Tumori maligni in gravidanza, cure senza rischi per il nascituro

28 Ott 2012 Oncologia

Una serie di tre articoli comparsi su The Lancet mostra che i tumori ginecologici (ovaio e cervice uterina) sono le neoplasie maligne più comuni durante la gravidanza. Il trattamento del carcinoma localmente avanzato della cervice uterina è controverso e deve essere discusso caso per caso in base alle dimensioni del tumore, alle immagini radiologiche, ai tempi della gravidanza e ai desideri della paziente. I tumori maligni dell’ovaio si presentano durante la gravidanza in diversi tipi istologici e queste differenze influenzano la scelta del trattamento, oltre al grado di differenziazione, allo stato nodale e al trimestre di gravidanza. Quando il tumore si diffonde al peritoneo può essere indicata una chemioterapia neoadiuvante con preservazione della gravidanza. Il cancro al seno dovrebbe essere affrontato in modo interdisciplinare e l’approccio ideale deve tener conto della fase della gestazione, della biologia e dello stadio del tumore. La chirurgia è possibile in tutti i trimestri della gravidanza, mentre la radioterapia può mettere a rischio il nascituro. Le evidenze supportano la chemioterapia a partire dalla quattordicesima settimana ma non l’utilizzo di tamoxifene e trastuzumab. Un capitolo a parte è costituito dai tumori ematologici che, sebbene rari, pongono gravemente a rischio sia la madre che il feto. Il più comune è il linfoma di Hodgkin, seguito dal non-Hodgkin e dalla leucemia acuta. Nei primi mesi è spesso consigliata l’interruzione della gravidanza per preservare la salute della madre, ma in fase gestazionale più avanzata il trattamento è in molti casi possibile.

Lancet, 2012; 379(9815):558-69

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Ipotiroidismo, trattamento prenatale non migliora il QI dei figli

Si era in precedenza riportato che i bambini nati da madri ipotiroidee mostrano ridotte funzioni cognitive. Tuttavia, uno screening prenatale a cui è seguito un trattamento materno dell’ipotiroidismo non ha prodotto miglioramenti nelle funzioni cognitive dei bambini all’età di tre anni. Lo studio randomizzato ha visto la partecipazione di ricercatori inglesi, gallesi e italiani, dell’ospedale infantile Regina Margherita-Sant’Anna di Torino, che hanno analizzato campioni di sangue di 21.846 donne nelle prime sedici settimane di gravidanza. Suddivise in due gruppi, ad alcune sono stati misurati immediatamente i livelli di tireotropina e tiroxina libera (Ft4) mentre nelle altre il siero è stato conservato e le analisi effettuate subito dopo il parto. Le partecipanti con valori di tireotropina superiori al 97,5° percentile oppure di Ft4 al di sotto del 2,5° percentile sono state considerate positive allo screening: in totale 404 nel gruppo di controllo e 390 nel gruppo di intervento, a cui sono stati somministrati 150 ug di levotiroxina al giorno. Quando i bambini hanno raggiunto l’età di tre anni, sono stati sottoposti a una valutazione delle funzionalità cognitive. Nei figli delle donne ipotiroidee trattate con il farmaco, il quoziente intellettivo medio è stato di 99,2 contro il 100,0 nei bimbi delle donne positive ma non trattate. Le percentuali di bambini con QI inferiore a 85 è stato rispettivamente del 12,1% e del 14,1%, mostrando così l’inefficacia della terapia.

N Engl J Med, 2012; 366(6):493-501

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Fenofibrato: nefrotossicità, ca-antagonisti e nefropatia

26 Ott 2012 Nefrologia

Dopo le segnalazioni già contenute in precedenti trial, un nuovo studio osservazionale retrospettivo conferma che la somministrazione di fenofibrato si associa a nefrotossicità, e molto più spesso di quanto in precedenza riportato, specie in pazienti con malattie renali e nei soggetti trattati con alte dosi del farmaco o in associazione a calcio-antagonisti. La ricerca – condotta nel Texas meridionale da Rebecca L. Attridge, dell’university of Texas Health science center di San Antonio (Usa), e collaboratori – ha evidenziato che a 6 mesi dall’inizio del trattamento con fenofibrato, su 428 pazienti il 27% (n=115) mostrava un incremento di creatinina sierica =/>0,3 mg/dL. Inoltre, qualsiasi tipo di malattia renale, la nefropatia cronica e il diabete avevano una prevalenza significativamente superiore nei soggetti con nefrotossicità associata a fenofibrato. Al basale, i pazienti che hanno evidenziato fenomeni di tossicità renale avevano valori di creatinina sierica significativamente maggiori e un tasso stimato di filtrazione glomerulare pure significativamente inferiore. Questi soggetti, inoltre, facevano più frequentemente uso di calcio-antagonisti, furosemide e Ace-inibitori. L’incidenza della nefrotossicità è risultata nettamente superiore nei pazienti trattati con alte dosi di fenofibrato rispetto a queli in terapia con basse dosi dello stesso farmaco. In un modello di regressione multivariata, una malattia renale, alte dosi di fenofibrato e l’impiego di calcio-antagonisti diidropiridinici sono risultati predittori indipendenti di incremento sierico di creatinina nei soggetti in terapia con fenofibrato.

