Il rischio di linfoma non Hodgkin ? risultato pi? alto tra i frequenti donatori

Un gruppo di Ricercatori del Karolinska Institutet a Stoccolma in Svezia, ha condotto un confronto in una coorte di donatori svedesi e danesi per verificare i possibili effetti della donazione di sangue e della perdita di ferro sull?incidenza di cancro minimizzando l?effetto del donatore sano.

? stato utilizzato uno studio caso-controllo nested, nel quale sono stati definiti casi tutti i donatori con diagnosi di tumore tra le loro prime donazioni di sangue registrate e il termine dello studio ( n = 10.866 ).
Il gruppo controllo era composto da 107.104 soggetti.

Non ? stata osservata nessuna chiara associazione tra il numero delle donazioni e il rischio generale di cancro. Tuttavia, tra la pi? bassa ( < 0,75 g ) e la pi? alta ( > 2,7 g ) categoria di perdita di ferro stimata ? stato osservato un trend decrescente di rischio di cancro al fegato, al colon, al polmone, allo stomaco e all?esofago, tumori questi che sarebbero favoriti dall?eccesso di ferro ( odds ratio combinata [ OR ] = 0,70 ), ma solo tra gli uomini e solo con una latenza di 3-7 anni.

Il rischio di linfoma non Hodgkin ? risultato pi? alto tra i frequenti donatori di plasma ( > 25 vs 0 donazioni, OR = 2,14 ).

In conclusione, ripetute donazioni di sangue non sono risultate associate ad un aumento o a una diminuzione del rischio generale di tumore.
La mancanza di consistenza tra i periodi di latenza genera dubbi su una apparente associazione tra riduzione del rischio di cancro e la perdita di ferro negli uomini.
L?associazione positiva tra frequenti donazioni di plasma e rischio di linfoma non-Hodgkin necessita di ulteriore valutazione.

