Distendetevi all?indietro leggendo questo articolo; la vostra schiena vi ringrazier

Un nuovo studio condotto da Waseem Amir Bashir, del dipartimento di radiologia ed imaging diagnostica all? University of Alberta Hospital, Canada suggerisce che rimanere in posizione eretta per ore ? lavorando per esempio al computer ? pu? portare a mal di schiena cronico, mentre invece la migliore posizione per la schiena ? sedere con un angolo di 135-gradi piuttosto? che 90 come sono concepite la maggior parte delle sedie da ufficio.
Lo studio ? stato presentato all?annual meeting della Radiological Society of North America in Chicago.
Utilizzando?l?imaging di risonanza magnetica posizionale (MRI) i ricercatori hanno studiato il modo di sedersi di 22 volontari sani senza precedenti di mal di schiena.
L?apparecchio di MRI utilizzato consentiva di muoversi, sedersi e alzarsi durante la prova, mentre le apparecchiature convenzionali MRI costringono il paziente a mantenere una posizione? sdraiata che pu? mascherare certe cause di mal di schiena.??
I?ricercatori esaminavano le posizioni della spina dorsale mentre i partecipanti assumevano tre differenti posizioni sedute: sporgendosi in avanti, stando dritti con un angolo di 90 gradi ed una posizione di relax con la schiena piegata all?indietro di 135 gradi mantenendo i piedi sul pavimento.
Quest?ultima posizione risulta la meno stressante per la schiena e pu? ridurre l?incidenza di mal di schiena, ed ? la posizione da raccomandare a chi passa molto tempo seduto utilizzando una sedia che consente di piegarsi all?indietro

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Trattamento chirurgico e non della sciatica

I?pazienti trattati chirurgicamente per disco lombare erniato avevano risoluzione pi? completa del dolore alle gambe e maggiore funzionalit? e soddisfazione rispetto a quelli non trattati chirurgicamente nei 10 anni.

L?obiettivo del trial era di? valutare degli esiti, su un periodo di 10 anni, in pazienti con sciatica dovuta ad ernia al disco lombare trattata chirurgicamente o meno.

Si sa poco sul confronto tra esiti di terapia conservativa e chirurgica rispetto all?ernia al disco lombare in pratica clinica

I pazienti arruolati da chirurghi ortopedici, neurochirurghi ed esperti di medicina occupazionale in tutto il Maine hanno fornito i loro dati tramite questionari di follow up che venivano spediti con cadenza regolare per un periodo di dieci anni.

Si partiva da un database di parametri clinici iniziali forniti al medico: le analisi primarie si basavano sul trattamento iniziale ricevuto, chirurgico o meno; le analisi secondarie prendevano in esame gli effettivi trattamenti praticati nell?arco di dieci anni.

Gli esiti includevano sintomi riportati dal paziente di dolori alle gambe o alla schiena, stato funzionale, soddisfazione, attivit? e stadio di compensazione della disabilit?.

Risultati: tra i 507 pazienti arruolati inizialmente, 400 su 477 (84%) pazienti sopravvissuti hanno riportato esiti sul periodo 10 anni: 217 su? 255 (85%) trattati chirurgicamente, e 183 su 222 (82%) non trattati chirurgicamente.
I pazienti trattati chirurgicamente avevano peggiori sintomi iniziali e peggior stato funzionale rispetto a quelli inizialmente non trattati chirurgicamente.
Nei 10 anni, il 25% dei pazienti trattati chirurgicamente sono stati sottoposti almeno ad un altro intervento alla regione lombare, ed anche il 25% dei pazienti non trattati hanno subito un?operazione.

Al follow-up decennale, 69% dei pazienti inizialmente trattati chirurgicamente hanno riscontrato miglioramento nel sintomo prevalente (dolore di schiena o alla gamba) vs il 61% dei pazienti inizialmente non trattati chirurgicamente (P = 0.2).

Una pi? elevata percentuale di pazienti chirurgici hanno riportato un netto miglioramento del dolore alla schiena o alla gamba o addirittura la scomparsa (56% vs. 40%, P = 0.006) e della soddisfazione della loro forma (71% vs. 56%, P = 0.002).

La variazione alla ?modified Roland back-specific functional status scale? era favorevole al trattamento chirurgico, ed il beneficio relativo persisteva nel periodo di follow-up.

Nonostante queste differenze, lavoro e stato di disabilit? a 10 anni erano comparabili tra i trattati chirurgicamente o no .

