Nuove lineeguida sulla fibrillazione atriale: la terapia anticoagulante dovrebbe essere basata sul rischio di ictus

I fattori di rischio per l?ictus dovrebbero fornire indicazioni sull?impiego della terapia anticoagulante nei pazienti con fibrillazione atriale.

La fibrillazione atriale ? il pi? comune disturbo del ritmo cardiaco in grado di aumentare il rischio di ictus e di insufficienza cardiaca.

Le lineeguida pubblicate nel 2006, a differenza di quelle del 2001, sono focalizzate sulla prevenzione del rischio di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale.

Infatti, nel15-20% dei casi, l?ictus si presenta nelle persone affette da fibrillazione atriale.

Negli Stati Uniti ed in Europa, i ricoveri ospedalieri per fibrillazione atriale sono aumentati del 66% durante gli ultimi 20 anni.

Le nuove lineeguida raccomandano l?assunzione giornaliera di Acido Acetilsalicilico ( Aspirina ) ai dosaggi compresi tra 81 e 325mg, per la prevenzione dei coaguli ematici nei pazienti con fibrillazione atriale e nessun fattore di rischio per l?ictus.

L?Acido Acetilsalicilico, o il Warfarin ( Coumadin ), ? raccomandato per i pazienti con un fattore di rischio definito moderato, come et? superiore ai 75 anni, ipertensione, insufficienza cardiaca, alterata funzione sistolica ventricolare sinistra o diabete.

Il Warfarin ? raccomandato nelle persone con fattori di rischio elevati ( precedente ictus, attacco ischemico transitorio, embolia sistemica o valvole cardiache prostetiche ) o con pi? fattori di rischio.

Le lineeguida forniscono elementi di priorit? nella cura dei pazienti con fibrillazione atriale secondo i seguenti step:

1) controllo della frequenza cardiaca

2) prevenzione dei coaguli

3) correzione del disturbo del ritmo, se possibile

Il controllo della frequenza cardiaca generalmente implica il raggiungimento di una frequenza ventricolare di 60-80 battiti per minuto a riposo e tra 90 e 115 battiti per minuto durante esercizio moderato.

L?ablazione con catetere ? considerata un?alternativa alla terapia farmacologica nel trattamento dei pazienti con fibrillazione atriale con un piccolo o nessun allargamento atriale sinistro, ed in cui il trattamento farmacologico non ? stato in grado di controllare il disturbo del ritmo.

Il controllo della frequenza cardiaca pu? rappresentare una terapia ragionevole nei pazienti anziani con fibrillazione atriale persistente che soffrono anche di ipertensione o malattia cardiaca.

Per le persone di et? inferiore ai 70 anni, soprattutto quelle con fibrillazione atriale ricorrente e nessuna evidenza di sottostante malattia cardiaca, il controllo del ritmo pu? rappresentare l?approccio di scelta dapprima con i farmaci e qualora questi non dovessero funzionare con l?ablazione transcatetere.

Le Guidelines for the Management of Patients with Atrial Fibrillation sono state elaborate congiuntamente dall?American College of Cardiology ( ACC ), American Heart Association ( AHA ) e dall?European Society of Cardiology ( ESC )

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Carcinoma alla mammella: il passaggio ad un inibitore dell?aromatasi migliora la sopravvivenza

10 Ott 2007 Oncologia

La superiorit? degli inibitori dell?aromatasi di nuova generazione rispetto al Tamoxifene ( Nolvadex ) nel trattamento adiuvante del carcinoma mammario in fase precoce ? emersa da diversi studi clinici randomizzati.
Tuttavia, finora non tutti gli studi hanno mostrato benefici sulla mortalit?.

E? stata compiuta un?analisi pooled ( congiunta ) di due studi clinici prospettici, randomizzati.
In entrambi gli studi, le donne che erano state precedentemente trattate con Tamoxifene per 2 o 3 anni sono state assegnate in modo casuale a continuare ad assumere Tamoxifene oppure a passare per altri 2-3 anni ad Aminoglutetimide ( Orimeten ) o ad Anastrozolo ( Arimidex ).

Agli studi hanno preso parte 828 donne in postmenopausa, nella maggior parte dei casi con tumore ER-positivo e linfonodo-positivo.
Di queste, 415 hanno continuato ad assumere Tamoxifene e 413 sono passate ad Aminoglutetimide o ad Anastrozolo.

