Tumore vescicale invasivo, chemio più radio meglio che da sola

6 Ott 2012 Urologia

In uno studio inglese giunto alla fase 3, la chemioterapia con fluorouracile e mitomicina C, combinata con la radioterapia, ha migliorato in modo significativo il controllo locoregionale del tumore della vescica rispetto alla sola radioterapia. I ricercatori hanno condotto il trial, randomizzato e multicentrico, su 360 pazienti affetti da carcinoma della vescica con invasione muscolare, che hanno ricevuto la radioterapia con o senza chemioterapia a base di fluorouracile più mitomicina C. La sopravvivenza libera da malattia a livello locoregionale è stata scelta come endpoint primario, mentre i secondari sono stati la sopravvivenza complessiva e gli effetti avversi. Dopo due anni, la percentuale dei soggetti liberi da malattia locoregionale è stata del 67% nel gruppo che aveva ricevuto sia la chemioterapia che la radioterapia, mentre tra coloro che erano stati sottoposti soltanto a quest’ultima la percentuale è scesa al 54%. Anche i risultati relativi alla sopravvivenza complessiva sono stati favorevoli alla combinazione delle terapie e, a cinque anni, è stata valutata rispettivamente al 48% e al 35%. L’approccio chemioradioterapeutico ha comportato – rispetto alla sola radioterapia – una frequenza leggermente maggiore di effetti avversi di grado 3 o 4 nel corso del trattamento (36% vs 27,5%), ma molto minore durante il follow-up (8,3% vs 15,7%). I partecipanti sono anche stati suddivisi in modo randomizzato in due coorti sottoposte a trattamento radioterapico sull’intera vescica oppure su un’area limitata, dunque con un disegno sperimentale a due fattori, ma i risultati di questa ulteriore analisi non sono stati ancora resi noti.

N Engl J Med, 2012; 366:1477-88

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Gli esperti: ipotiroidismo, malattia misconosciuta

«Se c’è un organo che manca, ma che può essere sostituito bene questo è la tiroide» forse per questo secondo Aldo Pinchera, professore emerito di endocrinologia all’Università di Pisa, la percezione delle malattie della tiroide da parte della popolazione generale è piuttosto bassa, per quanto siano circa 2 milioni e mezzo gli italiani che ne soffrono. È questo il principale risultato di un’indagine Doxa, presentata la scorsa settimana a Milano, secondo la quale le malattie della tiroide sono note soltanto a un italiano su cinque, e se la maggior parte conosce o fa riferimento ai sintomi dell’ipertiroidismo, davvero pochi, il 7%, conoscono o considerano tra queste l’ipotiroidismo. «L’ipotiroidismo» secondo Alfredo Pontecorvi, professore ordinario di endocrinologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma «è una malattia prevalentemente al femminile, colpisce il 7-8% delle donne in pre-menopausa e arriva al 10-15% nel periodo post-menopausale, andando ad aggravare e a confondersi con alcuni disturbi tipici di questo periodo quali, irritabilità, aumento del peso, perdita della memoria, difficoltà di concentrazione, insonnia, dolori muscolari». Patologia per altro, con una terapia consolidata che si basa sull’assunzione di levotiroxina, disponibile in compresse o soluzione orale (da poco anche in flaconcini monodose) per facilitarne l’assunzione in caso di malassorbimento. Sarà, infatti, tutta al femminile la Settimana mondiale della tiroide, che si svolgerà dal 18 al 25 maggio con il titolo “La tiroide è donna – La tiroide e la gravidanza” con iniziative dedicate alle donne per informarle sull’importanza di eseguire le prove di funzionalità tiroidea con una semplice analisi del sangue nei soggetti a rischio, quando c’è familiarità, e in età neonatale o in gravidanza. «Trattare bene l’ipotiroidismo e in genere tutte le malattie della tiroide è cruciale in gravidanza» è la conclusione di Pinchera «Va anche sottolineata l’estrema importanza della prevenzione e, in particolare, la corretta nutrizione in termini di iodio, soprattutto, e non solo, nella donna gravida».

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Le calorie, piuttosto che la composizione della dieta, sono importanti per dimagrire

Seguire una dieta che abolisca i carboidrati o i grassi, in favore di un maggiore introito di proteine, non e’ piu’ efficace della semplice riduzione delle calorie giornaliere per perdere peso.

Questi i risultati di un trial clinico condotto negli Stati Uniti in cui alcune centinaia di obesi sono stati sottoposti a quattro differenti tipi di diete (tutte ipocaloriche ma diverse in base al contenuto in carboidrati, grassi e proteine) e controllati dopo sei mesi e due anni.

I fattori che maggiormente incidono sulla perdita di peso – spiegano i ricercatori – sono la riduzione delle calorie introdotte rispetto al fabbisogno individuale e la motivazione nel seguire la dieta.