Edgren J et al, J Natl Cancer Inst 2008;100: 572-579

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Cardiologia

11 Nov 2008 Cardiologia

Statine in pediatria
Abbassare il colesterolo con le statine, in bambini gi? dagli 8 anni di et?. La notizia riferita pochi giorni fa come raccomandazione dell’Accademia dei pediatri americani ? stata ripresa da noi in modo abbastanza asettico, mentre negli Stati Uniti sono subito scoppiate le polemiche, di genitori ma anche di medici. In effetti detta cos? la cosa sembrerebbe poco sostenibile, per il primo evidente motivo che il colesterolo alto essendo molto legato all’alimentazione scorretta (genetica a parte) e al sovrappeso ? un tipico fattore di rischio evitabile, e alimentarsi correttamente ? ancora pi? importante nell’infanzia quando si pongono le basi per la vita adulta. Non si tratta cio? di un rifiuto pregiudiziale ai farmaci, ma di una questione di opportunit?. Ci sono poi altre motivazioni pi? tecniche a sfavore, relative alle incertezze sull’efficacia e soprattutto sulla sicurezza sul lungo periodo di quelle sostanze nell’et? pediatrica. A fronte delle critiche i pediatri americani sono per? dovuti intervenire per precisare che non proponevano certo un uso generalizzato delle statine in bambini con il colesterolo alto, bens? un utilizzo limitato a determinate situazioni. Le ricorda in sintesi il New York Times, sulle cui pagine il dibattito resta comunque acceso.
Da anticipare anche lo screening
Per fare chiarezza ? bene cominciare dalle raccomandazioni e dalle loro basi. In precedenza gli stessi medici avevano affermato di considerare l’uso degli anti-colesterolo nei bambini sopra i 10 anni dopo tentativi non riusciti per 6-12 mesi di ridurre il peso. Dato per? che aumentano le evidenze che primi segni di danno cardiaco sono rivelabili gi? nell’infanzia, e che l’incremento di giovanissimi in sovrappeso fa temere un’espansione di precoci attacchi cardiaci e casi di diabete, le linee guida vanno aggiornate. Per questo una raccomandazione ? lo screening per il colesterolo in bambini e adolescenti, gi? tra 2 e 10 anni nel caso di familiarit? per l’ipercolesterolemia o infarti precoci, o di altri fattori di rischio quali forte sovrappeso o diabete, ripetendo il test ogni tre-cinque anni se i valori sono normali. E qui si viene al nodo cruciale del trattamento. La prima raccomandazione resta ovviamente la correzione degli stili di vita inadeguati, centrata su dieta ed esercizio fisico. La terapia farmacologica pu? essere considerata per bambini dagli 8 anni in su in questi casi: livelli ematici di colesterolo LDL (“cattivo”) di almeno 190 mg/dl, oppure di 160 mg/dl se ci sono una storia familiare di precoce coronaropatia o altri due fattori di rischio, oppure di 130 mg/dl se il bambino ha il diabete. I nuovi suggerimenti non sono quindi la base per un uso indiscriminato dei farmaci, puntualizza uno degli autori, Stephen Daniels, semmai indicazioni dei limiti d’uso che andrebbero rispettati.
L’auspicio ? di riuscire in questo modo a prevenire molti pi? attacchi cardiaci in soggetti a rischio che altrimenti sfuggirebbero all’intervento medico. La stima per gli Stati Uniti ? del 13% dei bambini con colesterolo totale (cattivo e buono) oltre i 200 mg/dl, e di uno su 500 con colesterolo alterato su base genetica dei quali dal 30 al 60% non viene diagnosticato; complessivamente, solo il 5% dei bambini avrebbe valori di LDL superiori a 130.
Dati estrapolati da quelli adulti
Le statine hanno ampiamente dimostrato, nell’adulto, di proteggere dal rischio coronarico e di ridurre la mortalit? nei coronaropatici; alcune controversie restano, come il reale aumento di sopravvivenza in individui sani o sopra i 70 anni e l’insorgenza di effetti indesiderati quali problemi muscolari e cognitivi. Le critiche, come quella del cardiologo pediatrico Darshak Sanghavi, si appuntano sul fatto che non ci sono dati sulla capacit? delle statine somministrate nell’infanzia di prevenire gli attacchi cardiaci nell’et? adulta, n? ci sono sui possibili effetti collaterali di un’assunzione protratta per decenni. Cinque statine sono approvate in America per l’utilizzo nei bambini con difetti genetici del colesterolo, una ha appena avuto il placet per l’uso dagli 8 anni. Abbiamo estrapolato le informazioni sull’efficacia delle statine relative all’adulto, replica l’Accademia dei pediatri; inoltre recenti studi sulle carotidi hanno dimostrato che rallentano la progressione del danno cardiovascolare in bambini ad alto rischio, e altri indicano che sono generalmente sicuri per l’uso pediatrico. Pur essendo consapevoli che i dati sono incompleti, gli eventuali rischi degli anti-colesterolo nell’infanzia sarebbero inferiori ai benefici che si attendono, considerando gli andamenti. E qui tornano le critiche: gli studi pediatrici riguardano il breve periodo, non si conoscono gli effetti a lungo termine n? si sa quanto dovrebbe durare la terapia; non si sa quale sia l’impatto in bambini prepuberi, e bisogna tener conto della metabolizzazione dei farmaci che pu? essere anche molto diversa tra adulti e bambini. Insomma il dibattito rischia d’infuocarsi, come ? avvenuto per i farmaci psichiatrici dati ai bambini.

Elettra Vecchia

Fonti
Parker-Pope T. Cholesterol Screening Is Urged for Young. The New York Times, July 7, 2008.
8-Year-Olds on Statins? A New Plan Quickly Bites Back. The New York Times July 8, 2008
08;65(7):805-15.

