WASHINGTON- Un popolare farmaco anti-colesterolo usato da circa tre milioni di persone nel mondo potrebbe aumentare i rischi di tumore. Venduto negli Usa con il nome commerciale di ?Vytorin?, il prodotto unisce i principi attivi di due diversi farmaci: la simvastatina e l’ezetimibe. Le statine vengono usate da lungo tempo e considerate sicure per la salute, i sospetti dei ricercatori si appuntano per ora quindi sul secondo principio attivo. La ricerca condotta all’universit? norvegese Ulleval, ha studiato 1.873 pazienti sofferenti alle valvole cardiache per verificare se il trattamento fosse in grado di diminuire la necesst? di interventi chirurgici. Ma i risultati ottenuti dagli scienziati non hanno evidenziato alcun beneficio in termine di minor ricorso ad operazioni tra i pazienti che prendevano il farmaco. Inoltre, tra questi malati, 102 hanno sviluppato tumori, contro 67 nuovi casi di cancro registrati tra i volontari che prendevano invece il placebo (farmaco finto utilizzato come termine di paragone). Gli scienziati osservano che ricerche precedenti non avevano evidenziato alcun rischio simile dall’uso del prodotto ma rilevano che statisticamente, la probabilit? che i casi di tumore registrati tra i pazienti sotto Vytorin siano frutto del caso sono meno del 5%. DUBBI SUL RISCHIO – Cauto il professor Silvio Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri, di Milano: ?La potenziale cancerogenicit? dell’ezetimibe era gi? stata ipotizzata dopo uno studio britannico, ma era alla fine risultata poco credibile perch? nella sperimentazione era stato osservato un aumento di tutti i tipi di tumore, mentre se una sostanza ? cancerogena di solito determina l’incremento di un solo genere di tumori. Resta da dire che, visto che l’ezetimibe non ha dimostrato di aumentare significativamente l’effetto della simvastatina pu? valere un criterio di prudenza? Dal canto suo la Schering Plough, una delle due aziende che distribuiscono l’ezetimibe , sottolinea che studi condotti su oltre 20mila persone mostrano tassi di rischio per i tumori addirittura ribaltati (cio? un maggior rischio nel gruppo placebo), e che l’ezetimibe ha mostrato di agire efficacemente sulla riduzione del colesterolo assorbito per via alimentare (la simvastatina agisce invece sulla produzione endogena, cio? ?interna?, del colesterolo).
Aumento dell’adiposit? sottocutanea e viscerale, depressione, affaticabilit?, riduzione della massa ossea, con rischio di osteoporosi, diabete, patologie cardiovascolari e, naturalmente, disfunzioni sessuali, con riduzione della libido e della capacit? erettile. Sono molto pi? di un milione le persone in Italia che soffrono di questi disturbi e patologie per ragioni in qualche modo connesse a una diminuzione dei livelli di testosterone, una condizione chiamata ipogonadismo maschile. In particolare, il 33% dei pazienti affetti da diabete di tipo 2 – che come ? noto ? caratterizzato da una ridotta sensibilit? all’insulina – presenta bassi livelli di testosterone. Questi ultimi, a loro volta, sono un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di diabete di tipo 2 e di sindrome metabolica, anche in pazienti normopeso, perch? causano insulino-resistenza, iperglicemia e alterazione del profilo lipidico. E anche l’obesit? addominale – di cui tanto si parla, e a ragione, in questi giorni come responsabile di primo piano del rischio cardiovascolare – ? associata a bassi livelli di testosterone. “Ormai vi sono chiare evidenze scientifiche a sostegno di una stretta correlazione tra et? avanzata (over 65), presenza di adiposit? viscerale, aumento della resistenza insulinica e sindrome metabolica e bassi livelli di testosterone, sia totale che nella sua frazione libera, – chiarisce il Prof. Giovanni Spera, endocrinologo e ordinario di Medicina Interna all’Universit? “La Sapienza” di Roma. – Un rapporto di causa-effetto ? osservabile anche, a prescindere dall’et?, quando i livelli di testosterone si riducono per altre cause, per esempio a seguito di terapia farmacologica del