Capelli salvi, cade il PSA

La finasteride, inibitore della 5-alfa-reduttasi, alla dose di 5 milligrammi al giorno viene utilizzata per il trattamento dell?iperplasia prostatica benigna, mentre a quella di 1 milligrammo promette di risolvere un problema che assilla moltissimi uomini: ? infatti approvata come cura per la calvizie.

Alte dosi dimezzano il PSA
Il farmaco agisce inibendo la conversione del testosterone e riducendo le dimensioni della ghiandola prostatica. Numerosi studi indicano inoltre che, dopo 12 mesi, il farmaco assunto alla dose pi? alta – 5 mg – causa una diminuzione del PSA, il principale indicatore di patologie maligne della prostata, di quasi il 50%.
L?abbassamento sembra per? essere un effetto farmacologico non collegato ad alcuna efficacia terapeutica o preventiva, quindi rischia di rendere meno valido l?esame proprio nella categoria di pazienti maggiormente soggetti a cancro.

Per ovviare all?inconveniente i ricercatori hanno suggerito di modificare i valori di riferimento dell?antigene, o di raddoppiarli negli uomini che stanno assumendo il farmaco da pi? di un anno. Inoltre, se normalmente i valori di PSA ritenuti preoccupanti, oltre i quali si consiglia di eseguire una biopsia, sono quelli di 4 ng/mL, nei pazienti trattati con finasteride si consiglia di eseguire una titolazione del PSA prima di iniziare la cura e di eseguire la biopsia non appena il valore sale di 0,3 ng/mL.

Il trattamento anticalvizie
Ancora non si sa se la stessa cosa succeda anche quando il farmaco viene assunto in maniera continuativa alla dose anti-calvizie (1 mg). Il problema ? di vaste dimensioni, basti pensare che pi? di 4 milioni di uomini negli Stati Uniti prendono la finasteride a basso dosaggio: quali sono i valori di riferimento per il PSA che devono essere utilizzati per loro?

Al momento non ci sono risposte sicure, ma un gruppo di ricercatori statunitensi ha pubblicato di recente sulla rivista Lancet Oncology i risultati di uno studio randomizzato, condotto su 355 pazienti di et? compresa tra i 40 ed i 60 anni che assumevano in maniera continuativa 1 mg di finesteride al giorno per prevenire la caduta dei capelli.

I valori di PSA negli uomini sotto trattamento farmacologico sono stati confrontati con quelli di un gruppo placebo dopo 48 settimane: nei pazienti di et? compresa tra i 40 ed i 49 anni il livello dell?antigene si riduceva del 40% e la diminuzione raggiungeva il 50% in quelli pi? anziani (50-60 anni).

Anche se lo studio ? durato meno di un anno, i risultati sembrerebbero indicare che l?effetto della finasteride sia il medesimo per la dose alta e per quella bassa, e che tutti gli uomini che la assumono, a prescindere dalla dose, dovrebbero informare il proprio medico per evitare che il test del PSA venga invalidato dall?uso del farmaco.

Desiderare un maggior numero di capelli in testa ? comprensibile, purch? a questo non corrisponda un maggiore rischio di ammalarsi.

Raffaella Bergottini

(D?Amico A et al. Effect of 1mg/day finasteride on concentrations of serum prostate-specific antigen in men with androgenic alopecia: a randomised controlled trial. The Lancet Oncology, published online December 5, 2006)

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Duchenne: nuovi risultati

Sono stati pubblicati su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) i risultati di una sperimentazione condotta presso i laboratori dell?Istituto Scientifico Universitario San Raffaele, dell?Universit? degli Studi di Milano, dell?Universit? di Milano-Bicocca, dell?Universit? di Pavia, dell?Istituto Medea e del Centro Ricerche Nicox.
La ricerca ha indagato gli effetti di una nuova molecola – HCT 1026 (nitroflurbiprofene) – su due modelli animali di distrofia muscolare.

