Diabete 2 nei grandi obesi: gastrectomia superiore ai farmaci

La gastrectomia laparoscopica a manicotto o verticale (sleeve gastrectomy) è più efficace di una terapia medica intensiva nel trattamento del diabete di tipo 2 inpazienti fortemente obesi.
È quanto dimostrano i risultati di uno studio prospettico svolto da un’èquipe del Policlinico Umberto I – Università La Sapienza di Roma guidata da Frida Leonetti su 60 pazienti fortemente obesi con diabete di tipo 2, dei quali 30 sottoposti a resezione a manicotto dello stomaco, e gli altri 30 avviati a terapia convenzionale. Tutti i pazienti sono stati poi seguiti e valutati per la loro condizione diabetica ogni 3 mesi per 18 mesi.
Nel gruppo dei pazienti sottoposti a gastrectomia verticale, l’indice di massa corporea (Bmi) medio preoperatorio era pari a 41,3; a 18 mesi il Bmi era sceso a 28,3. Riduzioni si sono registrate anche per i livelli di glicemia a digiuno ed emoglobina glicata, la prima passata da 166,6 a 96,2 mg/dL e la seconda da 7,9% a 6%. Nell’80% dei casi il diabete si è risolto. Sono state indagate altre comorbilità: la sindrome delle apnee ostruttive notturne è precipitata dal 50% al 10%, e i pazienti hanno ridotto in modo significativo anche l’impiego di farmaci antipertensivi a antidislipidemici. Tra i soggetti avviati a terapia medica, i valori preoperatori di Bmi, glicemia a digiuno ed emoglobina glicata erano attestati rispettivamente a 39, 183,7 mg/dL e 8,1%; a 18 mesi, i corrispondenti valori sono stati 39,8, 150 mg/dL e 7,1%. Tutti i pazienti sono rimasti diabetici e hanno mantenuto o aumentato il livello di terapia ipoglicemizzante. Inoltre, si è osservato un incremento di impiego di farmaci antipertensivi e antidislipidemici, e la prevalenza della sindrome delle apnee ostruttive notturne non è cambiata.

Arch Surg, 2012 Apr 16. [Epub ahead of print]

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Gotta associata alla malattia renale allo stadio finale

La gotta risulta associata a un maggiore rischio di sviluppo di malattia renale allo stadio finale (Esrd). Lo dimostrano i dati di uno studio – condotto a Taiwan da Kuang-Hui Yu, del Chang Gung Memorial Hospital di Taoyuan, e colleghi – che ha preso in considerazione soggetti di età superiore ai 20 anni, senza Esrd, coronaropatia, o ictus. L’analisi ha incluso i dati relativi a 656.108 pazienti che sono stati seguiti per un periodo medio di 8 anni. Tra questi, 19.963 (3%) soffrivano di gotta. Alla fine del 2008, 2.377 individui (276 con gotta; 2.101 senza gotta)  hanno sviluppato una Esrd e 861 individui (77 con gotta, 27,9%; 521 senza gotta, 24,8%) sono deceduti a causa del’Esrd.  L’incidenza dell’Esrd si è attestata su 1,73 e 0,41 casi per 1.000 pazienti all’anno in entrambi i gruppi (con e senza gotta). Dopo aggiustamento per età, genere, e storia di diabete mellito e/o ipertensione, la gotta è risultata associata all’Esrd con un hazard ratio (Hr) di 1,57. Nei pazienti con Esrd, l’Hr aggiustato per exitus è risultato di 0,95 nei soggetti gottosi, valore simile a quello ottenuto negli individui senza gotta.

Arthritis Res Ther, 2012; 14(2):R83

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Fumo fattore di rischio per esofago di Barrett

Un’analisi del Barrett’s and Esophageal Adenocarcinoma Consortium di Bethesda, Maryland – condotta da Michael B. Cook in collaborazione con altri ricercatori americani, irlandesi e australiani – porta ad affermare che il fumo di sigaretta è un fattore di rischio per l’esofago di Barrett. Gli studiosi hanno analizzato cinque studi caso-controllo in cui i dati di 1.059 soggetti con esofago di Barrett, 1.332 con reflusso gastroesofageo e 1.143 persone sane sono stati analizzati con un modello statistico per evidenziare l’associazione delle due condizioni patologiche con il fumo da sigaretta. Sono stati i pazienti con esofago di Barrett a mostrare una maggiore abitudine al fumo, più del 60% superiore sia rispetto alla popolazione sana che ai partecipanti che soffrivano di reflusso gastroesofageo. Inoltre, la correlazione tra fumo ed esofago di Barrett si è accentuata all’aumentare dell’esposizione al fumo. L’analisi ha anche fornito l’evidenza di una sinergia tra fumo e altri sintomi come bruciori di stomaco o rigurgito, «il che indica» affermano gli autori «che esistono diversi meccanismi attraverso i quali il fumo di tabacco può contribuire allo sviluppo dell’esofago di Barrett». Uno dei punti di forza dello studio è l’ampiezza del campione: il più numeroso mai considerato in studi di questo tipo, il che consente di assegnare un valore statistico ai risultati ottenuti.

