corresponding author Tomoko Sonoda said, “Our group is performing the intervention study of isoflavone supplement and analyzing the interaction of estrogen related gene and isoflavone intake on prostate cancer risk.”
?In conclusion,? Sonoda continued, ?our findings indicate that isoflavones might be an effective dietary protective factor against prostate cancer in Japanese men.?

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Prediabete da scoprire

Il diabete di tipo 2 non ? abbastanza diagnosticato e trattato, specie dalla Medicina di famiglia. ? questo il messaggio emerso chiaramente dal rapporto britannico sullo screening del diabete di tipo 2 pubblicato a settembre dall`Health Technology Assessment. Gli autori del trattato sono stati ancora pi? irremovibili della precedente review del National Screening Committee e le loro conclusioni sono state recentemente riprese in un commento su Lancet a cura di tre esperti del dipartimento di Medicina generale dell`universit? di Auckland in Nuova Zelanda.

Uscire allo scoperto, perch?
La mancanza di Linee guida precise o di criteri condivisi per lo screening del diabete ha relegato il prediabete nell`ombra ma ora l`efficacia delle statine nella prevenzione cardiovascolare, da un lato, e l`impennata nella prevalenza di obesit? e diabete di tipo 2 dall`altro dimostrano che il problema deve essere affrontato in maniera pi? seria.
L`intolleranza al glucosio aumenta il rischio cardiovascolare di circa il 60% e un`alterata glicemia a digiuno lo incrementa del 30%; per ogni soggetto diabetico ce ne sono almeno 4 in fase prediabetica, due dei quali progrediranno verso il diabete conclamato. Tutto questo per? si pu? prevenire, o almeno ritardare, con la dieta, l`esercizio fisico e alcuni farmaci. Gli interventi, sullo stile di vita sono tanto pi? efficaci quando effettuati su soggetti selezionati, mentre i farmaci possono meno e, del resto, non sono impiegati adeguatamente neanche nel diabete, il cui controllo non ? ancora ottimale.

Screening, come
Il test plasmatico del glucosio a digiuno individua il diabete e le anomalie glicemiche ma non l`intolleranza al glucosio. Analisi random sul glucosio plasmatico hanno meno specificit? e sensibilit?. Il test di tolleranza orale al glucosio (test di carico) ? considerato troppo impegnativo per il paziente ed ? poco riproducibile. La misurazione dell`emoglobina glicosilata (HbA1C) non rientra nelle indagini di routine, ma si correla bene sia con lo stato diabetico (si usa infatti per monitorare la glicemia dei pazienti) sia con le alterazioni del prediabete e, ad oggi, sono anche stati risolti i problemi di standardizzazione che lo rendevano poco affidabile. ? questo l`esame che gli autori dell`Health Technology Assessment consigliano per individuare i pazienti a rischio, impostando valori di cut off inferiori del 5,9% a quelli impiegati per la diagnosi del diabete. Naturalmente il medico di famiglia deve fare una prima selezione dei pazienti, sulla base dei fattori di rischio noti (et?, indice di massa corporea o circonferenza addominale, familiarit?, etnia, iperlipidemia, ipertensione), per scegliere quali sottoporre allo screening.

Trattare subito
Selezionare i soggetti a rischio e confermare lo stato prediabetico con i test a disposizione dovrebbe diventare una delle priorit? dei medici di Medicina generale. Perch? prediabete, diabete e malattie cardiovascolari colpiscono di pi? le classi socialmente ed economicamente svantaggiate. Quelle classi che accedono quasi esclusivamente all?assistenza sanitaria pubblica e per le quali la correzione degli stili di vita rappresenta l`intervento pi? importante, economico e quindi realizzabile.
Resta ancora da stabilire ogni quanto tempo andrebbe ripetuto lo screening e come debbano essere dei programmi d`esercizio applicabili ad un gran numero di soggetti. Ma non sono scuse sufficienti per ignorare il problema.

Elisabetta Lucchesini
(Kenealy T et al. Screening for diabetes and prediabetes. The Lancet 2007; 370: 1888-1889)

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Tumore prostatico localizzato: la terapia di deprivazione androgenica non miglio

La terapia di deprivazione androgenica non ha mostrato di migliorare la sopravvivenza degli uomini anziani con tumore alla prostata in fase precoce.

Lo studio ha riguardato 19.271 uomini di 77 anni ( et? mediana ), a cui era stato diagnosticato nel periodo 1992-2002 un tumore alla prostata, localizzato.