tumore prostatico. E la controprova ? che, in tutti gli ipogonadismi, sia legati all’et? che ad altre cause, i parametri metabolici migliorano quando viene ripristinato un livello adeguato di testosterone”. Un importante studio multicentrico condotto in otto paesi europei tra cui l’Italia – il TIMES2, del quale sono stati anticipati i risultati il 18 giugno scorso alla ENDO 2008 Conference in San Francisco (http://www.endo-society.org/endo/index.cfm) – dimostra che la terapia sostitutiva a base di testosterone migliora in modo significativo la sensibilit? all’insulina e la funzione sessuale negli uomini affetti di ipogonadismo e diabete di tipo 2 e/o sindrome metabolica. “L’obiettivo clinico dello studio era di verificare se, ripristinando livelli di testosterone pi? vicini alla normalit?, fosse possibile migliorare le condizioni dei pazienti con diabete mellito e/o con sindrome metabolica. Un obiettivo che, almeno stando ai risultati preliminari, sembra raggiunto. Nella nostra sperimentazione? precisa il Prof. Spera il cui Centro ha coordinato la sperimentazione per l’Italia – nessuno dei pazienti studiati ha riportato effetti collaterali di una certa importanza n? ha mostrato ricadute negative a livello dell’apparato genito-urinario. E molti di loro hanno dichiarato di aver sperimentato un miglioramento della qualit? di vita, dell’umore e del tono muscolare”. “La scoperta dell’efficacia della terapia sostitutiva con testosterone per migliorare la sensibilit? all’insulina e che tale efficacia persiste per almeno un anno ? molto interessante, ? sottolinea il Prof. Hugh Jones, endocrinologo presso la Medical School dell’Universit? di Sheffield in Scozia e autore dello studio. ? L’insulino-resistenza, infatti, ? associata non soltanto allo sviluppo di elevata glicemia, ma anche a numerosi disturbi e alterazioni, primi fra tutti l’aumento del rischio cardiovascolare. Circa tre quarti degli uomini con diabete subisce un evento cardiovascolare fatale. E, verosimilmente, ogni terapia in grado di ridurre l’insulino-resistenza contribuir? a ridurre il rischio cardiovascolare globale”. Lo studio TIMES2 ? stato condotto in doppio cieco, randomizzato vs placebo, su 220 uomini over 40 con ipogonadismo e diabete di tipo 2 e/o sindrome metabolica, sottoposti a terapia sostitutiva con gel transdermico a base di testosterone al 2%. Il principale end-point dello studio consisteva nel valutare l’efficacia del farmaco in gel transdermico a base di testosterone al 2%, sulla sensibilit? all’insulina dopo 6 e 12 mesi. L’end point secondario consisteva nel valutare le variazioni di una serie di parametri, tra i quali l’obesit? addominale, il profilo lipidico, il controllo glicemico, la funzione sessuale e la libido, gli eventi cardiovascolari e, naturalmente, la sicurezza e la tollerabilit?. Dai risultati preliminari dello studio, il testosterone al 2% in gel transdermico: aumenta significativamente la sensibilit? all’insulina rispetto ai controlli, sia a 6 mesi che a 12 mesi, aumenta in misura significativa la funzione sessuale sia a 6 mesi che a 12 mesi, si ? dimostrato ben tollerabile. ?In base alla mia esperienza clinica, vedo senza dubbio un futuro per la terapia sostitutiva a base di testosterone nell’anziano ipogonadico, – aggiunge il prof. Spera. – Anche perch?, proprio a causa dell’invecchiamento generale della popolazione, ? interesse di tutti garantire una migliore qualit? di vita e, soprattutto, la riduzione pi? ampia possibile del rischio di malattia, specie rispetto a condizioni come il diabete e la sindrome metabolica, che rappresentano fattori importantissimi di rischio cardiovascolare e di danno d’organo. Il testosterone, in questa ottica, potrebbe addirittura rappresentare una sorta di scorciatoia in termini di prevenzione”. A questo proposito, va ricordato chei preparati per terapia sostitutiva a base di testosterone non sono tutti uguali. Rispetto ad altri preparati in gel, il testosterone al 2% utilizzato nello studio TIMES2 permette, tra l’altro, di: personalizzare