La mortalit? per tutte le cause ( hazard ratio, HR = 0.61; p = 0.007 ) e la mortalit? specifica per il tumore alla mammella ( HR = 0.61; p = 0.025 ) si sono ridotte in modo significativo passando ad un inibitore dell?aromatasi.

Nessun aumento della mortalit? non correlata al carcinoma mammario ? stato registrato nelle donne che sono passate ad assumere un inibitore dell?aromatasi.

L?analisi multivariata ha mostrato che l?et? delle pazienti, la dimensione del tumore, il trattamento allocato, lo stato linfonodale sono rimasti predittori indipendenti di mortalit?.

Gli Autori hanno concluso affermando che il passaggio ad un inibitore dell?aromatasi dopo 2 o 3 anni di trattamento con Tamoxifene ha migliorato in modo significativo la sopravvivenza rispetto alla continuazione per altri 2-3 anni della terapia con Tamoxifene.

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Basso rischio di diabete con gli ACE-inibitori ed i sartani

Gli ACE-inibitori ed i sartani ( noti anche come bloccanti il recettore dell?angiotensina ) sono i farmaci ipertensivi associati al pi? basso rischio di sviluppare diabete.

La propensione di alcuni farmaci che abbassano la pressione sanguigna a ridurre la tolleranza al glucosio e a precipitare il diabete ? ben nota.
Tuttavia, alcuni studi clinici di lungo termine che hanno confrontato farmaci antipertensivi hanno mostrato significative differenze nella percentuale di nuovi casi di diabete tra i gruppi di trattamento.

E? stata compiuta una meta-analisi per valutare gli odds ( rischi ) relativi di sviluppare diabete nel corso del trattamento di lungo periodo per ciascuna classe di farmaco antipertensivo.

L?analisi ? stata compiuta sui risultati di 22 studi clinici che hanno riguardato 143.153 partecipanti che non erano affetti da diabete al momento della randomizzazione.

E? stato osservato che l?associazione dei farmaci antipertensivi con il diabete era pi? bassa per gli ACE-inibitori e per i sartani, seguiti dai calcio-antagonisti, dal placebo ed, infine, dai beta-bloccanti e dai diuretici.

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Malattia di Parkinson ad insorgenza precoce, miglioramento della funzione motoria con Safinamide

10 Ott 2007 Neurologia

La Safinamide ? una molecola con diversi meccanismi d’azione, che trova indicazione nel trattamento della malattia di Parkinson.

La Safinamide blocca il canale del sodio, modula il canale del calcio ed il rilascio del glutammato.

E’ un potente inibitore selettivo, reversibile, della monoamino-ossidasi di tipo B ( MAOBi ).
E’ privo di effetto sulla monoamino-ossidasi di tipo A e sull’inibizione del riassorbimento della dopamina.

Uno studio clinico ha dimostrato che un dosaggio medio di Safinamide di 70 mg/die ( range: 40-90 mg/die ) ? in grado di aumentare la percentuale dei pazienti parkinsoniani con miglioramento della funzione motoria del 30% o pi? nell’arco di 3 mesi.

In un sottogruppo di 101 pazienti in trattamento con un singolo agonista della dopamina, l’aggiunta della Safinamide ha migliorato la risposta ( 47,1% di responder, riduzione media del punteggio della funzione motoria di 4,7 punti ).

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L?Ibuprofene sembra ritardare o prevenire la malattia di Parkinson

10 Ott 2007 Neurologia

Uno studio, coordinato da Alberto Ascherio dell?Harvard School of Public Health, ha valutato se l?impiego di farmaci antinfiammatori non steroidei ( FANS ) fosse associato ad un pi? basso rischio di malattia di Parkinson in un?ampia coorte di uomini e donne negli Stati Uniti.

Lo studio ha interessato 146.948 persone arruolate nel Cancer Prevention Study II Nutritional Cohort.

I Ricercatori hanno osservato che i soggetti che avevano fatto uso regolare di Ibuprofene ( Brufen ) presentavano un rischio ridotto del 35% di sviluppare la malattia di Parkinson rispetto ai non utilizzatori.

Rispetto ai non utilizzatori, il rischio relativo ( RR ) era 0.73 per coloro che assumevano meno di 2 compresse a settimana di Ibuprofene, 0.72 per 2-6.9 compresse a settimana e 0.62 per 1 o pi? compresse al giorno ( p per trend = 0.03 ).