J Clin Lipidol, 2012; 6(1):19-26

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Antipertensivi: meglio se somministrati la sera

La modalità di somministrazione serale degli anti-ipertensivi sarebbe da consigliare almeno nei pazienti con insufficienza renale (IRC) e per i farmaci che agiscono sul sistema renina angiotensina (ACEI, Sartani). Questa è la conclusione cui perviene Hermida in uno studio che ha arruolato 661 pazienti con IRC. Lo studio, che ha però il limite di essere in aperto, ha valutato l’efficacia di una somministrazione di tutti gli antipertensivi al risveglio o di almeno un farmaco la sera, prima di andare a letto. È stata misurata la pressione delle 48 h basale, poi ogni 3 mesi o almeno ogni anno. Dopo un follow-up mediano di 5.4 anni, i pazienti che assumevano almeno 1 farmaco la sera avevano un rischio aggiustato per eventi cardiovascolari totali (infarti e angina, ictus, rivascolarizzazione, mortalità) ridotto di approssimativamente 1/3 rispetto ai pazienti che avevano assunto tutti i farmaci al mattino (p<0.001). Inoltre, i pazienti che assumevano i farmaci prima del riposo notturno avevano una pressione media notturna significativamente più bassa ed un migliore controllo della pressione nella rilevazione dinamica (p=0.003). Per ogni 5 mmHg di diminuzione della pressione sistolica notturna si è assistito a una riduzione del 14.5% del rischio di eventi cardiovascolari nel follow up (p<0.001). I migliori risultati si sono ottenuti però con ACEI e sartani; meno evidenti sembrano con i calcio-antagonisti (CCB) e nulli con i beta-bloccanti ed i diuretici. È possibile che per i beta-bloccanti sia importante la modulazione dell’attività simpatica (quindi meglio somministrarli al mattino) e per i diuretici il peggioramento del riposo notturno causato dell’inevitabile nicturia, se somministrati la sera. A nostro parere la novità del lavoro non consiste tanto nel fatto che si debba frazionare la somministrazione dei farmaci (in genere i nostri pazienti sono poli-trattati e da sempre si cerca di scaglionare le pillole) quanto nell’indicazione a somministrare gli ACEI e i sartani alla sera ed i calcio-antagonisti al mattino, mentre eravamo abituati a fare il contrario (per minimizzare i disturbi collegati alla possibile cefalea da CCB ed altri effetti collaterali).

Hermida RC. J Am Soc Nephrol 2011; 22: 2313

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Statine e insorgenza di diabete in età post-menopasusale

Vi sono ormai varie segnalazioni che l’uso delle statine possa aumentare il rischio di diabete mellito (DM) e il dato sembra ancora più preoccupante per le donne in post-menopausa. Quest’ultima segnalazione viene da Culver, una farmacologa della Mayo Clinic, che ha pubblicato sugli Archives uno studio proveniente dai dati del Women’s Health Initiative (WHI) riguardanti 153.840 donne in periodo post-menopausale tra i 50 e 79 anni. L’informazione sull’uso delle statine è stata raccolta all’arruolamento e al terzo anno; al basale il 7.04% delle donne assumeva statine (30% simvastatina, 27% lovastatina, 22% pravastatina, 12.5% fluvastatina e 8% atorvastatina). Durante il periodo di osservazione si sono riscontrati 242 casi di diabete con un rischio del 71%, anche se dopo aggiustamento per variabili potenzialmente confondenti è sceso al 46% nelle donne con malattie cardiovascolari e al 48% in quelle senza. L’associazione è risultata essere un effetto di classe. Questi risultati confermano (anzi  aggravano) i dati precedenti pubblicati nel 2010 in una metanalisi di Sattar (Lancet 2010; 375: 735- 742), che però esplicitamente dichiarava che il rischio di diabete era controbilanciato dalla diminuzione del rischio di cardiopatia ischemica, e nel 2011 in una più recente metanalisi di Ray (JAMA 2011;305(24): 2556-2564) che peraltro si riferiva soprattutto ad alti dosaggi di statine. Il problema è scottante, perché le statine vengono usate con una frequenza crescente, inclusa la prevenzione primaria, che pure non ha evidenze significative. Sicuramente la polemica non è finita, comunque un dato sembra certo: nelle donne in post-menopausa, prima di assegnare una terapia con statine, bisogna valutare bene il rischio di diabete o quantomeno tenere le pazienti sotto stretto controllo.