la terapia, potendo somministrare, grazie all?originale dispenser, una dose precisa di testosterone adeguata al singolo paziente evitando, inoltre, sprechi di prodotto, dimezzare il quantitativo di gel da applicare, a parit? di testosterone rispetto agli altri gel, grazie alla concentrazione al 2%, coprire le 24 ore con una sola applicazione, raggiungere livelli plasmatici adeguati di testosterone mantenendoli nel tempo, indurre meno effetti collaterali cutanei. Il TIMES2 ? uno dei pi? ampi studi scientifici condotti in questo campo e dimostra come i benefici effetti della terapia sostitutiva a base di testosterone possano essere raggiunti anche in pazienti affetti da patologie importanti e diffuse come il diabete mellito e la sindrome metabolica, le quali, a loro volta, rappresentano fattori di rischio cardiovascolare. ? anche per questo che ? importante che l’ipogonadismo maschile sia diagnosticato correttamente e adeguatamente trattato con positivi risultati sia sulla qualit? della vita che sul profilo di rischio globale di chi ne ? affetto. “Vi ? poi da considerare che l’et? media della popolazione si allunga per tutti, – conclude il Prof. Spera, – e aumenta il numero di uomini i quali, a seguito di una riduzione progressiva dei livelli di testosterone subiscono disturbi non dissimili da quelli a cui ? soggetta la donna, quando entra in menopausa, come la depressione e i disturbi dell’umore, uno scadimento della qualit? di vita, un calo della massa e del tono muscolare e cos? via. Perch? non ipotizzare, quando il testosterone totale scende al di sotto di un determinato cut-off, stimato intorno a 320 mg/dL, una terapia sostitutiva testosteronica per l’uomo, al pari di quella estrogenica per la donna?”
Tumori infantili in costante aumento, ma mortalit? in costante diminuzione. Lo rende noto il Rapporto AIRTUM 2008 – Tumori infantili. Incidenza, sopravvivenza, andamenti temporali, realizzato dall?AIRTUM in collaborazione con l?Associazione italiana di emato-oncologia pediatrica (AIEOP) e con il sostegno dell?IST di Genova e del CCM (Centro controllo e prevenzione delle malattie – Ministero della salute). Il Rapporto AIRTUM offre finalmente anche per i tumori infantili e dell?adolescente una qualit? e un dettaglio informativo analoghi a quelli raggiunti per le altre fasce di et?.? Lo studio fornisce una misura aggiornata dell?incidenza e della sopravvivenza dei soggetti con tumore in et? pediatrica (anni 0-14) e adolescenziale (anni 15-19), basata sui dati raccolti da 23 registri dell?Associazione Italiana Registri Tumori (la mappa dei Registri attivi in Italia ? disponibile sul sito www.registri-tumori.it). Sono inoltre pubblicati gli andamenti temporali di incidenza, sopravvivenza e mortalit?, e le stime del numero di casi attesi in Italia da qui al 2015. Sono riportati anche i dati del Registro ospedaliero dell?Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (AIEOP). ? Relativamente al periodo di osservazione 1998-2002,?nell?area coperta dai registri tumori i tassi d?incidenza della malattia sono i seguenti: bambini 0-14 anni:??175,4 casi per milione/anno ragazzi 15-19 anni:??270,3 casi per milione/anno? Il tasso di incidenza per tutti i tumori pediatrici in Italia ? pi? alto di quello rilevato negli anni novanta negli Stati Uniti (158) e in Europa (140). Attualmente in Germania ? 141, in Francia ? 138.? Pur restando una patologia rara, tra il 1988 e il 2002 (tre quinquenni) si ? osservato un aumento della frequenza del 2 per cento?annuo, passando da?146,9 casi nel periodo 1988-1992?a 176,0 casi? nel periodo 1998-2002. L?incremento pi? consistente riguarda i bimbi sotto l?anno di et? (+3,2 per cento), seguiti da quelli tra 10 e 14 anni (+2,4 per cento), mentre ? simile negli altri due gruppi (+1,6 per cento nella fascia di et? 1-4 anni, +1,8 per cento tra i 5 e i 9 anni).? I tre tumori pi? frequenti nei bambini sono tutti in aumento: leucemie +1,6 per cento annuo;?linfomi +4,6 per cento annuo;?tumori del sistema nervoso centrale +2,0 per cento annuo. ? Un