Reflusso: ecografia non definitiva per la diagnosi

L’ecografia transcutanea cervicale dell’esofago ? informativa nei soggetti adulti in cui si sospetta una patologia da reflusso gastroesofageo, ma comunque essa non sostituisce il monitoraggio del pH di 24 ore e la manometria esofagea. L’ecografia pu? fungere da tecnica complementare nella stima del reflusso prossimale, del reflusso gastroesofageo e dei disordini della motilit? esofagea che possono causare problemi nel transito del bolo. Essa ? comunque una tecnica non invasiva, prontamente disponibile, ripetibile, economica, rapida ed altamente sensibile nella diagnosi del reflusso gastroesofageo in bambini e neonati. L’ecografia esofagea cervicale transcutanea risulta in ogni caso utile quale strumento pre-diagnostico per la stima del reflusso o di patologie manometriche nel 71,1 percento dei pazienti. (World J Gastroenterol 2007; 13: 5245-52)

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Parkinson: gotta diminuisce il rischio

25 Dic 2007 Neurologia

Vi ? un’associazione fra la gotta e la diminuzione del rischio di morbo di Parkinson, il che supporta la possibilit? di una correlazione fra morbo di Parkinson ed acido urico. Diversi studi precedenti hanno riportato una correlazione inversa fra acido urico nel siero e morbo di Parkinson, ma nessuno di questi aveva valutato la potenziale associazione fra la gotta, una condizione caratterizzata da iperuricemia, ed il rischio di morbo di Parkinson. L’acido urico ha dimostrato effetti benefici in modelli animali di patologie neurologiche, fra cui sclerosi multipla e danni della spina dorsale: la protezione osservata sembra mediata dall’inibizione della neurotossicit? da perossinitrito, meccanismo coinvolto anche nella patogenesi del morbo di Parkinson. Analogamente, ? stato dimostrato che l’acido urico riduce il danno ossidativo da radicali liberi nelle molecole di DNA. (Neurology 2007; 69: 1696-1700)

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Hodgkin: chemio e radioterapia per forme precoci

I pazienti con morbo di Hodgkin allo stadio precoce vanno incontro ad esiti migliori quando la chemioterapia ? seguita da radioterapia del campo interessato piuttosto che dalla radioterapia nodale subtotale, il che si applica a pazienti con caratteristiche favorevoli e non. La chemioterapia inoltre dovrebbe essere limitata a quattro cicli per minimizzare gli effetti collaterali del trattamento. Ultimamente il regime chemioterapico ? anche stato variato per evitare il rischio a lungo termine di sviluppo di altri tumori, e con l’avvento di una tecnica d’immagine metabolica sensibile come la PET-FDG per seguire la risposta al trattamento, ad alcuni pazienti ? possibile anche risparmiare chemioterapie o radioterapie prolungate. (N Engl J Med 2007; 357: 1916-27 e 1968-71)

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Hcv, trattamento possibile negli psichiatrici

La terapia interferonica nei pazienti con infezione da Hcv potrebbe causare sintomi psichiatrici e peggiorare quelli di pazienti con patologie psichiatriche gi? presenti, ma comunque, con l’assistenza appropriata, il trattamento pu? comunque avere successo. E’ noto che il trattamento con interferone causa depressione nel 20 percento dei pazienti senza una storia di disordini psichiatrici, ed uno studio precedente aveva rilevato che pi? dell’85 percento dei soggetti con infezione da Hcv ha anche una storia di disordini psichiatrici o abuso di sostanze. E’ comunque necessario usare attenzione nel selezionare i candidati alla terapia, dato che il trattamento inappropriato dei pazienti con depressione scarsamente controllata pu? essere pericoloso dato il rischio di riacutizzazioni dovute all’interferone. Il trattamento dovrebbe essere effettuato in stretta collaborazione con gli psichiatri, gli specialisti di abusi di sostanze ed altro personale di supporto idoneo. (Am J Gastroenterol 2007; 102: 2426-36)

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Nefropatie in fase precoce: prevalenza in aumento

22 Dic 2007 Nefrologia

La prevalenza delle nefropatie croniche ? aumentata in modo sostanziale dai primi anni ’90, ma la consapevolezza delle nefropatie da parte del pubblico non ha tenuto il passo. L’aumento della prevalenza delle nefropatie croniche pu? essere spiegata primariamente dall’aumento dei tassi di nefropatie in stadio precoce. L’incremento del numero di pazienti con insufficienza renale che richiedono emodialisi e trapianto ? stato ben documentato, e la recente calibratura dei test della creatinina ha introdotto una maggiore precisione nelle stime sulla popolazione per le malattie meno gravi. L’elevata prevalenza osservata suggerisce che le nefropatie croniche debbano svolgere un ruolo centrale nella pianificazione della sanit? pubblica futura. (JAMA 2007; 298: 2038-47)