Culver AL. Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus in Postmenopausal Women in the Women’s Health Initiative. Arch Intern Med 2012; 172: 144-152

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Nuovo alert per il dabigatran: utilizzo associato ad un aumento di IMA e SCA?

I clinici devono essere allertati nella gestione di pazienti in trattamento con il nuovo anticoagulante dabigatran. Dopo la consapevolezza che – per la mancanza di dati laboratoristici utili per predire un pericolo di sanguinamento e per l’assenza di un antidoto specifico per una eventuale comparsa di emorragia – vi è una potenziale pericolosità nell’utilizzo del farmaco nei pazienti con insufficienza renale, una nuova segnalazione di pericolo viene dalle conclusioni di un lavoro recentissimo pubblicato sulla edizione online del 9 gennaio degli Archives of Internal Medicine. Poiché nello studio originale RE-LY (Randomized Evaluation of Long-term Anticoagulant Therapy) veniva segnalato che – rispetto ai pazienti con fibrillazione atriale che assumevano il Warfarin – in quelli del gruppo dabigatran si evidenziava un seppur minimo aumento del rischio di IMA, Ken Uchino ricercatore del Cerebrovascular Center della Cleveland Clinic ha predisposto una meta analisi dei vari studi randomizzati e controllati pubblicati su PubMed, Scopus ed il Web of Science sull’utilizzo del dabigatran e che avevano come end point secondari dichiarati l’IMA o le Sindromi Coronariche Acute (SCA). Sono stati identificati 7 studi che avevano reclutato più di 30.000 pazienti. Dabigatran, se confrontato con warfarin, enoxaparina, o la somministrazione di placebo, è risultato essere significativamente associato con un più alto rischio di IMA o SCA, eventi che si sono verificati in 237 dei 20.000 pazienti trattati vs gli 83 dei 10.514 controlli (1.19% vs 0.79%; OR calcolato secondo Mantel-Haenszel di 1.33, 95% CI 1.03-1.71, p = 0.03). Risultato analogo a quello emerso nello studio RE-LY dove l’OR è risultato essere 1.27, (95% CI 1.00-1.61, p = 0.05) o a quello calcolato dopo che la casistica veniva compattata con l’esclusione degli studi di breve periodo (OR 1.33, 95% CI 1.03-1.72, p = 0.03). Queste le lapidarie conclusioni dell’autore ‘clinicians should consider the potential of these serious harmful cardiovascular effects with use of dabigatran’.

Uchino K, Hernandez AV. Dabigatran Association With Higher Risk of Acute Coronary Events Meta-analysis of Noninferiority Randomized Controlled Trials. Arch Intern Med. Published online January 9, 2012. doi:10.1001/archinternmed.2011.1666

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Mezzo di contrasto iodato e funzione tiroidea

Nonostante sia una nozione diffusamente conosciuta, non esistono studi ben condotti che documentino in modo certo l’eventuale interferenza di una somministrazione di mezzo di contrasto (mdc) iodato con la funzione tiroidea. Per tale motivo alcuni colleghi internisti della prestigiosa Harvard Medical School di Boston hanno condotto uno studio caso-controllo il cui rigoroso protocollo è riportato nella Figura 1 acclusa. Negli oltre 4.000 pazienti reclutati vi furono 178 casi di ipertiroidismo incidente e 213 casi di ipotiroidismo. Dopo le opportune e complesse valutazioni statistiche, gli AA riportano che l’esposizione al mdc iodato è accompagnata da un aumento tanto dell’ipertiroidismo incidente (OR 2.50, 95% CI 1.06-5.93, con NNH di 23), quanto dell’ipotiroidismo (OR 3.05, 95% CI .07-8.72, con NNH di 33). L’interesse di questo lavoro è duplice: da un lato la conferma rigorosa di una possibile negativa interferenza del mdc iodato con la funzione tiroidea, dall’altro che tale interferenza si esplica non solo con un aumentato rischio di ipertiroidismo (come la maggior parte dei medici pensa possa accadere), ma anche con la situazione opposta di ipotiroidismo.