 

Riferimento: American Journal of Clinical Nutrition, online January 18, 2012

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Psoriasi: monitorare dieta e attività fisica dei pazienti

Una dieta scorretta e probabilmente una scarsa attività fisica possono contribuire all’insorgenza di obesità e sindrome metabolica nei pazienti con psoriasi, causando un aumento di comorbilità e mortalità. È quindi molto importante che i medici, consapevoli di questa associazione, effettuino una forte opera di prevenzione nei pazienti a rischio incidendo sugli stili di vita modificabili. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Clinical and Experimental Dermatology.

Era già noto da tempo che la psoriasi è associata a un elevato rischio di sindrome metabolica e al conseguente aumento della morbilità cardiovascolare e della mortalità, ma la natura di questa associazione non è mai stata chiarita del tutto. I ricercatori guidati da Jennifer Ahdout del Department of Dermatology dell’University of California di Irvine hanno valutato una serie di fattori modificabili sottoponendo a 65 pazienti con psoriasi e a 52 soggetti sani per controllo una serie di questionari [Perceived Stress Scale (PSS), Godin Leisure-Time Exercise Questionnaire (GLTEQ), Rapid Eating Assessment for Patients (REAP), Psoriasis Area and Severity Index (PASI)]. È emerso che i pazienti affetti da psoriasi (IMC medio 27,72) presentavano una tendenza all’aumento dell’IMC più marcata rispetto ai soggetti sani (IMC medio 25,67) ma non una prevalenza autoriportata più elevata di diabete, patologie cardiovascolari, ipercolesterolemia, ipertensione o ictus rispetto al gruppo di controllo (rispettivamente P=0,25, P=0,46, P=0,96, P=0,26, P=0,16). Non è stata riscontrata nessuna differenza significativa tra i due gruppi per quanto riguarda lo stress e l’attività fisica (P=0,06 e P=0,26 rispettivamente) ma i soggetti con psoriasi hanno ottenuto uno score nutrizionale inferiore (media = 2,38, P<0,01). Tra i pazienti con psoriasi a placche arruolati nello studio stress, fumo di sigaretta e terapie sistemiche sono risultati fattori associati con un aumento dello score PASI (r=0,13 r=3,47 r=3,19 rispettivamente).

Spiega la Ahdout : “Il nostro studio suggerisce che gli stili di vita errati nell’ambito dell’alimentazione e dell’attività fisica siano fattori contribuenti all’insorgenza di obesità e sindrome metabolica nei pazienti con psoriasi. Se consideriamo che tra le persone affette da psoriasi l’obesità è più diffusa che nella popolazione sana (30% vs. 18%, dato in linea con la Utah Psoriasis Initiative) e che i pazienti fumatori e con IMC più elevato presentano forme di psoriasi in media nettamente più aggressive, risulta evidente che gli stili di vita modificabili hanno un ruolo importante nella storia della malattia e vanno tenuti sotto stretto controllo da parte dei clinici”.

▼ Ahdout J, Kotlerman J, Elashoff D et al. Modifiable lifestyle factors associated with metabolic syndrome in patients with psoriasis. Clinical and Experimental Dermatology 2012; 37(5):477–483 doi:10.1111/j.1365-2230.2012.04360.x

DERM-1047203-0000-UNV-W-07/2014 

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Flavonoidi: possibile ruolo protettivo dal Parkinson

L’assunzione abituale di quote elevate di alcuni flavonoidi può ridurre il rischio di malattia di Parkinson (Pd), soprattutto negli uomini, ma non può essere escluso l’effetto protettivo di altre sostanze presenti in alimenti di origine vegetale. È la conclusione di uno studio condotto da Xiang Gao dell’Harvard medical school di Boston (Usa) e colleghi su 49.281 uomini e 80.336 donne , in cui si è valutata l’assunzione dei flavonoidi totali e delle loro sottoclassi (flavononi, antocianine, flavan-3-oli, flavonoli, flavoni, e polimeri) usando un archivio sulla composizione degli alimenti e un questionario validato sulla frequenza dei pasti. Inoltre si sono esaminate le cinque principali sorgenti alimentari di tali sostanze: tè, frutti di bosco, mele, vino rosso, e arance o succo d’arancia. Sono stati identificati 805 partecipanti (438 uomini, 367 donne) che hanno sviluppato Pd nel corso di un follow-up di 20-22. Tra gli uomini, dopo aggiustamento per vari fattori confondenti, quelli posizionati nel quintile più elevato di intake di flavonoidi totali hanno avuto una riduzione del 40% del rischio di Pd rispetto ai partecipanti posti nel quintile più basso. Non si sono invece osservate correlazioni significative nelle donne o nelle analisi raggruppate. Nelle analisi raggruppate in base alle sottoclassi, però, le assunzioni di antocianine e una loro ricca sorgente alimentare, ossia i frutti di bosco, sono apparsi significativamente associati a un minore rischio di Pd.