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Ca testicolo, effetti collaterali terapia

Radioterapia e chemioterapia per tumori testicolari sono connesse a un aumento del rischio di seconde neoplasie maligne e di malattie cardiovascolari nei sopravvissuti.?
Nel presente studio ? stato osservato che il monitoraggio dei pazienti trattati con chemioterapia per questi tumori ? relativamente breve, con una media di 13 anni, ma gli effetti collaterali oncologici e cardiovascolari del trattamento potrebbero intervenire anche 25 anni dopo la diagnosi, e gli studi futuri dovrebbero tenerne conto.?
Uno studio internazionale sarebbe preferibile per assicurare un numero sufficiente di pazienti e la variabilit? del trattamento, e sarebbe utile se tale studio potesse esaminare anche altri tipi di effetto collaterale.?

(J Clin Oncol 2007; 25: 4370-8)

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PTH aumenta escrezione urinaria calcio

Il trattamento con PTH ricombinante ? associato a un aumento dell’escrezione urinaria del calcio, anche se tale cambiamento probabilmente non ? significativo.?
I livelli di calcio nel siero aumentano transitoriamente dopo la somministrazione di questo farmaco, ma gli effetti sulla sua escrezione con le urine erano finora ignoti.?
La prudenza consiglierebbe un attento monitoraggio dei livelli di calcio nelle urine per alcuni particolari pazienti, come quelli con un’anamnesi di urolitiasi, ma i risultati del presente studio suggeriscono che il monitoraggio del calcio nelle urine non ? necessario per tutti i pazienti che ricevono PTH ricombinante.?

(J Clin Endocrinol Metab 2007; 92: 3535-41)

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Prostata, nuovo test anticancro pi? affidabile

19 Dic 2007 Oncologia

Aldo Franco De Rose
Il nuovo marker in grado di svelare in anticipo il tumore della prostata si chiama EPCA-2. Quasi sicuramente, fra uno-due anni, mander? in pensione il discusso PSA. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Urology a firma dei ricercatori del Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora, dal titolo molto esplicativo: “EPCA-2: A Highly Specific Serum Marker for Prostate Cancer”.
Si tratta di una proteina strutturale del nucleo delle cellule tumorali della prostata, la Early Prostate Cancer Antigen-2 (EPCA-2), molto stabile e persistente in circolo. Ma EPCA2 non rappresenta una novit? scientifica per la sola diagnosi. Infatti secondo Robert Getzenberg, responsabile del gruppo di ricercatori, “il nuovo test, fra qualche anno, oltre ad essere utilizzato per riconoscere gli uomini con tumore della prostata e distinguerli da quelli che soffrono semplicemente di ingrossamenti della prostata, costituir? l’elemento principale per differenziare i pazienti che avranno bisogno di cure aggressive da quelli che necessiteranno invece di una vigile attesa”.
Insomma un importante aiuto in tema di terapia di tumore della prostata, il cui obiettivo potr? essere quello di riuscire ad adottare, in ogni singolo paziente, la miglior scelta terapeutica “su misura”, evitando comportamenti troppo standardizzati.
I ricercatori americani hanno esaminato 385 pazienti, nei quali il test EPCA-2 ha distinto i casi di semplice iperplasia prostatica benigna (IPB) e prostatite da quelli di tumore. Pi? precisamente il 77% dei pazienti con IPB e PSA elevato, e quindi con sospetto cancro prostatico, aveva invece livelli di EPCA-2 pi? bassi dei valori limite (30ng/ml). Tale aspetto ? stato considerato di enorme importanza e molto incoraggiante in quanto l’IPB ? spesso associata ad elevati livelli di PSA, ponendo problemi di diagnosi differenziale e costringendo i pazienti a ripetute biopsie. Al contrario, i valori di EPCA-2 sono stati trovati alti nel 90% dei soggetti con cancro confinato alla prostata e nel 98% con cancro avanzato (extracapsulare), individuando complessivamente il 94% di tumori. Inoltre, l’EPCA 2 ? risultato altamente sensibile e specifico in quanto ? riuscito ad identificare il 78% degli uomini con cancro prostatico anche nel gruppo di soggetti con PSA al di sotto di 2.5 ng/mL e quindi, apparentemente, senza malattia. Infine, un altro vantaggio sarebbe costituito dal fatto che il test consentirebbe di abbatterebbe drasticamente il numero di biopsie della prostata, oggi, sicuramente molto elevato.
Le biopsie prostatiche in Italia fino a qualche anno fa erano stimate attorno a 100.000 l’anno, per un costo di circa 20.000.000 milioni di euro solo per la procedura diagnostica. Ma oggi il numero ? sicuramente aumentato, vista la maggiore diffusione del dosaggio del PSA e i numerosi programmi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di diagnosi precoce delle malattie prostatiche.
La stragrande maggioranza delle biopsie viene fatta “at random”, cio? senza un bersaglio preciso, dato che spesso (nel 60-70% dei casi) ? solo il PSA a suggerire l’esecuzione della biopsia in assenza di altri segni clinici, ecografici e radiologici.
D’altra parte la biopsia prostatica ? un momento di grande dramma psicologico per la popolazione maschile: per alcuni arriver? la diagnosi di neoplasia per altri, nonostante la negativit?, ? probabile che la si debba ripetere (se il PSA si manterr? anomalo). La nuove diagnosi invece sarebbero 30.000 all’anno per una neoplasia che si colloca al secondo posto per incidenza fra quelle che colpiscono gli uomini nei paesi sviluppati, al primo posto dopo gli 80 anni.