Gastroenterology, 2012; 142(4):744-53

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Antidepressivi sicuri ed efficaci nei parkinsoniani

In uno studio randomizzato controllato con placebo condotto in 20 centri negli Stati Uniti, in Canada e a Porto Rico, sia la paroxetina sia la venlafaxina a rilascio prolungato hanno migliorato in modo significativo la depressione in pazienti con malattia di Parkinson. Entrambi i farmaci hanno mostrato un buon profilo di sicurezza, sono stati ben tollerati e non hanno peggiorato le funzioni motorie. Dei 115 soggetti inclusi nello studio – condotto da Irene H. Richard, della University of Rochester, e collaboratori – 42 sono stati trattati con paroxetina (un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina – Ssri), 34 con venlafaxina (inibitore della ricaptazione della serotonina-norepinefrina – Snri) a rilascio prolungato, mentre ai rimanenti 39 è stata somministrata una sostanza placebo. La scala di Hamilton per la depressione (Ham-D) è stata scelta come indice di controllo durante le 12 settimane dello studio, di cui le prime 6 sono servite per l’aggiustamento del dosaggio e le 6 successive per la terapia di mantenimento. Il dosaggio massimo giornaliero dei farmaci è stato di 40 mg per la paroxetina e di 225 mg per la venlafaxina XR. Il primo farmaco si è associato a una riduzione media di 6,2 punti nell’Ham-D e il secondo di 4,2 punti rispetto a quanto registrato nel gruppo placebo. L’efficacia non si è accompagnata a nessuna conseguenza negativa sulle funzionalità motorie dei pazienti.

Neurology, 2012; 78(16):1229-36

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Withe-Coat Hypertension in soggetti anziani con ipertensione sistolica isolata

L’ipertensione sistolica isolata (ISI) nelle persone più anziane è stata associata con un’alta prevalenza di Withe-Coat Hypertension (WCH) diagnosticata con la rilevazione dinamica (ABPM), ma il significato in termini di rischio cardiovascolare (cv) rimane controverso. In linea di massima si ritiene che l’ISI-WCH non sia pericolosa, però in realtà gli studi sono piccoli, di breve durata, spesso non randomizzati e il confronto con la popolazione normale non tiene conto, per esempio, dell’ipertensione mascherata. Una recente metanalisi pubblicata su Hypertension ha utilizzato i dati del “International Database on Ambulatory Blood Pressure Monitoring in Relation to Cardiovascular Outcomes (IDACO) Study,” che include un ampio numero di soggetti, di 11 paesi, residenti in comunità, con protocolli standardizzati per la monitorizzazione della PA dinamica e convenzionale. Dei 7.295 soggetti studiati, in 1.953 è stata riscontrata ISI con le misurazioni convenzionali, ed è stato eseguita l’ABPM: questi soggetti, in maggioranza senza trattamento all’inizio dello studio, sono stati seguiti in un follow up mediano di più di 10 anni per eventi cardiovascolari. Nel complesso si sono verificati 655 eventi fatali e non fatali. Tra i soggetti che nel follow up non sono stati trattati, quelli con ISI-WCH e quelli con pressione normale alla rilevazione convenzionale avevano  un rischio simile. Tra i soggetti con ISI-WCH trattati il rischio cardiovascolare era simile a quello dei soggetti con pressione normalizzata, ma entrambi avevano un rischio almeno doppio rispetto a quelli normali del gruppo non trattato (P<0.0001). Cosa  significa? I soggetti che hanno una PA normalizzata dalla terapia, sia che abbiano un residuo effetto WCH, sia che non ce l’abbiano, hanno un rischio minore rispetto a quelli con ipertensione sostenuta o mascherata, ma ben maggiore rispetto a quelli normotesi o con WCH non trattati (fig 2). I motivi sono molteplici, ma in particolare i soggetti trattati sono in genere più gravi. Comunque per i soggetti con WCH trattati e normalizzati gli AA  propongono il termine “ipertensione trattata normalizzata” piuttosto che il termine in uso “WCH trattata”. 