Nessuna associazione ? stata trovata tra l?assunzione di Aspirina, altri farmaci antinfiammatori non steroidei o Acetaminofene ( Paracetamolo ) ed il rischio di malattia di Parkinson.

I risultati indicano che l?Ibuprofene pu? ritardare o prevenire l?insorgenza di malattia di Parkinson.

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Incoraggianti risultati per la Creatina e la Minociclina nella malattia di Parkinson in fase precoce

10 Ott 2007 Neurologia

Uno studio compiuto dai NINDS NET-PD Investigators ha valutato se la Creatina e l?antibiotico Minociclina fossero in grado di alterare il decorso della malattia di Parkinson in fase precoce.

Ai partecipanti era stata diagnosticata la malattia di Parkinson da meno di 5 anni e non necessitavano di trattamenti per i sintomi.

L?end point primario era rappresentato da cambiamenti alla scala UPDRS ( Unified Parkinson?s Disease Rating Scale ) dal basale al momento in cui ? stata riscontrata sufficiente disabilit? da instaurare una terapia sintomatica per la malattia di Parkinson, oppure a 12 mesi.

Un totale di 200 pazienti sono stati assegnati in modo casuale, in rapporto 1:1:1, a ricevere Creatina 10g/die, Minociclina 200mg/die o placebo.

La soglia di futilit? ? stata definita come riduzione del 30% nella progressione alla scala UPDRS rispetto al braccio placebo/Tocoferolo nello studio DATATOP ( Deprenyl And Tocopherol Antioxidative Therapy of Parkinsonism ).

Un valore di p inferiore o uguale a 0.1 era indice di futilit?.

E? stato osservato che n? la Creatina n? la Minociclina possono essere considerati come terapia futile sulla base della soglia di futilit? DATATOP.

La tollerabilit? ? stata del 91% nel gruppo Creatina e del 77% nel gruppo Minociclina.

I pi? comuni effetti indesiderati sono stati: sintomi respiratori ( 26% ), dolore articolare ( 19% ), nausea ( 17% ).

Secondo gli Autori, sia la Creatina che la Minociclina dovrebbero essere valutati in studi clinici di fase III per determinare se sono in grado di modificare la progressione nel lungo periodo della malattia di Parkinson.

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Fattori associati allo sviluppo di fluttuazioni motorie e discinesia nella malattia di Parkinson

10 Ott 2007 Neurologia

Le fluttuazioni motorie e la discinesia possono causare disabilit? e ridurre la qualit? della vita nei pazienti con malattia di Parkinson.

Ricercatori del Parkinson Study Group hanno valutato i fattori associati allo sviluppo di fluttuazioni motorie e discinesia.
Inoltre, hanno esaminato la sequenza di presentazione nei singoli pazienti.

E? stata eseguita un?analisi retrospettiva dei dati di uno studio clinico che ha confrontato il Pramipexolo ( Mirapexin ) e la Levodopa come trattamento iniziale della malattia di Parkinson.

I pazienti sono stati seguiti per 48-58 mesi e valutati ad intervalli di 3 mesi per la presenza di fluttuazioni motorie e discinesia.

Il 62.8% dei pazienti ha sviluppato complicanze motorie. Di questi, il 37.6% ha sviluppato fluttuazioni motorie ma non discinesia, il 12,2% discinesia ma non fluttuazioni motorie, il 25.4% fluttuazioni prima della discinesia, il 17.5% discinesia prima della fluttuazione ed il 7.4% ha sviluppato entrambi nel medesimo tempo.

I fattori associati al precoce presentarsi della discinesia sono risultati essere stadio 2 o pi? alla scala Hoehn-Yahr, dosaggio cumulativo di Levodopa, dosaggio equivalente di Levodopa ( Levodopa + Pramipexolo ), e presentazione di fluttuazioni motorie.

Il trattamento con Pramipexolo era associato al presentarsi in tempi successivi di discinesia.

Fattori associati alla precoce presentazione di fluttuazioni motorie sono stati: dosaggio cumulativo di Levodopa, dosaggio cumulativo equivalente di Levodopa, e presentazione di discinesia.

I fattori associati al tardivo presentarsi delle fluttuazioni motorie sono stati: l?et? d?insorgenza di 65 anni o pi?, ed il trattamento con Pramipexolo.