In conclusione i pazienti trattati chirurgicamente per disco lombare erniato avevano risoluzione pi? completa del dolore alle gambe e maggiore funzionalit? e soddisfazione rispetto a quelli non trattati chirurgicamente nei 10 anni.
Ci? nonostante, il miglioramento del sintomo predominante ed i risultati sull?attivit? lavorativa e sulla disabilit? erano similari indipendentemente dal trattamento ricevuto.

Nei pazienti in cui la discettomia elettiva?? un?opzione di trattamento, un piano individuale di trattamento richiede che i pazienti ed i loro medici integrino i dati clinici con le preferenze dei pazienti? in base ai sintomi ed agli obiettivi.

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Vive di piu’ chi ha tanti nei, segno di dna piu’ giovane

Dimmi quanti nei hai, e ti dir? quanto a lungo vivrai. Potrebbe essere storpiato cos? il celebre adagio, in base ai risultati di una ricerca del King’s College di Londra. “I nei – spiegano su Cancer Epidemiology Biomarkers and Prevention gli oncologi britannici – sono la cartina di tornasole di come il nostro organismo si difende dagli attacchi dell’invecchiamento”. Nello specifico “il numero di nei sulla pelle – rivelano – ? legato alla lunghezza dei telomeri, cio? la ‘coda’ dei cromosomi che si accorcia ogni volta che avviene una replicazione cellulare. E meno lunghi sono i telomeri meno ‘cartucce’ ci restano”. Dunque “pi? nei significa telomeri pi? lunghi. E maggiori aspettative di vita”. Le conclusioni della ricerca, tra l’altro, annacquano la cattiva nomea dei nei, che sono guardati con diffidenza come possibili precursori dei tumori della pelle. Tra cui il big-killer melanoma. Per verificare il legame tra il numero delle macchie scure sulla pelle e la longevit?, gli scienziati hanno ‘contato’ i nei di 1.800 gemelli a cui ? stato scansionato anche il Dna per osservare i segni dell’invecchiamento. Cos? facendo i ricercatori hanno scoperto che “chi ha oltre 100 nei, ha telomeri pi? lunghi di chi ne ha meno di 25. Con uno scarto in termini di et? pari a circa 6-7 anni”. In media, ricordano gli oncologi del Regno Unito, le persone di pelle bianca hanno circa 30 nei, ma il numero in alcuni casi pu? arrivare anche a 400. Con una variabilit? che resta “uno dei misteri ancora da risolvere nella medicina”. Visto l’interesse dello studio, i ricercatori annunciano di voler continuare a studiare i legami tra nei, telomeri e longevit?.

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Un test clinico relativamente semplice e’ utile per individuare precocemente la gravita’ della pancreatite acuta

La pancreatite acuta ? una condizione clinica potenzialmente molto seria e gravata da una mortalit? non trascurabile, specialmente se – nei casi pi? gravi – non viene trattata tempestivamente in maniera aggressiva, per esempio tramite il ricovero in un’Unit? di terapia intensiva.

La gravit? del processo patologico ? strettamente correlata alla capacit? degli enzimi liberati dal tessuto ghiandolare infiammato di “autodigerire ” il parenchima del pancreas e distruggere progressivamente l’organo. Questo processo coinvolge una cascata di mediatori infiammatori i quali – in determinate circostanze – sono in grado di innescare una risposta infiammatoria sistemica (SIRS) direttamente responsabile della gravit? dell’esito prognostico.
Le interleuchine giocano sotto questo profilo un ruolo di primo piano e la loro produzione appare in linea di massima correlata all’entit? della SIRS: il loro dosaggio potrebbe dunque rappresentare un buon marker predittivo della severit? della pancreatite senza dover ricorrere in una serie di punteggi di tipo semi-quantitativo (fra cui lo score di Ranson e l’APACHE II) la cui utilit? – nella pratica clinica – ? stata ripetutamente messa in discussione.

I livelli di due citochine proinfiammatorie, il Tumor necrosis factor (TNF)-alfa e l’ interleuchina (IL)-6, e quelli di una citochina antinfiammatoria, l’Interleuchina (IL)-10, sono stati recentemente valutati da ricercatori dell’Universit? di Nuova Delhi, su un campione di 30 pazienti giunti all’osservazione medica entro 72 ore dall’esordio clinico della malattia. Poco pi? della met? del campione presentava una pancreatite di grado severo e quasi un terzo dei pazienti andava incontro successivamente ad un’insufficienza organica con tre casi di decesso. Delle citochine misurate nel plasma solo l’interleuchina 6 risultava correlata in maniera significativa con la gravit? del malattia e, in particolare, appariva un buon indice prognostico di insufficienza organica, con un cut-off pari a 122 pg/ml, caratterizzato da una sensibilit? e specificit? pari circa all’80%.