I dettagli dello studio italiano
Il nitroflurbiprofene, oggetto anche di altri studi per il trattamento della demenza di Alzheimer, chimicamente ? un antinfiammatorio non steroideo cui ? stata aggiunta la capacit? di fungere da donatore di gruppi NO. Il nitrossido, deficitario nei pazienti distrofici, ? fondamentale per il metabolismo e la rigenerazione dei muscoli.
I ricercatori hanno somministrato l?HCT 1026 (per os) oppure prednisolone a topi con distrofia della cintura pelvica e distrofia di Duchenne, per un anno.

La nuova molecola riduce l?infiammazione, previene il danno muscolare e preserva numero e funzionalit? delle cellule satelliti, come evidenziato dal miglioramento morfologico, biochimico e funzionale del fenotipo e dal rallentamento della progressione della malattia negli animali. A questi effetti, gi? incoraggianti, se n?? aggiunto uno inatteso: quando ai topi sono state iniettate cellule staminali (mesoangioblasti), la presenza di HCT 1026 ne ha quadruplicato la capacit? di migrare e colonizzare le fibre muscolari.

L?azione sinergica del trattamento farmacologico con quello cellulare, osservata in questo studio, suggerisce una possibile strategia d?azione nei confronti non solo delle distrofie ma anche di altre patologie, caratterizzate da mutazioni genetiche diverse.

Le cellule staminali rappresentano una grande speranza per il trattamento di molte malattie ancora incurabili e, infatti, sono oggetto di numerosi studi in tutto il mondo.

Questa sperimentazione ha ricevuto il finanziamento di Parent Project (Associazione di genitori contro la Distrofia di Duchenne/Becker), Telethon, dell?AFM (Association Francaise contre les Myopathies), dell?Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), dell?Unione Europea e del Ministero della Salute. I successi nell?utilizzo di mesoangioblasti sono stati messi in luce, solo pochi mesi fa, da un altro studio italiano, anch?esso finanziato da Telethon e Parent Project.

Elisabetta Lucchesini
(Brunelli S et al. Nitric oxide release combined with nonsteroidal antiinflammatory activity prevents muscular dystrophy pathology and enhances stem cell therapy. Proc Natl Acad Sci USA 2007; 104: 264-9)

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Ictus: gli alti livelli di proteina C reattiva non sono un predittore di rischio

13 Mag 2007 Neurologia
Le attuali lineeguida raccomandano la valutazione dei livelli di proteina C-reattiva ( CRP ) mediante un test ad alta sensibilit? per predire il rischio cardiovascolare.

Recenti studi, tuttavia, hanno messo in evidenza che, sebbene gli elevati valori della proteina C-reattiva rappresentino un fattore di rischio cardiovascolare, non sono utili nel predire il rischio di malattia cardiovascolare.

I Ricercatori dell?Erasmus Medical Center di Rotterdam hanno valutato l?importanza della proteina C-reattiva come fattore di rischio e come predittore del rischio di futuri eventi ittali.

Lo studio ha riguardato 6.430 partecipanti al Rotterdam Study che nel periodo 1990-1993 ( basale ) avevano 55 anni o pi?, e non presentavano ictus.

Nel corso di un periodo osservazionale medio di 8.2 anni si sono riscontrati 498 ictus di prima insorgenza.

Gli alti livelli di proteina C-reattiva erano significativamente associati al rischio di ictus totale e al rischio di ictus ischemico.

Tuttavia, aver tenuto conto dei livelli di proteina C-reattiva non ha prodotto miglioramenti nella capacit? di predire individualmente il rischio di ictus.

Bos MJ et al, Circulation 2006; 114: 1591-1598

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La sindrome di Parsonage-Turner

La sindrome di Parsonage-Turner ? una malattia clinicamente definita, che spesso viene confusa con altre anomalie del collo e delle estremit? superiori. I pazienti manifestano un dolore caratteristico, improvviso e acuto, lungo la parte superiore della spalla, che dura da poche ore a due settimane, ed ? seguito da paralisi flaccida di alcuni muscoli del cingolo scapolare. I segni clinici caratteristici sono la discrepanza tra il deperimento muscolare e la denervazione dei muscoli innervati dallo stesso nervo; la distribuzione “a mosaico” della denervazione muscolare, per i muscoli che sono innervati da molti nervi o da un tronco nervoso che origina dal plesso brachiale; la dissociazione tra il risparmio del potenziale di azione del nervo sensoriale e la denervazione dei muscoli che dipendono da questi nervi misti. L’incidenza ? stata stimata in circa 1,64/100.000, con un picco di frequenza tra la terza e la quinta decade e una lieve predominanza maschile. L’eziologia non ? nota, anche se sono stati sospettati e incriminati vari fattori precipitanti, come le infezioni, i traumatismi, gli interventi chirurgici, i fenomeni di immunizzazione e i meccanismi autoimmuni. La prognosi ? generalmente favorevole, con guarigione completa in circa il 75% dei casi entro i due anni. Il trattamento ? sintomatico e si basa sul ricorso a farmaci analgesici e alla chinesiterapia. *Autore: Dott. I. Kolev (Luglio 2004)*.