I dati dello studio hanno evidenziato che i pi? alti dosaggi equivalenti cumulativi di Levodopa ( Levodopa + Pramipexolo ) erano associati al precoce presentarsi delle complicanze motorie.
La fluttuazione motoria e la discinesia sembrano essere intercorrelate, poich? la presenza dell?una ? associata al precoce sviluppo dell?altra.

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Manifestazioni cardiovascolari dell?ipertiroidismo prima e dopo terapia antitiroidea

Uno studio, compiuto da medici dell?University of Birmingham, in Gran Bretagna, ha esaminato in modo prospettico la prevalenza di malattie cardiovascolari nei pazienti con ipertiroidismo manifesto prima e dopo terapia antitiroidea.

L?ipertiroidismo manifesto ? associato ad effetti cardiovascolari che, si ritiene, possano revertire con terapia antitiroidea.

Lo studio ha riguardato 393 pazienti non selezionati, consecutivi, in maggioranza donne ( 312 donne e 181 uomini ), con ipertiroidismo manifesto.
Questi pazienti sono stati confrontati con 393 soggetti eutiroidei ( controllo ).

I pazienti ipertiroidei sono stati riesaminati dopo terapia antitiroidea.

Una pi? alta prevalenza di sintomi e segni cardiovascolari, cos? come anomali parametri emodinamici, ? stata osservata tra i pazienti ipertiroidei al momento del reclutamento rispetto ai soggetti del gruppo controllo.

Le aritmie cardiache, soprattutto sopraventricolari, avevano una prevalenza maggiore tra i pazienti che non tra i controlli.
Le palpitazioni e la dispnea, la riduzione posturale della pressione sistolica e la fibrillazione striale sono rimaste maggiormente prevalenti tra i pazienti ipertiroidei sottoposti a terapia antitiroidea che non nel gruppo di controllo, e sono rimaste maggiormente prevalenti anche dopo il ripristino dell?eutiroidismo.

Predittori della reversione a ritmo sinusale nei pazienti con fibrillazione striale sono stati: pi? bassi valori di pressione sanguigna al momento del reclutamento ed un iniziale stato ipotiroideo indotto dalla terapia antitiroidea.

La mortalit? ? risultata pi? alta nei soggetti ipertiroidei che in quelli del gruppo controllo dopo un periodo osservazionale medio di 66.6 mesi.

I dati dello studio hanno dimostrato che le anomalie cardiovascolari sono comuni nei pazienti con ipertiroidismo manifesto alla presentazione, ed alcune di queste alterazioni persistono anche dopo il successo della terapia antitiroidea.

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Il Diabete mellito tipo 2 oggi