Neurology, 2012; 78(15):1138-45

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Protesi d’anca: sì ceramica-ceramica, no metallo-metallo

7 Set 2012 Ortopedia

Le protesi articolari totali d’anca metallo-metallo determinano una scarsa sopravvivenza dell’impianto a confronto di altre opzioni e non dovrebbero essere utilizzate. Tutti i pazienti con accoppiamenti di questo tipo andrebbero attentamente monitorati, in particolare le giovani donne con innesto di teste femorali di grande diametro. L’accoppiamento ceramica-ceramica di ampio diametro sembra invece funzionare bene e pertanto se ne caldeggia l’uso continuato. È questo, secondo Alison J. Smith dell’università di Bristol (UK) e colleghi, l’esito dell’analisi di un’ampia casistica, tratta dal National joint registry dell’Inghilterra e del Galles, relativa a 402.501 interventi di artroplastica primaria d’anca avvenuti tra il 2003 e il 2011, di cui 31.171 con impianto metallo-metallo. In tale periodo l’operazione di sostituzione totale d’anca ha fatto registrare elevati tassi di fallimento. L’insuccesso è apparso correlato alla dimensione della testa femorale, tanto più precoce quanto maggiore era il diametro della testa stessa. I tassi di revisione a 5 anni nelle giovani donne si sono attestati a 6,1% nel caso di impianti metallo-metallo da 46 mm, da confrontare all’1,6% per le protesi metallo-polietilene da 28 mm. All’opposto, nel caso delle articolazioni ceramica-ceramica le dimensioni più elevate della testa sono risultate associate ad aumentata sopravvivenza dell’impianto, con un tasso di revisione a 5 anni del 3,3% con 28 mm e del 2% con 40 mm in uomini di 60 anni. 

Lancet, 2012; 379(9822):1199-204

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Responsabilità penale del titolare di studio verso collaboratore

Il fatto
Una odontoiatra è stata condannata con sentenza del tribunale di Milano, ufficio Gip, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di un anno, sei mesi e 20 giorni di reclusione per aver cagionato volontariamente a una paziente lesioni dell’apparato dentale dalle quali era derivata una malattia di durata superiore ai 40 giorni, nonché l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione. L’imputata, quale responsabile dello studio, e un dentista sedicente, in qualità di collaboratore, hanno sottoposto la cliente a complesse operazioni chirurgiche, inadeguate rispetto alla patologia sofferta, senza la prescritta abilitazione e senza le competenze tecniche richieste, nonché in difetto di valido consenso informato, tacendo inoltre la mancanza dei titoli e delle qualifiche necessarie al tipo di trattamento. A seguito di ricorso, il giudice di appello ha ritenuto non sussistente il reato di lesioni dolose, non essendo provata la volontà di cagionare la malattia e i postumi invalidanti, invece verificatisi. La corte d’appello ha ritenuto, anzi, che entrambi gli imputati, pur consapevoli dei potenziali effetti pregiudizievoli delle cure, avessero agito nella convinzione di evitarli e di risolvere i problemi sanitari. Contro la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore generale di Milano, sia la parte civile.

Il diritto e l’esito del giudizio
Il giudizio dinanzi alla Suprema Corte ruota non solo attorno alla individuazione e qualificazione dell’elemento soggettivo che sorregge l’operatore sanitario quando compie un intervento chirurgico in mancanza di valido consenso informato, provocando delle conseguenze dannose, ma anche al consenso prestato dal titolare dello studio a che un soggetto privo delle abilitazioni normative venisse a compiere attività sanitaria con esito infausto. La corte d’appello avrebbe liquidato una questione meritevole di un approfondimento molto maggiore, soprattutto non tenendo conto del fatto che al titolare dello studio dentistico non è stato contestato il dolo relativamente alla sua attività chirurgica, ma con riferimento all’attività abusiva svolta dal collaboratore: poiché questi non era un medico, era molto più elevato il rischio che si verificassero complicazioni e la dottoressa non poteva non rappresentarsi i potenziali e forse probabili effetti lesivi. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha rinviato ad altro giudice affinché procedesse a nuovo giudizio, tenendo in considerazione tutte le circostanze potenzialmente indizianti dell’esistenza di un dolo indiretto. In particolare, ha aggiunto la Cassazione, si dovrà tenere in considerazione la posizione professionale del collaboratore, la cui mancanza di abilitazione rende del tutto apodittica l’affermazione della sua convinzione di evitare conseguenze negative da un intervento così delicato e invasivo.