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Influenza, Vitamina D e variazioni climatiche: un percorso parallelo

L?inverno pi? caldo degli ultimi 100 anni ha disorientato tutti con inusuali condizioni climatiche che sembra abbiano inciso anche sulle caratteristiche epidemiologiche del virus dell?influenza ?Wisconsin?. Attualmente i pi? colpiti sono pazienti in et? pediatrica, mentre negli adulti e negli anziani ? rilevabile un?incidenza bassa, sotto la soglia critica del 2?. EISS e InfluNet, reti di sorveglianza epidemiologica in Europa e in Italia, hanno documentato finora solo una timida tendenza all?intensificazione dell?epidemia. Probabilmente fra le diverse ipotesi ? probabile che le insolite condizioni climatiche possano aver rallentato la diffusione del virus pur mantenendo la caratteristica stagionalit? del suo andamento.

A questo proposito le variazioni del clima e i problemi correlati riportano all?attenzione R. Edgar Hope-Simpson, un medico generico ed epidemiologo inglese, che a partire dal 19811 ha condotto numerosi studi sulla ciclicit? delle epidemie influenzali. Egli ha osservato come il picco massimo di virulenza dell?influenza, negli emisferi temperati, coincide con i primi giorni successivi al solstizio invernale (22/23 Dicembre), e come invece la diffusione del virus tende a decrescere, fin quasi a scomparire, nei mesi estivi. E questo nonostante a livello immunologico sia possibile individuare nella popolazione una continua formazioni di anticorpi specifici contro il virus anche nella stagione estiva e in assenza di sintomatologia conclamata dell?infezione.

Hope-Simpson ha dedotto l?esistenza di uno ?stimolo stagionale? responsabile di questo caratteristico andamento ciclico dell?epidemia influenzale. Nella sua teoria il ?seasonal stimulus? correla con l?irradiazione solare:

? il picco di massima diffusione virale, nelle zone temperate, viene a coincidere con il picco pi? basso della forza dell?irradiazione solare, cio? intorno al solstizio invernale (quando i raggi del sole raggiungono il massimo della loro obliquit?);

? nelle zone equatoriali, dove l?andamento dell?irradiazione solare ? meno stagionale, anche il procedere dell?influenza ? meno legato alle stagioni e manifesta comunque il suo picco massimo nel momento in cui i raggi solari appaiono pi? deboli.

Un?interessante revisione pubblicata su Epidemiology Infection2 fa il punto della situazione sottolineando che la vitamina D, [25(OH)D], pu? essere lo ?stimolo stagionale? di cui parlava Hope-Simpson e che i suoi livelli plasmatici, dipendenti dall?esposizione al sole e dall?intensit? dell?irradiazione solare, possono essere un fattore determinante della stagionalit? dell?influenza. La vitamina D ? un preormone che viene normalmente prodotto nella cute durante i mesi estivi, quando i raggi UVB attivano la conversione del 7-deidrocolesterolo in vitamina D. In seguito la vitamina D va incontro ad una serie di ulteriori modificazioni ad opera del fegato [25(OH)D] e di tutte le cellule del corpo, fino a presentarsi come potente ormone steroideo [1,25(OH)2D] che agisce sul sistema immunitario. La Vitamina D ha infatti un ruolo importante nel modulare la risposta infiammatoria all?aggressione virale, evitando l?eccessivo rilascio di citochine proinfiammatorie e di chemochine3. Inoltre incrementa sensibilmente la produzione di macrofagi specifici e stimola fortemente il processo genetico di potenti peptidi antibatterici che sono presenti in neutrofili, monociti, cellule del sistema immunitario innato e nelle cellule epiteliali che ricoprono l?apparato respiratorio svolgendo un attivo ruolo di difesa dei polmoni4. La carenza/presenza di vitamina D potrebbe quindi essere correlata alla stagionalit? dell?influenza quanto al ricorrere di diverse patologie batteriche e virali dell?apparato respiratorio.