fenomeno simile ? stato osservato in diversi Paesi, ma in Italia il cambiamento percentuale annuo risulta pi? alto che in Europa: – per l?insieme di tutti i tumori (+2 per cento vs 1,1 per cento) – per le leucemie (+1,6 per cento vs 0,6 per cento) – per i tumori del sistema nervoso centrale (+2 per cento vs 1,7 per cento) – e per i linfomi (+4,6 per cento vs 0,9 per cento). Negli Stati Uniti, invece, il tasso per tutti i tumori non ? aumentato in modo significativo (+0,6 per cento), l?incremento delle leucemie ? dello 0,4 per cento e i tumori del SNC sono stabili (-0,1 per cento).? Per i casi rilevati nel 1998-2002, la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi ha raggiunto complessivamente il 78 per cento per i tumori in et? pediatrica e l?82 per cento?per i tumori dell?adolescente. Lo studio non ha rilevato differenze statisticamente significative nella sopravvivenza dei bambini e degli adolescenti residenti nelle diverse aree geografiche del Paese. Le previsioni non sono rosee per i bambini tra 0 e 14 anni. Le stime, calcolate utilizzando le informazioni raccolte nelle aree coperte dai Registri tumori e i dati di popolazione forniti dall?ISTAT, indicano che in Italia ci sar? un aumento dei casi tra i pi? piccoli. Nel gruppo dei ragazzi, invece, i casi passano da 3974 nel periodo 2001-05 a 3752 nel periodo 2011-15.??
La fotografia aggiornata dei dati riguardanti i tumori infantili ? essenziale per tenere sotto controllo la malattia, per organizzare la distribuzione delle risorse e per valutare il numero di soggetti coinvolti negli studi clinici finalizzati a valutare le terapie pi? efficaci. Oltre a migliorare i trattamenti e il funzionamento del servizio sanitario, i risultati presentati in questo studio dovrebbero servire da stimolo per promuovere ricerche specifiche e approfondimenti sulle cause dei tumori infantili. Ma a che cosa si deve l?aumento dell?incidenza??
“Verosimilmente intervengono fattori diversi”, spiega Corrado Magnani, coordinatore scientifico del Gruppo di lavoro AIRTUM. “Almeno una parte della variazione ? da attribuire ai miglioramenti della diagnosi e non a fattori causali. I progressi del servizio sanitario nazionale e delle tecniche di diagnosi e cura hanno fatto s? che molti casi di tumore in passato misconosciuti siano oggi correttamente diagnosticati e trattati. All?opposto, esiste molta incertezza sui possibili fattori causali di questi tumori e sulla proporzione attribuibile a fattori esterni oppure a fattori genetici”.? “E’ un aumento reale ed ? prioritario andare a ricercare le cause di questo fenomeno”, commenta Franco Berrino, direttore del Dipartimento di Medicina preventiva dell?Istituto dei tumori di Milano, “la quota di casi generata dal miglioramento diagnostico non spiega interamente il fenomeno, occorre indagare in tutte le direzioni e approfondire le indagini sui fattori che sollevano qualche sospetto, compresi quelli dovuti all?inquinamento ambientale”.? “E? difficile evincere l?impatto del miglioramento diagnostico sull?aumento del numero dei casi, la questione dovrebbe essere approfondita cos? come il possibile ruolo dei fattori ambientali”, afferma Benedetto Terracini, direttore di Epidemiologia & Prevenzione e fondatore, nel 1967,? del primo registro dei tumori infantili italiano. “Un messaggio chiaro? riguarda la qualit? dell?erogazione delle cure nel nostro paese. I bambini italiani non hanno nulla da invidiare ai loro coetanei scandinavi o canadesi, e? non sembrano esservi differenze nell?accesso alle migliori terapie per area di residenza. Sono per? necessarie scelte? politiche in merito alle migrazioni sanitarie (principalmente da Sud a Nord). Le autorit? sanitarie debbono decidere se ? preferibile incrementare i centri di eccellenza al Sud oppure? facilitare la vita delle famiglie che forzatamente debbono far curare un loro bambino al Nord”. Bibliografia. Rapporto AIRTUM 2008 – Tumori infantili. Incidenza, sopravvivenza, andamenti temporali. Epidemiologia & Prevenzione 2008; 32(3) Suppl 2: 1-112.