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Gravidanza

Se la gravidanza ? turbata

Anche un evento luminoso per la vita di una donna come l’arrivo di un bambino si pu? accompagnare a ombre, come nel caso della depressione che viene detta appunto post-partum. Un disturbo probabilmente pi? frequente di quanto si pensi, che per? richiama l’attenzione solo per i casi eclatanti. La gravidanza e il post-partum, del resto, sono condizioni nelle quali aumenterebbe la vulnerabilit? a disturbi di natura psichiatrica. Con effetti associati finora a minore salute materna, a inadeguata assistenza prenatale, a esiti sfavorevoli per il figlio come crescita fetale inferiore, ridotto sviluppo cognitivo e comportamentale nell’infanzia e nell’adolescenza, stato nutrizionale e di salute carente. Conoscere meglio i disturbi psichiatrici pre e post-parto ? la premessa per individuare, seguire e curare le donne a maggior rischio.
Depressione, ansia e non solo
Il fenomeno ? stato analizzato dal National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions statunitense, con una ricerca condotta nel 2001-2002 attraverso interviste a oltre 43.000 donne, delle quali circa 14.500 tra 18 e 50 anni e in gravidanza nell’anno precedente. Oltre all’ampiezza, aspetti che rendono pi? esaustiva questa ricerca rispetto ad altre sono l’aver confrontato donne incinte con altre non incinte di et? equivalente, l’essersi basata sui criteri diagnostici di riferimento del DSM-IV invece che su altre scale, l’aver considerato non solo la depressione oppure ansia e turbe dell’umore come in genere si ? fatto, bens? una gamma pi? ampia di disturbi psichiatrici (anche abuso di sostanze, distimia, panico, fobie specifiche, eccetera). L’obiettivo era saperne di pi? sulla frequenza e sui fattori legati a tali disturbi negli Stati Uniti: per i pi? noti la prevalenza ? stata valutata in altri studi tra il 15% e il 30%, una stima non molto lontana da quella per la sola depressione intorno al 10-15% per il nostro paese. Queste le principali evidenze. Le donne incinte l’anno prima o dopo il parto avevano livelli significativamente pi? bassi di uso di alcol e sostanze d’abuso, eccetto droghe illecite, rispetto alle donne non incinte; quelle in gravidanza un rischio inferiore di turbe dell’umore rispetto alle non incinte; la sola eccezione era la prevalenza significativamente pi? alta di depressione maggiore nelle donne post-partum in confronto a quelle non gravide. Numerosi ed eterogenei i fattori associati al rischio di disturbi psichiatrici durante l’attesa e dopo il parto: et?, stato civile, stato di salute, eventi di vita stressanti, esperienze traumatiche passate. Le donne incinte l’anno prima e a maggior rischio di tali disturbi erano non sposate o vedove o separate, avevano complicanze gravidiche, una vita stressante, una relazione interrotta, un trauma recente, inoltre avevano in genere una salute meno buona rispetto a quelle che non hanno avuto problemi psichiatrici.
L’auspicio ? pi? sensibilizzazione
La gravidanza di per s? non si lega quindi, per gli autori, a un maggior rischio dei disturbi psichiatrici prevalenti, anche se la depressione pu? aumentare nel periodo successivo al parto. Si identificano per? sottogruppi di donne gravide nei quali i disturbi hanno una prevalenza particolarmente alta, e questo sottolinea la necessit? di migliorare lo screening e il trattamento, a beneficio della loro salute e di quella dei loro figli. Nello studio le donne incinte l’anno prima che avevano richiesto aiuto per problemi psichiatrici erano significativamente di meno di quelle non incinte, e in altri studi solo il 5-14% riceveva un trattamento. Ma questo significa una maggiore sensibilizzazione sia delle donne sia dei medici, per una prevenzione e interventi mirati e precoci nei soggetti a maggior rischio: ricorrendo, per esempio, a campagne educative, e all’accertamento di routine dello stato mentale durante l’assistenza pre e perinatale. Sulla stessa linea d’altra parte la Societ? Italiana di Ginecologia Ostetricia (SIGO), che ha pensato a una campagna di sensibilizzazione e a corsi di aggiornamento dopo aver rilevato, con un sondaggio condotto in primavera, che la maggioranza delle italiane ha scarsa conoscenza del problema e che i medici ritengono vada aumentata l’informazione sull’argomento.
Elettra Vecchia
Fonti
Vesga-Lopez O e coll. Psychiatric Disorders in Pregnant and Postpartum Women in the United States. Arch Gen Psychiatry 20

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Metter ordine tra i noduli

Nel 2007 negli Stati Uniti sono stati diagnosticati circa 30.200 casi di carcinoma tiroideo, ma secondo stime recenti la prevalenza di noduli tiroidei ? pi? elevata (circa il 5% della popolazione ne ? affetto), sopratutto se si considerano quelli subclinici. Anche se nell`85% dei pazienti le lesioni si rivelano benigne, la caratterizzazione preoperatoria dei noduli follicolari della tiroide risulta complessa e spesso incerta, malgrado l`impiego di indagini citologiche sull`ago aspirato. Infatti, questa tecnica non ? in grado di distinguere la natura del nodulo (benigna o maligna) nel 15-30% dei pazienti valutati.
Conseguentemente, numerosi soggetti che presentano proliferazioni follicolari sono sottoposti a tiroidectomia, ma senza una reale necessit? terapeutica. Basti pensare che i risultati istologici finali confermano la malignit? solo nel 10-15% delle lesioni analizzate.