Franklin SS et al. Hypertension 2012; 59: 564-571

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Vorapaxar: nuovo antiaggregante piastrinico per prevenzione secondaria degli eventi aterotrombotici

Sono stati da poco pubblicati i risultati non del tutto soddisfacenti di un ponderoso lavoro di ricerca clinica sull’efficacia e la sicurezza del vorapaxar nella prevenzione secondaria degli eventi aterotrombotici. Questo nuovo antiaggregante sfrutta le sue caratteristiche di inibire selettivamente le azioni cellulari della trombina attraverso l’antagonismo del PAR-1 e, con esse, di determinare l’antiaggregazione, così come ben rappresentato nella Fig 1 tratta da una recentissima review sui farmaci antiaggreganti (Oral antiplatelet therapy for atherothrombotic disease: overview of current and emerging treatment options. Vascular Health and Risk Management 2012:8 77-89). Sono stati randomizzati 26.449 pazienti che avevano una storia di infarto miocardico, ictus ischemico o arteriopatia periferica per ricevere vorapaxar (2.5 mg al giorno) o placebo. Il follow up previsto ha avuto una durata mediana di 30 mesi. L’end point primario di efficacia era il composito di morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico o ictus. Questi i risultati di efficacia al termine dei 3 anni di follow up (riassunti in Tabella)
– l’end point primario composito al termine dei tre anni di follow up si era verificato nel 9.3% (1.028 pazienti) del gruppo vorapaxar e nel 10,5% (1176 pazienti) del gruppo placebo (hazard ratio per il gruppo Vorapaxar 0.87, CI 95% 0.80-0.94, p <0.001)
– la morte cardiovascolare è avvenuta nel 2.7% (285 pazienti) del gruppo vorapaxar e nel 3.0% (319 pazienti) del gruppo placebo
– l’infarto miocardico si è verificato in 564 pazienti (5.2%) nel gruppo vorapaxar e in 673 pazienti (6.1% nel gruppo placebo (hazard ratio 0.83, 95% CI 0.74-0.93 p = 0.001)
– la comparsa di stroke non è stata dissimile nei due gruppi.
Riguardo alla sicurezza d’uso i risultati sono stati i seguenti 
– un sanguinamento moderato o grave si è verificato nel 4.2% dei pazienti che hanno ricevuto vorapaxar e nel 2.5% di coloro che avevano ricevuto placebo (HR 1.66, 95% CI 1.43-1.93, p <0.001)
– è stato riscontrato un aumento del tasso di emorragia intracranica nel gruppo vorapaxar (1.0% vs 0.5% nel gruppo placebo, p <0.001), tanto che al termine dei primi due anni di follow up il Safety Monitoring Board ne ha raccomandato la sospensione nei pazienti con storia di ictus.
Sulla scorta dei dati sopra ricordati (sintetizzati anche nella tabella 2 e nella figura accluse) il Beneficio Clinico Netto del trattamento non è risultato significativo: l’end point primario composito di efficacia e quello di sicurezza si sono verificati nell’11.7% dei pazienti in trattamento con vorapaxar e nel 12.1% di quelli del gruppo placebo (HR 0.97; 95% CI 0.90 – 1.04; p=0.40). È verosimile che tanto l’azienda farmaceutica produttrice del farmaco quanto gli sperimentatori si aspettassero risultati migliori di quelli ottenuti.

Morrow DA et al. for the TRA 2P-TIMI 50 Steering Committee and Investigators. Vorapaxar in the Secondary Prevention of Atherothrombotic Events. N Engl J Med 2012, 24 Marzo

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Profilassi TEV nella chirurgia protesica di anca e ginocchio: inibitori fattore Xa vs LMWH