Sfuggente e spesso asintomatica, difficile da diagnosticare e da curare. L’epatite C ? una malattia spesso sottovalutata ma il cui decorso pu? portare all’insorgenza di gravi disturbi a carico del fegato come la cirrosi epatica o il carcinoma epatocellulare. Secondo una recente stima statunitense, circa 140 milioni di individui al mondo sono portatori del virus dell’epatite C ma soltanto il 30 per cento di questi ne ? consapevole. Un recente fascicolo degli Annals of Internal Medicine dedica all’epatite C tutta la sua attenzione clinica, sottolineando le migliori strategie di prevenzione, diagnosi e gestione della malattia nelle diverse tipologie di soggetti, in base ai recenti progressi della ricerca medica.
Nella lotta all’epatite C grande importanza ? affidata alle strategie di prevenzione, tra cui la migliore resta quella di evitare l’esposizione a sangue infetto, l’unico e solo veicolo di trasmissione riconosciuto del virus HCV, e ad una corretta interpretazione dei sintomi. Alla luce dei progressi medici compiuti negli ultimi anni, il trattamento e la gestione della malattia sono invece strettamente correlati alla tipologia d’infezione. Fino ad oggi, infatti, sono stati identificati sei differenti genotipi del virus HCV e il loro riconoscimento tramite test HCV RNA ? indispensabile per la scelta e la durata della terapia da intraprendere sui pazienti. I genotipi 1 e 4, ad esempio, sono caratterizzati da una scarsa risposta al trattamento e in questi casi ? consigliato valutare con una biopsia epatica la necessit? di intraprendere una terapia farmacologica sul paziente, verificando la progressione della malattia a livello epatico. Secondo le raccomandazioni degli Annals, la biopsia risulta utile anche nel caso di particolari controindicazioni dei soggetti alla terapia farmacologica. Il trattamento consigliato attualmente prevede la combinazione di interferone pegilato alfa per via sottocutanea associato all?assunzione orale di ribavirina a dosi e tempi legati ai differenti genotipi del virus e alle caratteristiche del paziente. La risposta al trattamento pu? essere valutata a sei mesi dalla cessazione della terapia tramite un test HCV RNA, che risulta negativo nel caso di risposta completa.
In base alle raccomandazioni degli Annals, i pazienti sottoposti a terapia farmacologica devono essere costantemente monitorati e deve essere verificata l’insorgenza di eventuali effetti collaterali, i quali risultano particolarmente frequenti e accentuati con l’utilizzo di interferone e ribavirina. Infine va raccomandato a tutti i soggetti affetti da epatite C di evitare assolutamente l’assunzione di alcol e di farmaci epatotossici come il paracetamolo, nonch? di rispettare una dieta particolarmente povera di sodio. Condizioni base per mantenere una buon quadro clinico a dispetto di una malattia cronica e dal decorso pericoloso, ma con la quale ? possibile sopravvivere dignitosamente.
Bibliografia. Jou JH, Muir AJ. In The Clinic. Hepatitis C. Ann Intern Med 2008; 148(11):ITC6-1-ITC6-16.
Roma, 24 lug. (Adnkronos Salute) – La soia riduce la fertilit? maschile. Il consumo di questo alimento, infatti, farebbe diminuire il numero di spermatozoi, e non di poco: gli uomini che ne mangiano di pi? – mezza porzione al giorno – hanno 41 milioni di spermatozoi in meno per millilitro di sperma, rispetto a chi non ne mangia affatto. A sostenerlo sono i ricercatori americani, guidati dal Jorge Chavarro, della Harvard School of Public Health di Boston, in uno studio pubblicato su Human Reproduction. Gli isoflavonoidi, presenti nella soia, sono estrogeni naturali e la ricerca ha indagato, nel dettaglio, proprio sul rapporto tra consumo di fitoestrogeni e qualit? del liquido seminale.
L’equipe ha analizzato l’apporto alimentare di 15 prodotti a base di soia in 99 uomini che, tra il 2000 e il 2006, si erano sottoposti a controlli per la valutazione della loro fertilit?. Ai pazienti ? stato proposto un questionario sulla frequenza e la quantit? del consumo di alimenti a base di soia e isoflavonoidi nei tre mesi precedenti. Gli uomini sono stati divisi in quattro gruppi in funzione del loro consumo di questi alimenti.