Quando si esprime, la proteina ? un marker
Per migliorare l`accuratezza diagnostica nei confronti dei noduli follicolari tiroidei e, di conseguenza, la selezione dei candidati per l`intervento chirurgico, un gruppo di ricercatori italiani ha condotto uno studio multicentrico per valutare l`efficacia di un test basato sull`analisi dell`espressione della galectina 3, una molecola appartenente al gruppo delle lectine coinvolta in numerosi processi biologici, tra cui l`adesione cellulare, la regolazione del ciclo cellulare, l`apoptosi e la progressione tumorale.
Infatti, come noto in letteratura, questa proteina non ? fisiologicamente espressa nel citoplasma delle cellule tiroidee, ma, se presente, indurrebbe un fenotipo trasformato.
L`indagine, che ha coinvolto 11 centri localizzati sull`intero territorio italiano per un totale di 544 pazienti che presentavano un nodulo tiroideo follicolare classificato come Thy3, ha paragonato la diagnosi finale formulata in base ai risultati istologici (che rappresenta attualmente il gold standard) e quella preoperatoria ottenuta con il test della galectina 3.
Dei 465 soggetti selezionati per l`intervento chirurgico, 70 mostravano anomalie cellulari all`esame istologico e il 71% non esprimeva la galectina 3: nell`85% dei casi queste lesioni galectina 3 negative sono state classificate come benigne al termine dello studio.
Per quanto riguarda i pazienti (134) le cui cellule tiroidee esprimevano la galectina 3, in 101 la diagnosi finale ha confermato la presenza di una neoplasia maligna.
Inoltre, la ricerca ha dimostrato l`elevata sensibilit? (78%) e specificit? (93%) del test della galectina 3 che, quindi, potrebbe essere introdotto quanto prima nella pratica clinica, permettendo una distinzione preoperatoria tra i pazienti che necessitano di una tiroidectomia e quelli in cui questa opzione terapeutica sarebbe superflua.

Per dirimere i casi dubbi
Nonostante l`impiego di questa metodica diagnostica abbia permesso di formulare una diagnosi preoperatoria corretta nell`88% dei pazienti, non va dimenticato che in 29 casi su 130 il carcinoma non ? stato identificato con il test della galectina 3.
Se la scelta di intervenire chirurgicamente si basasse esclusivamente sull`espressione della galectina 3, da un lato si sarebbero eseguiti solo 134 interventi in 465 pazienti, evitando una vasta proporzione (il 71%) di procedure non necessarie, ma dall`altro non sarebbero stati diagnosticati i casi di carcinoma galectina 3 negativi.
Inoltre, con elevata probabilit?, la mancata diagnosi di carcinoma tiroideo in fase preoperatoria ? attribuibile a problemi tecnici nell`esecuzione del test, come dimostra il fatto che nel 28% di queste proliferazioni l`espressione della galectina 3 ? stata successivamente osservata mediante immunoistochimica.

(Bartolazzi A et al. Galectin-3-expression analysis in the surgical selection of follicular thyroid nodules with indeterminate fine-needle aspiration cytology: a prospective multicentre study. Lancet Oncology 2008; 9: 543-549)

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TOS: prime indicazioni

Si ? tenuta a Torino il 16 e 17 maggio 2008 la conferenza di consenso ?Quale informazione per la donna in menopausa sulla terapia ormonale sostitutiva? che ha visto la partecipazione di clinici, giornalisti e rappresentanti dei cittadini. La conferenza ? stata promossa dall`Istituto superiore di sanit? e dal progetto PartecipaSalute, coordinato dall?Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.
I due giorni di presentazioni e dibattiti sono serviti a fare il punto sulle evidenze scientifiche disponibili in merito all?uso della terapia ormonale sostitutiva (TOS), a comprendere quali informazioni siano pi? necessarie alle donne e a valutare la qualit? dell?informazione che attualmente ? rivolta alla popolazione femminile e alla classe medica. Al termine, la giuria ha stilato il documento preliminare, che contiene una prima raccolta di raccomandazioni condivise, che si riporta qui di seguito.