Da parte di alcuni ricercatori della Università McMaster (Ontario – Canada) è stata di recente pubblicata sugli Annals of Internal Medicine una revisione sistematica e meta-analisi dei dati di confronto fra le LMWH e gli inibitori diretti del fattore X attivato nella profilassi del tromboembolismo venoso in pazienti sottoposti ad intervento di sostituzione totale d’anca o di ginocchio. Questa la sintesi dei dati (ben rappresentati nelle due Figure accluse)
– i due provvedimenti terapeutici non differiscono per ciò che riguarda la mortalità per tutte le cause o la comparsa di embolie polmonari non fatali 
– gli inibitori del fattore Xa sono stati in grado di impedire 4 casi di trombosi venosa profonda sintomatica ogni 1.000 pazienti trattati (CI da 3 a 6 eventi in meno; prove di alta qualità), pagando il prezzo di un possibile sanguinamento maggiore che si verifica in 2 ogni 1.000 pazienti trattati (CI da 0 a 4 eventi in più; moderata qualità delle prove)
– la maggior incidenza dei sanguinamenti ascrivibili agli inibitori orali del Xa è riservata al solo utilizzo di posologie “elevate” di questi farmaci e non alle “basse” posologie.
Nonostante alcune limitazioni, rappresentate per certi studi da un troppo breve periodo di follow up e per altri dalla mancanza di dati sostanziali (per esempio sulla mortalità) le conclusioni di questa meta-analisi possono essere così riassunte: rispetto all’uso delle LMWH, gli inibitori del fattore Xa assunti a “basse” dosi possono determinare una piccola riduzione del rischio assoluto di trombosi venosa profonda sintomatica senza aumentare la percentuale dei sanguinamenti maggiori. Nessuna modificazione sostanziale invece per ciò che riguarda la mortalità o l’incidenza del tromboembolismo polmonare non fatale.

Neumann I, Rada G, Claro JC et al. Oral Direct Factor Xa Inhibitors Versus Low-Molecular-Weight Heparin to Prevent Venous Thromboembolism in Patients Undergoing Total Hip or Knee Replacement: A Systematic Review and Meta-analysis. Ann Intern Med. 2012, Mar 12

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Octreotide a lento rilascio: non efficace nella profilassi del sanguinamento delle varici esofagee nel cirrotico

Ove mai ci fossero ancora dei dubbi circa la inefficacia di un trattamento in cronico con le preparazioni long acting dell’octreotide (LAR) per la prevenzione delle emorragie digestive da ipertensione portale cirrogena, un recentissimo lavoro dei colleghi gastroenterologi della Mayo Clinic li fuga senza alcun dubbio residuo. Lo studio, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, intention-to-treat, è stato condotto in 39 pazienti con cirrosi e piccole varici esofagee. La sicurezza dell’octreotide LAR è stata valutata sulla frequenza e gravità di eventi avversi. L’efficacia è stata determinata misurando il gradiente di pressione venosa epatica (HVPG) al basale e dopo 84 giorni dalla somministrazione di octreotide LAR 10 mg (n = 15), 30 mg (n = 10) o di soluzione salina (n = 14). Sono stati misurati anche il flusso sanguigno portale (PBF) a digiuno e dopo il pasto, l’indice di pulsatilità dell’arteria mesenterica superiore (SMA-PI) ed i livelli di glucagone e di octreotide. I risultati (vedi figura acclusa) hanno evidenziato:
– quattro dei 10 pazienti del gruppo LAR 30 (40%) si sono ritirati dallo studio a causa di eventi avversi gravi
– nessun paziente nel gruppo LAR 10 o nel gruppo di controllo ha avuto eventi avversi gravi
– il HVPG (gradiente di pressione venosa epatica) non ha mostrato alcun decremento in nessuno dei 3 gruppi 
LAR 30 mg da 11.8 ± 2.3 mmHg a  14.1 ± 3.2 
LAR 10 mg da 15.3 ± 4.8 mmHg a 15.1 ± 3.8  
soluzione salina da 13.3 ± 3.8 mmHg a 15.1 ± 4.3) (p = 0.26)
– il trattamento sia con 10 che con 30 mg di octreotide LAR non ha diminuito il PBF, lo SMA-PI ed i livelli plasmatici di glucagone (p = 0.56).
In conclusione, l’assenza di un significativo beneficio emodinamico, così come l’alta frequenza di gravi eventi avversi associati con l’uso di octreotide LAR, non supportano l’uso di questo agente nel trattamento dell’ipertensione portale.  