Dopo aver analizzato i dati, introducendo correzioni legate ad altri fattori in grado di ridurre la fertilit? (et?, durata dell’astinenza sessuale, massa corporea, consumo di alcol, fumo ) i ricercatori hanno osservato che gli uomini con una dieta ricca di soia (almeno una mezza porzione al giorno o una porzione pi? di due volte la settimana) avevano, rispetto a chi non ne assumeva per niente, circa 41 milioni di spermatozoi in meno per millilitro di liquido seminale. E il rapporto tra consumo di soia e minor numero di spermatozoi risultava pi? marcato negli uomini obesi o sovrappeso.
La deprivazione androgenica primaria, utilizzata da sola al posto di chirurgia o radiazioni, non migliora la sopravvivenza pi? del trattamento conservativo nella maggior parte degli uomini anziani con tumore prostatico localizzato. Ci? dunque mette in discussione il recente uso comune di questa strategia, soprattutto considerando i suoi costi ed effetti collaterali significativi. Quando la deprivazione androgenica viene usata in congiunzione con chirurgia o radiazioni, comunque, essa ? davvero in grado di migliorare la sopravivenza complessiva. Essa ? di beneficio in sottogruppi specifici di pazienti, come quelli con tumori poco differenziati, ma necessita di un razionale ben giustificato. JAMA. 2008; 300: 173-81
Gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (RT) inducono la differenziazione cellulare e favoriscono il fenotipo immunogeno nei carcinomi renali a cellule chiare (RCC). Ci? supporta la teoria secondo cui gli inibitori della RT presentino propriet? citostatiche. Pi? specificamente, questi agenti incrementano la capacit? delle cellule tumorali di stimolare la proliferazione delle cellule T autologhe, e favoriscono la differenziazione delle cellule T CD4+ che acquisiscono un fenotipo “della memoria”. Questi dati suggeriscono che gli inibitori della RT possa costituire uno strumento innovativo nel trattamento degli RCC umani. Int J Cancer 2008; 122: 2842-50
Nel 2007 negli Stati Uniti sono stati diagnosticati circa 30.200 casi di carcinoma tiroideo, ma secondo stime recenti la prevalenza di noduli tiroidei ? pi? elevata (circa il 5% della popolazione ne ? affetto), sopratutto se si considerano quelli subclinici. Anche se nell`85% dei pazienti le lesioni si rivelano benigne, la caratterizzazione preoperatoria dei noduli follicolari della tiroide risulta complessa e spesso incerta, malgrado l`impiego di indagini citologiche sull`ago aspirato. Infatti, questa tecnica non ? in grado di distinguere la natura del nodulo (benigna o maligna) nel 15-30% dei pazienti valutati. Conseguentemente, numerosi soggetti che presentano proliferazioni follicolari sono sottoposti a tiroidectomia, ma senza una reale necessit? terapeutica. Basti pensare che i risultati istologici finali confermano la malignit? solo nel 10-15% delle lesioni analizzate.
Quando si esprime, la proteina ? un marker Per migliorare l`accuratezza diagnostica nei confronti dei noduli follicolari tiroidei e, di conseguenza, la selezione dei candidati per l`intervento chirurgico, un gruppo di ricercatori italiani ha condotto uno studio multicentrico per valutare l`efficacia di un test basato sull`analisi dell`espressione della galectina 3, una molecola appartenente al gruppo delle lectine coinvolta in numerosi processi biologici, tra cui l`adesione cellulare, la regolazione del ciclo cellulare, l`apoptosi e la progressione tumorale. Infatti, come noto in letteratura, questa proteina non ? fisiologicamente espressa nel citoplasma delle cellule tiroidee, ma, se presente, indurrebbe un fenotipo trasformato. L`indagine, che ha coinvolto 11 centri localizzati sull`intero territorio italiano per un totale di 544 pazienti che presentavano un nodulo tiroideo follicolare classificato come Thy3, ha paragonato la diagnosi finale formulata in base ai risultati istologici (che rappresenta attualmente il gold standard) e quella preoperatoria ottenuta con il test della galectina 3. Dei 465 soggetti selezionati per l`intervento chirurgico, 70 mostravano anomalie cellulari all`esame istologico e il 71% non esprimeva la galectina 3: nell`85% dei casi queste lesioni galectina 3 negative sono state classificate come benigne al termine dello studio. Per quanto riguarda i pazienti (134) le cui cellule tiroidee esprimevano la galectina 3, in 101 la diagnosi finale ha confermato la presenza di una neoplasia maligna. Inoltre, la ricerca ha dimostrato l`elevata sensibilit? (78%) e specificit? (93%) del test della galectina 3 che, quindi, potrebbe essere introdotto quanto prima nella pratica clinica, permettendo una distinzione preoperatoria tra i pazienti che necessitano di una tiroidectomia e quelli in cui questa opzione terapeutica sarebbe superflua.