Il testo preliminare
Quali aspetti della menopausa possono essere divulgati come problemi di salute?
La menopausa ? una delle tappe evolutive nella vita della donna, che talora pu? presentarsi in forma critica creando malessere.
I problemi per i quali ? dimostrato un rapporto causale con la menopausa sono:
? sintomi vasomotori (sudorazione, vampate di calore),
? disturbi vaginali legati a secchezza delle mucose,
? disturbi del sonno.
I sintomi vaso-motori e i disturbi del sonno sono generalmente temporanei e di intensit? variabile, ma in alcuni casi tali da influenzare negativamente la qualit? della vita della donna. Altri problemi frequentemente associati alla menopausa (quali ad esempio irritabilit?, depressione, dolori osteoarticolari, aumento di peso, etc.) non hanno con essa un sicuro nesso causale, ma sono ugualmente meritevoli di attenzione.

Per quali scopi si pu? consigliare la TOS, a quali donne, per quanto tempo?
La TOS va riservata alle donne con menopausa precoce, che va considerato un quadro patologico, e a quelle che lamentano sintomi vasomotori e disturbi del sonno percepiti come importanti e persistenti, mentre l?atrofia della mucosa vaginale, che non ? un sintomo precoce, ? trattabile con preparati topici.
Le donne devono essere preliminarmente ben informate della transitoriet? e benignit? dei sintomi, dei benefici e rischi della terapia e della frequente ricomparsa dei sintomi alla sospensione del trattamento, per permettere una decisione pienamente consapevole.
La TOS sulla base degli studi attualmente disponibili, non ? consigliabile a scopo preventivo per uno sfavorevole rapporto fra benefici e rischi in quanto:
? il rischio specifico di tumore alla mammella ? correlato alla dose, durata, e tipo di trattamento estroprogestinico utilizzato;
? in ambito cardiovascolare non vi sono prove di efficacia preventiva derivanti da studi
? randomizzati riguardo l?infarto, mentre ? provata una aumentata incidenza di ictus e di episodi tromboembolici venosi, indipendentemente dall?et?;
? per quanto riguarda le fratture osteoporotiche, non sembra consigliabile un trattamento
? preventivo anticipato anche di decenni rispetto all?et? in cui le fratture diventano prevalenti;
? in ambito neurologico non vi sono prove di efficacia rispetto alle demenze e ai deterioramenti cognitivi.
Il caso delle donne che, pur non avendo disturbi importanti hanno per? un vissuto negativo della menopausa e perci? desiderano fare uso della TOS, non pu? essere oggetto di una raccomandazione generalizzabile, ma va valutato nel rapporto con il medico curante.
Alle donne devono essere fornite informazioni relative agli stili di vita opportuni e alle terapie nonfarmacologiche disponibili. Non vi sono dati di letteratura circa la durata di trattamento per il controllo dei sintomi.

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Riduzioni cerebrali

Nonostante in letteratura esistano numerose evidenze che suggeriscono come l`assunzione prolungata di cannabis sia associata alla comparsa di alcuni eventi avversi, molti utilizzatori sono convinti che questa sostanza sia relativamente pericolosa per la salute e che, quindi, dovrebbe essere legalmente disponibile.
Nei Paesi sviluppati, la cannabis rappresenta la droga maggiormente utilizzata: negli Stati Uniti, per esempio, secondo stime recenti, gli utilizzatori sarebbero circa 15 milioni in un mese e, di questi, circa 3,4 milioni assumerebbero la cannabis quotidianamente per almeno un anno.
Tuttavia, ad oggi, la maggior parte degli studi ? stata condotta in modelli animali e dai risultati ottenuti ? emerso come una somministrazione a lungo termine di cannabinoidi sia in grado di indurre cambiamenti neurotossici nell`ippocampo, inclusa una diminuzione del volume neuronale, della densit? neuronale e sinaptica, e della lunghezza dei dendriti dei neuroni piramidali.

Volumi minori
Per questa ragione, un gruppo di ricercatori australiani ha indagato gli effetti di un consumo elevato (oltre 5 dosi al giorno) e prolungato (pi? di 10 anni) di cannabis in 15 soggetti con un`et? media di 39,8 anni e in 16 controlli. Dal campione in esame sono stati esclusi i pazienti affetti da disturbi mentali e neurologici e chi presentava una storia di abuso di molteplici droghe.
In particolare, sono state prese in considerazione ippocampo e amigdala, due regioni cerebrali ricche di recettori per i cannabinoidi, e, tramite risonanza magnetica a elevata risoluzione, sono state misurate le eventuali variazioni volumetriche di queste aree.
I ricercatori hanno, cos?, osservato che i consumatori di cannabis mostravano una riduzione bilaterale del volume sia dell`ippocampo, sia dell`amigdala (rispettivamente del 12% e del 7,1%) e hanno identificato un`associazione inversa tra il volume ippocampale dell`emisfero sinistro e l`esposizione alla droga durante il decennio precedente.
Inoltre, i soggetti che assumevano la cannabis, rispetto agli appartenenti al gruppo di controllo, ottenevano una performance pi? scarsa per quanto riguardava l`apprendimento verbale ed erano esposti a un rischio pi? elevato di insorgenza di sintomi psicotici.