In contrasto con precedenti segnalazioni, i livelli di TNF-alfa – che pure riveste un ruolo molto importante nel processo infiammatorio – sono risultati elevati in poco pi? di un terzo dei pazienti, probabilmente a causa della breve emivita plasmatica di questa citochina che va incontro ad una rapida clearance nel fegato e pertanto risulta scarsamente dosabile in circolo, mentre i suoi livelli risultano assai pi? consistenti nei tessuti, dove per? sono difficilmente dosabili.
Livelli aumentati di IL-10 sono infine stati rilevati nel 40% dei pazienti esaminati, ma sono risultati scarsamente predittivi della gravit? della malattia.
Bench? il numero relativamente esiguo dei pazienti inclusi nello studio imponga una certa cautela nelle conclusioni, sembrerebbe che il dosaggio plasmatico di IL-6 possa costituire un test sufficientemente attendibile – ed anche relativamente semplice da eseguire – per individuare precocemente (gi? in terza giornata) la gravit? clinica di una pancreatite acuta ed orientare tempestivamente le scelte del medico. In questo senso, l’IL-6 sembra molto pi? utile di altri dosaggi di laboratorio, fra cui la proteina C reattiva o l’elastasi granulocitaria, suggeriti in passato come marker prognostici di questa malattia.
Si conferma, infine, che le citochine svolgono un ruolo fondamentale nella pancreatite acuta, anche se su di esse sono in corso altri studi di carattere fisiopatologico: l’IL-6, prodotta di regola in seguito all’attivazione delle cellule linfocitarie, correla assai bene sia con il grado di necrosi ghiandolare che con la disfunzione organica, e pu? essere considerata in realt? un marker surrogato del TNF-alfa perch? la sua produzione ? indotta direttamente dal TNF-alfa.

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Se l’iPod danneggia il cuore

Ancora una volta si torna a parlare dei danni che le moderne tecnologie portatili potrebbero causare alla salute dei consumatori. Per una volta, per?, a essere nel mirino non ? il solito cellulare, bens? un gadget altrettanto diffuso e popolare quale l’iPod.
INTERFERENZE ? Secondo uno studio realizzato dal 17enne Jay Thaker (studente presso la Okemos High School, nel Michigan) sotto la guida del dottor Krit Jongnarangsin, cardiologo presso l’ Universit? del Michigan, il dispositivo della mela morsicata potrebbe infatti provocare malfunzionamenti nei pacemaker cardiaci. La causa sarebbe, come nel caso dei telefonini, l’interferenza tra il campo elettromagnetico del lettore digitale e il sistema che nel pacemaker permette di generare gli impulsi elettrici da inviare al cuore.
LO STUDIO ? La ricerca, presentata ieri alla 28esima edizione del meeting annuale della Heart Rhythm Society di Denver, ? stata condotta su un campione di 100 pazienti cardiopatici, et? media 77 anni, tutti portatori di stimolatore artificiale. Il team di Thaker e Jongnarangsin ha analizzato gli effetti che l’uso dell’iPod pu? avere su questa categoria di pazienti. Come riferisce Reuters, le suddette interferenze sono state registrate nel 50 per cento dei casi in cui il gadget Apple ? stato posizionato a circa 5 centimetri di distanza dal torace dei soggetti in esame, ma in alcuni casi l’influenza sul pacemaker si ? verificata anche quando l’iPod ? stato posizionato pi? lontano, a circa 45 centimetri dal torace. Tale malfunzionamento ha fatto s? che i dispositivi salva-cuore non siano riusciti a leggere correttamente il ritmo cardiaco, e in un caso ha anche causato l’arresto del pacemaker.
CAUTELA ? ? giusto per? dire che lo studio non ha preso in considerazione altri modelli di lettore mp3 all’infuori dell’iPod, e che lo stesso Jongnarangsin ha ammesso che ci sarebbe bisogno di ulteriori approfondimenti. Nel frattempo, per?, il cardiologo ha gi? in mente di tentare un esperimento analogo, testando i possibili effetti del gadget Apple su pazienti portatori di defibrillatori cardiaci impiantabili.