Per dirimere i casi dubbi Nonostante l`impiego di questa metodica diagnostica abbia permesso di formulare una diagnosi preoperatoria corretta nell`88% dei pazienti, non va dimenticato che in 29 casi su 130 il carcinoma non ? stato identificato con il test della galectina 3. Se la scelta di intervenire chirurgicamente si basasse esclusivamente sull`espressione della galectina 3, da un lato si sarebbero eseguiti solo 134 interventi in 465 pazienti, evitando una vasta proporzione (il 71%) di procedure non necessarie, ma dall`altro non sarebbero stati diagnosticati i casi di carcinoma galectina 3 negativi. Inoltre, con elevata probabilit?, la mancata diagnosi di carcinoma tiroideo in fase preoperatoria ? attribuibile a problemi tecnici nell`esecuzione del test, come dimostra il fatto che nel 28% di queste proliferazioni l`espressione della galectina 3 ? stata successivamente osservata mediante immunoistochimica.
Un regime insulinico intensivo nei soggetti con nuova diagnosi di diabete di tipo 2 sembra capace di restaurare la funzionalit? fisiologica delle cellule beta pancreatiche. Da questa premessa sono partiti alcuni ricercatori cinesi per un nuovo studio, multicentrico e randomizzato, per identificare quale fosse il trattamento pi? efficace, tra due diversi protocolli di somministrazione dell`insulina rispetto alla terapia con ipoglicemizzanti orali. End point primario del trial ? stato il tempo intercorso dall`inizio della terapia alla comparsa della remissione del diabete di tipo 2. Gli autori hanno anche valutato il profilo quantitativo e qualitativo della funzionalit? recuperata dalle cellule beta e la durata dei periodi di remissione.
Disegno e partecipanti Dalla collaborazione di nove ospedali universitari distribuiti in varie province della Cina, tra settembre 2004 e ottobre 2006 sono stati reclutati 382 adulti che avevano valori di glicemia a digiuno compresi tra 7,0 e 16,7 mmol/l. Questi pazienti sono stati randomizzati in tre gruppi di trattamento: insulina per infusione (CSII); pi? iniezioni giornaliere d`insulina (MDI), con il tipo rapido prima dei tre pasti e con quella lenta la sera; ipoglicemizzanti orali (gliclazide o metformina o entrambe). La terapia si ? protratta per due settimane dopo che i livelli di glicemia erano tornati normali e poi ? stata sospesa in tutti e tre i gruppi, e i pazienti sono stati controllati per un anno.
Risultati Il ripristino dello stato euglicemico, come ci si poteva attendere, ? avvenuto pi? rapidamente nei pazienti trattati con insulina: 4 giorni per il gruppo CSII e 5,6 giorni per l`MDI verso i 9,3 giorni del gruppo ipoglicemizzanti orali. Tuttavia quando il trattamento con ipoglicemizzanti orali ? sufficientemente aggressivo, e il paziente responsivo, la regressione del diabete si ottiene egualmente (nell`83,5% dei casi, mentre con l`insulina si supera il 95%), ma non ? altrettanto duratura. A distanza di un anno, infatti, si mantenevano in remissione il 51,1% dei pazienti CSII, il 44,9% del gruppo MDI e solo il 26,7% del gruppo trattato con farmaci ipoglicemizzanti. Questi dati suggeriscono il ricorso immediato all`insulina, mentre attualmente il suo utilizzo nei soggetti con diabete di tipo 2 ? riservato alla seconda fase della malattia, quando l`iperglicemia non ? pi? controllabile con gli ipoglicemizzanti orali.