Il diabete mellito tipo 2 (DMT2) rappresenta oggi uno dei maggiori problemi di sanit? pubblica con notevoli implicazioni oltre che sanitarie, anche sociali ed economiche. Si tratta di una vera e propria pandemia: secondo l?OMS, nel 2003, la sua prevalenza mondiale, tra individui con et? compresa tra i 20 ed i 79 anni era pari al 5,1%1 interessando una popolazione stimata di circa 333 milioni di persone.
Stime di crescita nei prossimi anni informano che la prevalenza della malattia si porter? intorno al 6,3% nel 20252; tale incremento sar? soprattutto a carico di quelle regioni del mondo meno progredite economicamente e socialmente, in cui il processo di sviluppo economico e la globalizzazione sta comportando, insieme ad una migliore qualit? della vita, anche la diffusione di abitudini tipiche del mondo occidentale.
Il ?trend? temporale della prevalenza ? certamente secondario all?allungamento della vita media della popolazione generale, particolarmente nelle aree industrializzate ed all?aumentata prevalenza dei fattori di rischio della malattia (primi tra tutti sedentariet? ed obesit?) nei paesi in via di sviluppo3.
Certamente anche i nuovi criteri diagnostici (sempre pi? restrittivi) per il diabete ed i programmi di ?screening? a livello mondiale hanno contribuito all?aumentato numero dei soggetti con diabete. Il DMT2 riconosce fattori di rischio genetici e ambientali.
L?importanza dei fattori genetici ? confermata da numerosi studi4-5 ed ? avvalorata da alcune forti evidenze epidemiologiche, come la concordanza della malattia in gemelli omozigoti (quasi del 90%), ed il dato che il 55% circa dei pazienti affetti riferisce una anamnesi familiare positiva per diabete. Non lo studio di uno o pochi geni alterati ma L?identificazione di alcune varianti alleliche (polimorfismi) di tanti geni candidati (ereditariet? poligenica) rende molto complesso questo scenario. I fattori di rischio non genetici (ambientali) sono, invece, principalmente rappresentati dall?obesit? legata a sua volta ad una dieta inappropriata ed alla sedentariet?.
Fattori genetici e ambientali concorrono insieme a determinare i difetti patogenetici causa del DMT2, cio? una ridotta sensibilit? all?insulina a livello periferico da una parte e l?alterata secrezione d?insulina da parte delle ?-cellule dall?altra.
Altri fattori di rischio importanti sono sicuramente i cosiddetti ?stati prediabetici?, cio? la condizione di ?alterata glicemia a digiuno? (IFG) e di ?ridotta tolleranza al glucosio? (IGT) da considerare solo tappe iniziali nella storia evolutiva della malattia diabetica. come anche una precedente diagnosi di diabete gravidico.
Oggi le campagne di ?screening? si rivolgono con forza a soggetti con fattori di rischio genetico e/o ambientale, soprattutto se ad elevato rischio cardiovascolare (coesistenza di altri fattori di rischio cardiovascolare associati).
Nell?identificazione di tali soggetti si utilizzano i criteri diagnostici della ?Sindrome Metabolica? che sembra riunificare il mondo cardiovascolare con quello glicometabolico6.
E? ormai accettato unanimemente che l?adeguato trattamento del diabete riduce il rischio di complicanze della malattia a lungo termine.
L?UKPDS7 ed il DCCT8 hanno inequivocabilmente documentato l?associazione del diabete scarsamente controllato con le complicanze microangiopatiche della malattia che riguardano in prima istanza la retina (retinopatia diabetica), il rene (nefropatia diabetica) ed il nervo motorio e sensitivo (neuropatia diabetica).
La retinopatia diabetica rappresenta, nei paesi pi? evoluti economicamente, la principale causa di cecit? nella fascia di et? compresa tra 20 e 70 anni; la nefropatia diabetica ?, invece, la principale causa d?insufficienza renale terminale (ESRF). D?altra parte lo stretto legame tra diabete e malattie cardiovascolari ? oggi ben documentato da numerosi studi epidemiologici e da una recente metanalisi.

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Tumore a cellule renali, metastatico: Sunitinib pi? efficace dell?Interferone al

29 Set 2007 Oncologia

In due studi non controllati, Sunitinib ( Sutent ) ha mostrato di essere attivo nei pazienti con carcinoma a cellule renali, metastatico.

Uno studio, coordinato da Ricercatori del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York ha confrontato Sunitinib con Interferone alfa.

Lo studio ha riguardato 750 pazienti con tumore a cellule renali, precedentemente non trattati. che sono stati assegnati in modo casuale a ripetuti cicli di 6 settimane di Sunitinib ( ad un dosaggio di 50 mg per os una volta die, per 4 settimane, seguite da 2 settimane senza trattamento ), oppure a ricevere Interferone alfa ( ad un dosaggio di 9 MU per via sottocutanea 3 volte a settimana ).

L?end point primario era rappresentato dalla sopravvivenza libera da progressione della malattia, mentre gli end point secondari comprendevano la percentuale di risposta obiettiva, la sopravvivenza generale, gli outcome ( risultati ) riportati dal paziente e la sicurezza.

La sopravvivenza mediana libera da progressione ? risultata significativamente pi? lunga nel gruppo Sunitinib ( 11 mesi ) piuttosto che nel gruppo Interferone alfa ( 5 mesi ) ( hazard ratio, HR = 042; p < 0.001 ). Sunitinib era anche associato ad una pi? alta percentuale di risposta obiettiva rispetto all?Interferone alfa ( 31% versus 6%; p < 0.001 ). La proporzione dei pazienti con fatica, correlata al trattamento di grado 3 o 4 ? risultata significativamente maggiore nel gruppo trattato con Interferone alfa, mentre la diarrea era pi? frequente nel gruppo Sunitinib ( p < 0.05 ). I pazienti nel gruppo Sunitinib hanno presentato una qualit? di vita significativamente migliore rispetto ai pazienti nel gruppo Interferone alfa ( p < 0.001 ). Lo studio ha dimostrato che la sopravvivenza libera da progressione era maggiore e la percentuale di risposta era pi? alta nei pazienti con carcinoma a cellule renali metastatico trattati con Sunitinib rispetto a quelli che hanno ricevuto Interferone alfa.

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