Conferme per l`uomo
I risultati ottenuti confermano quanto osservato in vivo, dimostrando come l`assunzione prolungata di elevate dosi di cannabis induca una significativa riduzione del volume dell`ippocampo e dell`amigdala.
Infatti, con elevata probabilit?, la mancanza di effetti osservata in alcuni studi precedenti era dovuta all`impiego di tecniche di imaging caratterizzate da basso potere risolutivo o da un periodo di esposizione alla sostanza stupefacente troppo breve.
Tuttavia, resta da chiarire l`eziologia delle riduzioni volumetriche osservate, in quanto potrebbero essere dovute a una perdita di glia o neuroni, a un cambiamento delle dimensioni cellulari o a una diminuzione della densit? sinaptica, come suggeriscono i dati emersi da alcune ricerche eseguite in modelli murini.

Ilaria Ponte
(Y?cel M et al. Regional Brain Abnormalities Associated With Long-term Heavy Cannabis Use. Arch Gen Psychiatry 2008; 65 (6): 694-701)

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Nuovo mezzo contro l’osteoporosi

Sanofi-aventis annuncia che dall’1 settembre sar? regolarmente in vendita Optinate 75 mg una nuova formulazione di risedronato per il trattamento dell’osteoporosi in donne in post menopausa ad aumentato rischio di fratture. Optinate 75 mg, 1 cpr per due giorni consecutivi al mese, offre un’ulteriore possibilit? di personalizzare lo schema posologico in funzione delle preferenze della paziente, potendo cos? contribuire a migliorare l’aderenza e quindi l’efficacia del trattamento. La nuova formulazione consente di rispondere alle esigenze delle pazienti che desiderano assumere il farmaco a cadenza mensile, senza rinunciare alla rapidit? e all’efficacia antifratturativa di risedronato dimostrate non solo sulle fratture vertebrali, ma anche su quelle non vertebrali e di femore. Optinate 75 mg ha dimostrato negli studi registrativi un’efficacia sovrapponibile alla formulazione giornaliera (5mg) nell’incrementare la BMD a livello vertebrale e femorale e nel ridurre i marker del turnover osseo con un profilo di tollerabilit? pressoch? identico. La prescrizione di Optinate 75 mg non comporta alcun aggravio di costi rispetto a Optinate 35 mg e consente un risparmio nei confronti di altre formulazioni mensili.

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Rischio di infarto miocardico negli uomini con bassi livelli di 25-Idrossivitami

La deficienza di vitamina D pu? essere coinvolta nello sviluppo di aterosclerosi e di malattia coronarica negli esseri umani.

Ricercatori dell?Haverd School of Public Heath a Boston negli Stati Uniti, hanno valutato in modo prospettico se le concentrazioni plasmatiche di 25-Idrossivitamina D [ 25(OH)D ] fossero associate al rischio di malattia coronarica.

Uno studio caso-controllo nested ? stato condotto su 18.225 uominidi et? compresa tra 40 e 74 anni, senza diagnosi di malattia cardiovascolare al momento del prelievo ematico.

Nel corso del periodo osservazionale di 10 anni, 454 uomini hanno sviluppato infarto miocardico non-fatale o malattia coronarica fatale.