Di questi pazienti 7.867 avevano ricevuto terapia di deprivazione androgenica.

Durante lo studio 1.560 uomini sono morti a causa del tumore prostatico e 11.045 sono morti per altre cause.

I pazienti trattati con la terapia di deprivazione androgenica hanno presentato una riduzione della sopravvivenza a 10 anni tumore prostata-specifico del 19.9% contro il 17.4% del gruppo approccio conservativo.

La terapia di deprivazione androgenica non ? approvata nel trattamento del carcinamoa prostatico localizzato, ma ? ampiamente utilizzata.
La terapia ? associata a vampate di calore, impotenza, osteoporosi e diabete.

La terapia di deprivazione androgenica riduce i livelli di testosterone nell?organismo.

Negli Stati Uniti, il tumore della prostata ? diagnosticato ogni anno a 186.000 uomini, con la mortalit? ? di 28.000 pazienti.

Fonte: JAMA, 2008
production and Embryology- 24th Annual Conference, 2008

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Alterazioni spermatiche per gli uomini in sovrappeso

Gli uomini obesi o in sovrappeso hanno pi? bassi volumi di liquido seminale ed una pi? alta proporzione di sperma anormale.

E? stato esaminato il liquido seminale di 5.316 uomini, che facevano riferimento all?Aberdeen Fertility Centre per difficolta nel concepire un figlio.
Per alcuni soggetti erano disponibili i valori dell?indice di massa corporea ( BMI ).

I Ricercatori hanno diviso gli uomini in 4 gruppi sulla base dell?indice BMI.

L?analisi ha mostrato che gli uomini con indice BMI ottimale ( 20-25 ) presentavano pi? alti livelli di sperma normali, rispetto a quelli di altri gruppi.
Questi soggetti presentavano anche un pi? alto volume dello sperma.

Tra i 4 gruppi non ? stata osservata nessuna significativa differenza riguardo alla concentrazione dello sperma o alla motilit?.

Altri studi hanno indicato un?associazione tra obesit? maschile ed aumentato danno del DNA nello sperma, che pu? essere associata a ridotta fertilit?.

Adottando uno stile di vita sano ed una dieta bilanciata, e regolare esercizio fisico, si pu? migliorare il proprio indice BMI ed anche la qualit? dello sperma.

Fonte: European Society of Human Re

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Alopecia androgenetica femminile: terapia ormonale

La perdita di capelli nelle donne ( alopecia androgenetica femminile ) ? una comune condizione nelle donne.
Quasi il 10% delle donne in premenopausa mostra evidenza di alopecia androgenica.
Con il passare dell?et? aumenta l?incidenza, ed il 50-75% delle donne di 65 anni ed oltre soffre di questa condizione.

Solo la soluzione di Minoxidil ( Regaine ) al 2% per uso topico ? stata approvata nel trattamento dell?alopecia androgenica femminile.

Dati di letteratura stanno ad indicare che la terapia antiormonale ( es. Ciproterone, Spironolattone ) ? utile nel trattare l?alopecia in alcune donne, che hanno normali livelli ormonali.

L?impiego delle terapie ormonali ? stato pi? estensivamente studiato nelle donne in postmenopausa.

Diversi studi hanno indicato che il Ciproterone ( Androcur ) con o senza Etinil Estradiolo e Spironolattone ( Spirolang ) pu? migliorare l?alopecia androgenica femminile nelle donne con normali livelli ormonali, ma sono necessari studi di maggiore dimensione per confermare questi risultati.

In uno studio clinico, la Flutamide ( Eulexin ) ha mostrato di essere pi? efficace dello Spironolattone o del Ciproterone.

Gli inibitori della conversione del testosterone sono stati valutati nel trattamento dell?alopecia nelle donne in postmenopausa con normali livelli ormonali.
Nessuno studio ha mostrato che 1 mg di Finasteride ( Propecia ) sia risultato efficace nell?alopecia androgenica femminile, ma a dosaggi maggiori, la Finasteride ( Proscar ) 2.5-5 mg/die ? risultata utile in alcune donne in studi in aperto.

In conclusione, il ruolo dei farmaci antiandrogeni nell?alopecia androgenetica femminile sia nelle donne in premenopausa che nelle donne in postmenopausa rimane da essere definito.

Scheinfeld N, Dermatol Online J 2008; 14: 1

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