Rhee CM et al. Association Between Iodinated Contrast Media Exposure and Incident Hyperthyroidism and Hypothyroidism. Arch Intern Med 2012; 172(2): 153-159 doi:10.1001/archinternmed.2011.677

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Iperaldosteronismo primario: ricordiamoci anche del paratormone

L’ormone paratiroideo (PTH) stimola la secrezione di aldosterone e la proliferazione cellulare nella corticale surrenale. Nei ratti l’iperaldosteronismo è associato ad iperparatiroidismo e ci sono quindi ragioni per ritenere che il PTH possa guidare l’eccesso di aldosterone anche nell’iperaldosteronismo primario dell’uomo. Per verificare quest’ipotesi, il gruppo italiano di Rossi ha arruolato 105 pazienti ipertesi, dei quali 44 avevano un iperaldosteronismo primario dovuto ad un adenoma (APA) e 61 un’ipertensione essenziale (IE). Gli AA hanno dosato il PTH, il 25-idrossicolecalciferolo e la sua forma attiva, il calcitriolo, il Ca2+(totale e ionizzato), il Fosforo inorganico, il Mg2+, il K+ e l’escrezione urinaria di Ca2+, Fosforo e deossipiridinolina. Nei pazienti con APA questi dosaggi sono stati effettuati dopo la surrenectomia o blocco dei recettori dei mineralcorticoidi. Il risultato è stato che, confrontati con i pazienti con IE, i soggetti con iperaldosteronismo (da APA) avevano più alti livelli plasmatici di PTH (+31%), nonostante una simile escrezione urinaria di calcio e simile deficit di vitamina D. Nei pazienti con APA la surrenectomia ha normalizzato in modo significativo i livelli di PTH (p=0.002) e ha aumentato il calcio ionizzato (p<0.001). La curva della relazione inversa PTH / Ca ionizzato era più ripida nell’APA rispetto all’IE, ma si normalizzava dopo surrenectomia. In pratica nell’iperaldosteronismo un’aumentata sensibilità delle paratiroidi al deficit di Ca++ porta ad un aumento del PTH. Questo lieve iperparatiroidismo, agendo sui recettori del PTH, nell’APA può contribuire a mantenere l’iperaldosteronismo nonostante la soppressione della formazione di angiotensina II.

Maniero C et al. J Hypertens 2012; 30(2): 390-395
doi: 10.1097/HJH.0b013e32834f0451

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Idrabiotaparinux nel trattamento post acuto dell’embolia polmonare

Si è da poco concluso – ed i risultati sono stati recentemente pubblicati su Lancet – un ponderoso trial clinico che ha messo a confronto l’abituale trattamento dell’embolia polmonare (enoxaparina seguita da warfarin) con uno schema terapeutico innovativo dove in sostituzione del warfarin viene utilizzato l’idrabiotaparinux, un pentasaccaride sintetico inibitore indiretto e reversibile del fattore X attivato, con una emivita superiore ai 60 giorni e quindi somministrabile a dose fissa una volta la settimana. Il trial multicentrico, intention-to-treat, ha ricercato la non inferiorità (margine di non inferiorità 2.0) dell’innovativo trattamento rispetto a quello convenzionale; dopo aver escluso i pazienti che erano in stato di gravidanza, che avevano sanguinamento attivo, affetti da insufficienza renale o ipertensione maligna o che erano ad alto rischio di morte, emorragia o reazioni avverse ai farmaci, sono stati reclutati oltre 3.000 pazienti randomizzati a ricevere enoxaparina 1.0 mg / kg due volte al giorno per 5-10 giorni dopo l’episodio di embolia polmonare, seguita da warfarin (INR target 2.0-3.0) o da idrabiotaparinux per iniezione sottocutanea (dose iniziale 3.0 mg /una volta settimana) da protrarsi per 3 o 6 mesi. L’esito primario di efficacia era la ricorrenza della tromboembolia venosa 99 giorni dopo la randomizzazione. L’esito di sicurezza principale è stato il sanguinamento clinicamente rilevante (maggiore o non-maggiore) in tutti i pazienti al giorno 99. Questi i risultati (sintetizzati nelle due Figure accluse)