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La pressione pulsatoria ? associata al rischio di fibrillazione atriale

Uno studio ha esaminato la relazione tra pressione pulsatoria e fibrillazione atriale.

Allo studio hanno preso parte 5.331 partecipanti del Framingham Heart Study, di 35 anni di et? o superiore ( et? media 57 anni; il 55% donne ), che al basale non soffrivano di fibrillazione atriale.

Durante un periodo di follow-up di 12 anni ( valore mediano ) la fibrillazione atriale si ? sviluppata nel 13.1% dei partecipanti ( n = 698 ).

L?incidenza di fibrillazione atriale a 20 anni ? stata del 5.6% per la pressione pulsatoria di 40mmHg o meno ( 25? percentile ) e del 23.3% per la pressione pulsatoria superiore a 61mmHg ( 75? percentile ).

Dopo aggiustamenti, la pressione pulsatoria ? risultata associata ad un aumento del rischio di fibrillazione atriale ( hazard ratio aggiustato, HR = 1.26 per 20mmHg di incremento; p < 0.001 ). Al contrario, la pressione arteriosa media non era correlata alla fibrillazione atriale ( HR aggiustato = 0.96 per 10mmHg di incremento; p = 0.39 ). La pressione sistolica era correlata alla fibrillazione atriale ( HR =1.14 per incrementi di 20mmHg; p = 0.006 ); l?aggiunta della pressione diastolica ha migliorato la capacit? predittiva del modello. Lo studio ha mostrato che la pressione pulsatoria ? un importante fattore di rischio per la fibrillazione atriale in un campione basato sulla comunit?.
Rimane da chiarire se gli interventi che riducono la pressione pulsatoria siano in grado di ridurre l?insorgenza della fibrillazione atriale.

Mitchell GF et al, JAMA 2007; 297: 709-715

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La cardioversione migliora la capacit? d?esercizio nei pazienti con fibrillazion

17 Dic 2007 Cardiologia

Esistono pochi dati riguardo agli effetti dei comuni interventi terapeutici sulla tolleranza all?esercizio nella fibrillazione atriale.

Ricercatori del Walter Reed Army Medical Center, negli Stati Uniti, hanno sottoposto a test da sforzo massimale 655 pazienti con fibrillazione atriale cronica, al basale e a 8 settimane, 6 mesi ed 1 anno dopo la randomizzazione a Sotalolo ( Sotalex ), Amiodarone ( Cordarone ) o placebo.

L?et?, l?obesit? e la presenza di sintomi che accompagnano la fibrillazione atriale, sono risultati inversamente associati alla capacit? d?esercizio al basale, ma questi fattori erano responsabili solamente del 10% della varianza nella capacit? d?esercizio.

I pazienti che avevano la maggiore probabilit? di beneficiare della cardioversione erano quelli pi? giovani d?et?, non obesi o ipertesi, e con una frequenza cardiaca non controllata al basale.

La cardioversione con successo ha migliorato la capacit? d?esercizio del 15% ad 8 settimane, e questi miglioramenti si sono mantenuti per tutto l?anno.
Questo miglioramento ? stato osservato sia tra i pazienti che hanno mantenuto il ritmo sinusale, che in quelli con fibrillazione atriale intermittente.

I dati dello studio hanno mostrato che la cardioversione ha prodotto un miglioramento sostenuto nella capacit? d?esercizio nel corso di 1 anno.
I pazienti che con maggiore probabilit? erano destinati a migliorare con il trattamento, tendevano ad essere pi? giovani e non obesi.

Atwood JE et al, Am Heart J 2007; 153: 566-572

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