E? stato osservato che gli uomini carenti di 25(OH)D ( valori uguali o inferiori a 15 ng/mL ) presentavano un aumentato rischio di infarto miocardico, rispetto a quelli con quantit? sufficienti di 25(OH)D ( valori maggiori o uguali a 30 ng/mL ) ( rischio relativo, RR=2.42; p<0.001 per trend ). Dopo aggiustamento per la storia familiare di infarto miocardico, indice di massa corporea, assunzione di alcol, attivit? fisica, storia di diabete mellito ed ipertensione, assunzione di acidi grassi omega-3 marini, livelli di colesterolo LDL ed HDL, e livelli di trigliceridi, la relazione ? rimasta significativa ( RR=2.09; p=0.02 per trend ). Anche gli uomini con livelli intermedi di 25(OH)D erano ad elevato rischio relativo, rispetto alle persone con livelli sufficienti di 25(OH)D ( 22.6-29.9 ng/mL; RR=1,60; 15.0-22.5 ng/ml; RR=1.43, rispettivamente ). Dallo studio ? emerso che bassi livelli di 25-Idrossivitamina D sono associati ad unj pi? alto rischio di infarto miocardico, anche dopo aggiustamento per fattori noti essere associati alla malattia coronarica. Giovannucci E et al; Arch Intern Med 2008; 168: 1174-1180

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Ipersecrezione acida: deficienza di vitamina B12 durante trattamento per lungo p

Gli inibitori della pompa protonica possono causare malassorbimento della cianocobalamina ( vitamina B12 ), ma la misurazione dei valori plasmatici della vitamina sottostima l?evento.

La deficienza di vitamina B12 aumenta i livelli di acido metilmalonico e di omocisteina, entrambi marker di deficienza di vitamina B12.

Ricercatori dell?University of Alabama School of Medicine a Birmingham negli Stati Uniti, si sono posti l?obiettivo di definire la prevalenza di deficienza di vitamina B12, e se la soppressione acida da parte degli inibitori della pompa protonica fossero la causa di questo.

Sono stati studiati 61 pazienti con ipersecrezione acida ( secrezione acida basale >15 mmol/ora ), 46 con gastrinoma ( sindrome di Zollinger-Ellison ) e 15 senza ( ipersecrezione acida senza gastrinoma; pseudo sindrome di Zollinger-Ellison ).

I pazienti sono stati trattati con Lansoprazolo ( Lansox ) per determinare la sua efficacia e la sua sicurezza nel lungo periodo ( fino a 18 anni ).

Dei 61 pazienti, 6 ( 10% ) hanno presentato bassi livelli plasmatici di B12.
Esami aggiuntivi hanno evidenziato deficienza di B12 in altri 13 ( 31% ), nonostante normali livelli plasmatici di cianocobalamina.

La terapia di supplementazione con vitamina B12 ha permesso di ridurre gli elevati livelli di omocisteina e di acido metilmalonico.

Lo studio ha mostrato che in coloro che fanno uso, per lungo periodo, degli inibitori della pompa protonica, la deficienza di vitamina B12 ? pi? frequente ( 29% ), rispetto alla sola misurazione dei livelli plasmatici di B12.
Tuttavia la soppressione acida indotta dai farmaci non era sufficiente a spiegare questa deficienza.

Hirschowitz BI et al, Aliment Pharmacol Ther 2008; 27: 1110-1121

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Donne: i bassi e gli alti livelli di TSH associati alla malattia di Alzheimer

Alti o bassi livelli di tireotropina possono essere associati ad un aumentato rischio di malattia di Alzheimer nelle donne.

La tireotropina, o TSH, ? l?ormone stimolante la tiroide.

Tra il 1977 ed il 1979, i Ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center ed Harvard Medical School, negli Stati Uniti, hanno misurato i livelli di TSH su 1.864 persone di et? media 71 anni, senza problemi cognitivi al basale.

A cadenza biennale, i partecipanti dello studio sono stati sottoposti a valutazione della funzione cognitiva.

Dopo in media 12.7 anni di follow-up, 209 partecipanti hanno sviluppato malattia di Alzheimer.

E? stato osservato che le donne con i pi? bassi ( < 1.0 mUI/L ) ed i pi? alti ( > 2.1 mUI/L ) livelli di tireotropina presentavano un rischio 2 volte maggiore di malattia di Alzheimer.

Nessuna associazione tra livelli di tireotropina e rischio di Alzheimer ? stata riscontrata negli uomini.

Non ? chiaro se le alterazioni dei livelli di tireotropina si presentano prima o dopo l?insorgenza della malattia di Alzheimer.
I cambiamenti cerebrali prodotti dalla malattia di Alzheimer potrebbero causare una riduzione della quantit? di tireotropina rilasciata, o cambiamenti della responsivit? dell?organismo nei confronti dell?ormone.
Un?altra ipotesi ? che gli alti ed i bassi livelli di tireotropina producano danni ai neuroni o ai vasi sanguigni, causando problemi cognitivi.

Fonte: Archives of Internal Medicine, 2008

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