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Artrite giovanile idiopatica: discendenza europea incrementa il rischio

Secondo uno studio condotto in Canada, circa il 70 percento dei pazienti con artrite giovanile idiopatica risulta essere di discendenza europea, mentre inopinatamente una percentuale significativamente inferiore a quanto atteso ? di discendenza afroamericana o asiatica. L’unico gruppo di discendenza non europea a presentare un aumento del rischio ? quello nordamericano, ma questo dato non risulta significativo in raffronto ai valori previsti. I bambini di discendenza europea risultano particolarmente a rischio di sviluppare i sottotipi oligoarticolare e psoriatico della malattia, quelli di discendenza asiatica presentano un aumento del rischio della tipologia con entesite, mentre quelli di discendenza nordamericana presentano un aumento del rischio di patologia poliarticolare RF-positiva. (Arthritis Rheum 2007; 56: 1974-84)

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BPCO: mistura elio-ossigeno migliora distanza deambulazione

Rispetto all’uso dell’ossigeno, l’inalazione di una mistura elio-iperossica incrementa considerevolmente la tolleranza all’esercizio nei pazienti con BPCO: i pazienti che la inalano infatti fanno registrare un notevole aumento della distanza coperta con la deambulazione. Bench? i risultati dello studio siano incoraggianti, comunque, vanno ancora presi in considerazione elementi pratici come disponibilit? e costi della terapia. Inoltre andrebbero esplorati i suoi benefici in una popolazione con BPCO pi? grave: i pazienti con malattia pi? grave sono pi? pesantemente disabili, e per questo i benefici della terapia potrebbero risultare ancora pi? evidenti e significativi in questa popolazione. (Chest 2007; 131: 1659-65)

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Morbo di Parkinson: elevati livelli di urati nel plasma riducono il rischio

Elevati livelli plasmatici di urati sono fortemente associati ad una riduzione del rischio di morbo di Parkinson, il che in ultima analisi ha delle implicazioni per il rallentamento della progressione della malattia. Se questo dato verr? confermato, gli urati potrebbero divenire il primo biomarcatore per il morbo di Parkinson, e l’aumento del livello di urati nei soggetti gi? portatori della malattia potrebbe avere un impatto terapeutico. Potrebbe trattarsi del primo vero e proprio trattamento per questa malattia: i dati di uno studio collegato al presente sembrano infatti dimostrare che l’aumento del livello di urati porti al rallentamento della sua progressione. (Am J Epidemiol online 2007, pubblicato il 20/6)

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Emangiomi infantili: corticosteroidi sistemici arrestano proliferazione

31 Ago 2007 Pediatria

I corticosteroidi riducono in modo efficace le dimensioni degli emangiomi infantili. In questo senso, i corticosteroidi per via orale a somministrazione giornaliera offrono maggiori benefici di quelli per via endovenosa ad alte dosi somministrati mensilmente con terapia intermittente, ma al prezzo di un aumento degli effetti collaterali. Gli emangiomi infantili sono i pi? comuni ematomi benigni, ed interessano il 15-20 percento dei neonati: bench? la maggior parte di essi vada incontro a risoluzione spontanea in et? infantile, circa il 10 percento di essi richiedono trattamento a causa di danni funzionali o potenziale per sfiguramenti significativi. Il trattamento standard impiegato nella maggior parte dei casi ? rappresentato da corticosteroidi per via orale. Tale trattamento ? spesso temuto per via degli effetti collaterali, ma il presente studio ha dimostrato che essi sono transitori e per la maggior parte gestibili. Il trattamento comunque deve essere individualizzato, sulla base dello stadio e delle dimensioni dell’emangioma e del metabolismo degli steroidi. Sono inoltre necessari ulteriori studi sugli effetti a lungo termine dei corticosteroidi su crescita e sviluppo complessivo. (Pediatrics 2007; 119: 1239-47)

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Linfomi: esposizione al sole aumenta il rischio

30 Ago 2007 Oncologia

L’esposizione a radiazioni ultraviolette dal tempo trascorso al sole aumenta il rischio di linfomi non-Hodgkin nelle donne. Era gi? stato suggerito che l’aumento dell’esposizione a raggi ultravioletti potesse essere almeno in parte responsabile dell’incremento osservato nell’incidenza dei linfomi di questo tipo. Le donne con la maggiore esposizione al sole fra le nove del mattino e le tre del pomeriggio presentano un aumento del rischio del 70 percento rispetto a quelle meno esposte. L’incremento del rischio, comunque, sembra variare sulla base del sottotipo di linfoma considerato. Sono ora necessari ulteriori studi per accertare se la suscettibilit? genetica possa o meno modificare la correlazione fra esposizione al sole e rischio di linfoma non-Hodgkin. (Am J Epidemiol 2007; 165: 1255-64)

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