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Epatite alcolica, dopo trapianto esiti pari alla cirrosi

Dopo aver ricevuto un trapianto di fegato, nei pazienti con epatite alcolica la funzionalità del fegato trapiantato e la sopravvivenza sono simili a quelle dei soggetti con cirrosi alcolica. Il risultato è stato ottenuto da un gruppo di ricercatori americani – guidati da Ashwani K. Singal della university of Texas medical branch, a Galveston – che ne hanno dedotto: «il trapianto di fegato può dunque essere preso in considerazione per quelle persone affette da forme di epatite alcolica che non rispondono alle terapie farmacologiche». I dati relativi a pazienti sottoposti a trapianto di fegato per epatite alcolica sono molto limitati, ma gli autori dello studio si sono serviti delle informazioni registrate negli archivi dell’Unos (United network for organ sharing) dal 2004 al 2010. La sopravvivenza cinque anni dopo l’intervento si è attestata all’80% tra i soggetti con diagnosi di epatite alcolica, percentuale molto vicina a quella registrata tra i pazienti con cirrosi alcolica, il 78%. Anche la graft-survival è stata simile: rispettivamente del 75% e del 73%. Un’analisi statistica (regressione proporzionale di Cox) non ha mostrato alcuni impatto dell’eziologia (epatite alcolica versus cirrosi alcolica) né sulla sopravvivenza del paziente su quella del graft. Le cause della mortalità riscontrata nei due gruppi sono state simili e non collegate all’alcol.

Hepatology, 2012; 55(5):1398-405

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Sistemi di supporto decisionale, evidenze carenti sugli outcome

I sistemi di supporto alle decisioni in ambito clinico (clinical decision-support systems, Cdss) – sia quelli disponibili in commercio sia quelli sviluppati a livello locale – sono efficaci nel miglioramento dei parametri dei processi assistenziali in differenti setting e i loro benefici sono ormai evidenti al di fuori delle esperienze accademiche anche se, in realtà, le evidenze relative agli outcome clinici, economici e organizzativi sono ancora scarse. Sono le considerazioni conclusive di una revisione sistematica effettuata da Tiffani J. Bright, della Duke University School of Medicine di Durham (Usa), e colleghi, su 148 trial controllati randomizzati. Di questi, 128 (86%) avevano indagato le misure di processo assistenziale, 29 (20%) si erano focalizzati sugli outcome clinici, e 22 (15%) erano centrati sull’analisi dei costi. Nonostante gli studi esaminati fossero eterogenei per interventi, popolazioni, setting e outcome, è emerso come tutti i tipi di Cdss avessero determinato un miglioramento nelle misure correlate all’erogazione di servizi preventivi (n=25; odds ratio, Or: 1,42), alla richiesta di esami clinici (n=20; Or: 1,72) e alla prescrizione di terapie (n=46; Or: 1,57). «Ulteriori studi» scrivono gli autori «dovrebbero indagare come si possa espandere il contenuto dei Cdss allo scopo di gestire simultaneamente condizioni di comorbilità, e come questi sistemi possano essere integrati nel modo più efficace nel flusso di lavoro assistenziale e implementati nei diversi setting».

Ann Intern Med, 2012 Apr 23. [Epub ahead of print]

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Iperplasia prostatica benigna, promettenti inibitori Pde-5

7 Set 2012 Urologia

Gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo 5 (Pde5i) possono migliorare in modo significativo i sintomi del tratto urinario inferiore (Luts) e la disfunzione erettile (De) nei pazienti con iperplasia prostatica benigna (Ipb). I Pde5i sembrano essere un trattamento promettente per i Luts secondari a Ipb con o senza De. Sono queste le conclusioni di una revisione sistematica e metanalisi effettuata da Mauro Gacci del dipartimento di Urologia dell’università di Firenze, e collaboratori, sugli studi prospettici e trasversali disponibili relativi all’impiego dei Pde5i da soli o in associazione con alfa-1-bloccanti in pazienti con Luts da Ipb. Su 107 articoli recuperati, nella meta-analisi ne sono stati inclusi 12. Di questi 7 erano stati svolti con i Pde5i contro placebo, per un totale di 3.214 uomini, mentre 5 erano stati condotti su 216 soggetti confrontando l’associazione tra Pde5i e alfa-bloccanti agli alfa-bloccanti da soli. Il follow-up di tutti i trial è stato in media di 12 settimane. Combinando i risultati dei trial, l’uso dei Pde5i da soli rispetto al placebo è apparso associato – al termine dello studio – a un significativo miglioramento dell’International Index of Erectile  Function (Iief) score e dell’International Prostate Symptom Score (Ipss) score ma non del tasso di flusso urinario massimo (Qmax). Rispetto all’alfa-bloccante da solo, l’associazione di Pde5i e alfa-bloccanti a fine studio ha invece dimostrato di migliorare non solo i punteggi Iief e Ipss ma anche il Qmax.

Eur Urol, 2012; 61(5):994-1003

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