  • un tromboembolismo venoso ricorrente si è verificato in 34 (2%) dei 1.599 pazienti randomizzati a ricevere enoxaparina-idrabiotaparinux e in 43 (3%) dei 1.603 pazienti randomizzati a ricevere enoxaparina-warfarin [OR 0.79, IC 95% 0.50-1.25, p (non -inferiorità) = 0.0001]
  • un sanguinamento clinicamente rilevante è stato rilevato in 72 (5%) dei 1.599 pazienti nel gruppo enoxaparina-idrabiotaparinux e in 106 (7%) dei 1.603 pazienti nel gruppo enoxaparina-warfarin [OR 0.67, IC 95% 0.49-0.91, p (superiorità) = 0.0098]
  • i risultati non si modificavano se il trattamento veniva prolungato per 3 o 6 mesi.

Ove confermati da altri lavori, questi dati e le relative conclusioni potrebbero far modificare i nostri comportamenti terapeutici.

Buller HR et al. Enoxaparin followed by once-weekly idrabiotaparinux versus enoxaparin plus warfarin for patients with acute symptomatic pulmonary embolism: a randomised, double-blind, double-dummy, non-inferiority trial. Lancet. 2011 Nov 28

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La fibrillazione atriale subclinica

19 Ott 2012 Cardiologia

Monitorando per 3 mesi poco più di 2.500 pazienti ipertesi e senza storia di fibrillazione atriale (FA), di età superiore ai 65 anni, ai quali era stato da poco impiantato un pacemaker (2.451) o un defibrillatore (129), gli AA di un recente lavoro hanno potuto constatare che in 261 di questi (10.1%) i dispositivi impiantati documentavano la comparsa di episodi di FA “subclinica” a fronte di soli 7 pazienti con FA clinicamente evidente. Al basale, nessun paziente era stato messo in terapia anticoagulante; più del 60% dei pazienti riceveva invece aspirina. La Tabella e la Fig. accluse evidenziano quanto verificatosi nel periodo di follow-up

  • un ictus o un embolia sistemica si è verificata in 11 (4.2%) dei 261 pazienti nei quali erano  stati rilevati degli episodi subclinici di tachiaritmia atriale con un tasso di incidenza annuo dell’1.69% rispetto ai 40 (1.7%) dei 2.319 pazienti nei quali l’aritmia subclinica non era stata rilevata (tasso annuo dello 0.69%, HR 2.49, 95% CI 1.28-4.85; p = 0.007)
  • il rischio era praticamente invariato dopo aggiustamento per i fattori di rischio per ictus (HR 2.50, 95% CI 1.28-4.89; p = 0.008) ed era simile in un’analisi in cui i dati dei pazienti sono stati rivalutati eliminando quelli relativi ai pazienti nei quali si era sviluppata una FA clinica (HR. 2.41, 95% CI 1.21-4.83; p = 0.01)
  • in nessuno degli 11 dei 51 pazienti che avevano sviluppato un ictus o una embolia sistemica e che avevano avuto l’oggettivazione di episodi di tachiaritmia atriale subclinica rilevata nei 3 mesi del follow-up, vi era stata una FA clinicamente evidente  
  • la presenza di FA subclinica è risultata correlata tanto con la possibilità di episodi di FA clinicamente evidente (HR 5.56, 95% IC 3.78-8.17, p <0.001), quanto con un aumentato rischio di Ictus cardioembolico o di embolia sistemica (HR 2.49, 95% CI 1.28-4.85, p = 0.007)
  • la percentuale di popolazione nella quale il rischio di ictus ischemico o di embolia sistemica è associata alla FA subclinica è risultata pari al 13% di quella selezionata per lo studio.

In sintesi, quindi il lavoro dimostra che nei pazienti con pacemaker o con defibrillatore, con storia clinica di ipertensione, ma non di precedenti episodi di FA, si possono frequentemente riscontrare episodi di tachiaritmia atriale subclinica che possono essere prodromici di una futura FA clinica, ma che soprattutto possono essere significativamente associati ad un aumentato rischio di ictus cardioembolico o di embolizzazione sistemica. Purtroppo l’interesse di questi dati rimane solo teorico in quanto gli stessi AA nelle conclusioni riferiscono circa la scarsa efficacia diagnostica del monitoraggio Holter che resta pur sempre limitato nel tempo e la impossibilità pratica di posizionare un loop recorder. 

Healey JS et al, for the ASSERT Investigators. Subclinical Atrial Fibrillation and the Risk of Stroke. N Engl J Med 2012; 366:120-129

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