Chandok N et al. Randomised clinical trial: the safety and efficacy of long-acting octreotide in patients with portal hypertension. Aliment Pharmacol Ther 2012, Mar 1

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Ipertensione nell’obeso: attenzione alla forma del bracciale, non solo alla dimensione

È nota l’importanza delle dimensioni del bracciale nella misurazione della pressione arteriosa (PA), però spesso si trascura il fatto che non è solo una questione di dimensioni, ma anche di forma del bracciale. Infatti, nonostante la configurazione del braccio sia in genere conica, soprattutto nell’obeso, vengono normalmente utilizzati bracciali e camere d’aria rettangolari (fig.1). Si sono posto questo problema alcuni ricercatori di Padova, che hanno studiato 220 soggetti con circonferenza del braccio compresa tra 22 e 42 cm. Tutti avevano una forma troncoconica del braccio e la conicità era in relazione alla circonferenza e alla lunghezza del braccio stesso. In questi soggetti sono state utilizzate 4 differenti camere d’aria cilindriche e troncoconiche di misure appropriate. Nel gruppo con una circonferenza del braccio di 37.5-42.5 cm il bracciale cilindrico sovrastimava la PA, rispetto al bracciale troncoconico, di 2.0+ 0.4/1.8+0.3 mmHg (p=0.001 e <0.001 rispettivamente). Il 15% dei soggetti classificati come ipertesi col bracciale cilindrico non lo era con il bracciale troncoconico (fig.2). Si è arrivati a differenze di 9.7/7.8 mmHg in individui con con braccia molto grosse ed un angolo braccio-avambraccio uguale o inferiore a 83°. Considerato che i dati del National Health and Nutrition Examination Survey 1999-2002 hanno evidenziato che negli US circa 15 milioni di uomini e 10 milioni di donne di età dai 40 ai 59 anni necessitano di un bracciale per obesi, possiamo farci un’idea dei numeri implicati in una sovrastima dell’ipertensione dovuta a bracciali inappropriati. Ricordiamoci dunque che nel nostro armamentario dobbiamo includere anche i bracciali troncoconici, e non solo i bracciali per obesi e per bambini.

Palatini P et al. J Hypertens 2012; 30: 530-536

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Insufficienza renale cronica e uso di antiaggreganti piastrinici: molta attenzione!

Nonostante alcune limitazioni metodologiche (quali la eterogeneità delle definizioni degli outcomes, la diversa durata del follow up e la derivazione dei dati estrapolata spesso da analisi post hoc) le conclusioni di una recente meta analisi pubblicata sugli Annals of Internal Medicine sull’uso degli antiaggreganti piastrinici rappresentano motivo di grande riflessione per la pratica clinica corrente. Gli autori hanno voluto verificare, con una estesa analisi dei dati della letteratura, gli effetti del trattamento antiaggregante sugli eventi cardiovascolari, la mortalità ed il sanguinamento nei pazienti con insufficienza renale cronica (IRC). Sono state prese in considerazione tanto le situazioni acute, nelle quali il trattamento antiaggregante assumeva motivazioni “terapeutiche”, tanto quelle croniche, nelle quali l’indicazione al trattamento antiaggregante aveva motivazioni di tipo preventivo. Sono stati identificati 9 studi (più precisamente le analisi post-hoc per sottogruppi di pazienti con IRC di 9 studi) che si riferivano a 9.969 pazienti con sindrome coronarica acuta o che erano stati sottoposti ad intervento di angioplastica coronarica percutanea (PTCA) e 31 studi condotti su 11.701 pazienti con cardiopatia stabile o senza documentazione di patologia coronarica che assumevano comunque gli antiaggreganti. Nel primo gruppo di pazienti (vedi Tabella acclusa) in quelli con SCA o che erano stati sottoposti a PTCA, l’aderenza allo standard of care degli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa o del clopidogrel ha avuto scarso o nessun effetto sulla mortalità per tutte le cause, su quella cardiovascolare o sull’infarto miocardico; al contrario, in questi pazienti che presentavano IRC e situazioni coronariche acute, l’amplificazione antiaggregante piastrinica ha determinato un aumento dei sanguinamenti gravi. Anche nei pazienti con miocardiopatia stabile (vedi Tabella acclusa), comparandolo con il placebo, l’utilizzo del trattamento antiaggregante ha sì avuto efficacia preventiva nei confronti dell’infarto miocardico acuto, ma ha dimostrato effetti incerti sulla mortalità a fronte di un aumento delle emorragie, seppure di quelle “minori” (bassa qualità delle prove).

Palmer SC et al.  Effects of Antiplatelet Therapy on Mortality and Cardiovascular and Bleeding Outcomes in Persons With Chronic Kidney Disease. A Systematic Review and Meta-analysis Ann Intern Med 2012; 156: 445-459

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