Considerazioni Nel 1998 lo UK prospective diabetes study dimostr? come il decorso naturale del diabete di tipo 2 prevedesse un lento e progressivo deterioramento delle cellule beta, indipendente dallo stile di vita e dalla terapia farmacologica adottati. ? probabile che il declino funzionale sia accelerato dall`effetto tossico del glucosio nel sangue e, al contrario, che una rapida rimozione del glucosio in eccesso possa modificare il decorso della malattia, ritardandone temporaneamente le manifestazioni cliniche. I ricercatori cinesi per? hanno osservato che l`effetto di “ristoro” cio? di recupero funzionale delle cellule beta, era stabile nei soggetti trattati con insulina mentre decresceva progressivamente nei mesi d`osservazione nei pazienti curati con i farmaci orali. E infatti il tasso di remissione a un anno in questo gruppo si riduceva di molto, passando dall`83,5% al 26,7%
Nonostante in letteratura esistano numerose evidenze che suggeriscono come l`assunzione prolungata di cannabis sia associata alla comparsa di alcuni eventi avversi, molti utilizzatori sono convinti che questa sostanza sia relativamente pericolosa per la salute e che, quindi, dovrebbe essere legalmente disponibile. Nei Paesi sviluppati, la cannabis rappresenta la droga maggiormente utilizzata: negli Stati Uniti, per esempio, secondo stime recenti, gli utilizzatori sarebbero circa 15 milioni in un mese e, di questi, circa 3,4 milioni assumerebbero la cannabis quotidianamente per almeno un anno. Tuttavia, ad oggi, la maggior parte degli studi ? stata condotta in modelli animali e dai risultati ottenuti ? emerso come una somministrazione a lungo termine di cannabinoidi sia in grado di indurre cambiamenti neurotossici nell`ippocampo, inclusa una diminuzione del volume neuronale, della densit? neuronale e sinaptica, e della lunghezza dei dendriti dei neuroni piramidali.
Volumi minori Per questa ragione, un gruppo di ricercatori australiani ha indagato gli effetti di un consumo elevato (oltre 5 dosi al giorno) e prolungato (pi? di 10 anni) di cannabis in 15 soggetti con un`et? media di 39,8 anni e in 16 controlli. Dal campione in esame sono stati esclusi i pazienti affetti da disturbi mentali e neurologici e chi presentava una storia di abuso di molteplici droghe. In particolare, sono state prese in considerazione ippocampo e amigdala, due regioni cerebrali ricche di recettori per i cannabinoidi, e, tramite risonanza magnetica a elevata risoluzione, sono state misurate le eventuali variazioni volumetriche di queste aree. I ricercatori hanno, cos?, osservato che i consumatori di cannabis mostravano una riduzione bilaterale del volume sia dell`ippocampo, sia dell`amigdala (rispettivamente del 12% e del 7,1%) e hanno identificato un`associazione inversa tra il volume ippocampale dell`emisfero sinistro e l`esposizione alla droga durante il decennio precedente. Inoltre, i soggetti che assumevano la cannabis, rispetto agli appartenenti al gruppo di controllo, ottenevano una performance pi? scarsa per quanto riguardava l`apprendimento verbale ed erano esposti a un rischio pi? elevato di insorgenza di sintomi psicotici.
Conferme per l`uomo I risultati ottenuti confermano quanto osservato in vivo, dimostrando come l`assunzione prolungata di elevate dosi di cannabis induca una significativa riduzione del volume dell`ippocampo e dell`amigdala. Infatti, con elevata probabilit?, la mancanza di effetti osservata in alcuni studi precedenti era dovuta all`impiego di tecniche di imaging caratterizzate da basso potere risolutivo o da un periodo di esposizione alla sostanza stupefacente troppo breve. Tuttavia, resta da chiarire l`eziologia delle riduzioni volumetriche osservate, in quanto potrebbero essere dovute a una perdita di glia o neuroni, a un cambiamento delle dimensioni cellulari o a una diminuzione della densit? sinaptica, come suggeriscono i dati emersi da alcune ricerche eseguite in modelli murini.