Sebbene l?importanza della vitamina D nella prevenzione delle patologie respiratorie sia ormai sufficientemente documentata resta da valutare mediante studi clinici quale sia il dosaggio pi? appropriato. Finch? questo non sar? stabilito sarebbe buona norma attenersi in inverno al mantenimento di una concentrazione plasmatica di vitamina D pari a quella che viene riscontrata fisiologicamente in estate (50 ng/ml). La quantit? da assumere come integrazione varier? quindi da persona a persona, in base all?et?, alla latitudine, alla stagione, alla razza, al peso, all?esposizione al sole e ai precedenti livelli di [25(OH)D] nel sangue.

Gli autori ipotizzano una dose generale di 1000-2000 IU/Kg che pu? essere aumentata fino a 5000 IU/al giorno per gli obesi, le persone di colore che hanno molta melanina nella pelle, per gli anziani e per chi non si espone al sole. Si tratta di dosaggi la cui definizione resta tuttavia da testare clinicamente.

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La responsabilit? del medico di pronto soccorso

E’ da escludersi la configurabilit? della colpa professionale medica, allorquando la carenza di notizie in sede di anamnesi sia cos? radicale e generale da non offrire al sanitario di turno in una struttura di pronto soccorso alcun elemento su cui formulare una sostenibile ipotesi diagnostica e, d’altra parte, elementi di tale valenza non siano rilevabili ad un esame obiettivo del paziente, n? emergano durante il periodo di osservazione del medesimo.

I fatti

Il signor GC di 58 anni, in seguito ad un episodio di epistassi insorto alle 5 del mattino, si recava al PS di un ospedale milanese. All?accettazione gli veniva misurata la pressione arteriosa che risultava elevata, pari a 195/95 con frequenza cardiaca di 110 battiti al minuto.
Il dottor A, medico di guardia, annotava nel verbale: “epistassi a risoluzione spontanea – tosse – esame clinico del torace senza specificit?”; ed inoltre: “non precedenti anamnestici – non fa alcuna terapia”. Si procedeva quindi ad una seconda misurazione pressoria, che forniva valori di 150/75. Alle ore 6.36 il C veniva dimesso con la prescrizione di una visita otorinolaringoiatrica, fissata per le ore 10.00 dello stesso giorno. Durante il viaggio di ritorno alla propria abitazione il C accusava un improvviso malore; sceso dall’automezzo, si accasciava improvvisamente al suolo, decedendo sul posto. In relazione a tale fatto il dottor A veniva accusato di omicidio colposo; gli si imputava di aver omesso di: effettuare gli esami necessari per verificare l’entit? della perdita ematica e, altres?, indagare le cause dell’emorragia nasale, anche mediante osservazione del paziente.

Il processo di primo grado

Il dottor C, consulente del Pubblico Ministero, rilevava dai risultati autoptici che il defunto GC era portatore silente di epatomegalia steatosica su base etilica e di cardiopatia ipertensiva. Inoltre, il giorno stesso del decesso, il paziente aveva avuto un?emorragia gastrica di discreta entit?, correlabile a flogosi diffusa della mucosa gastrica. Tale situazione, in parte condizionata da verosimili deficit coagulativi (ridotta sintesi di fattori procoagulanti da parte di fegato abnormemente steatosico) aveva comportato, secondo il consulente, l’attivazione di fisiologici meccanismi di compenso dell’ipovolemia. In particolare, il sistema simpatico-adrenergico determinava un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, dando luogo all’epistassi profusa, che il C aveva patito nella notte. Di qui, determinandosi ulteriore perdita ematica, si era instaurato un circolo vizioso con un ulteriore aumento dei valori pressori e della tachicardia, una condizione di stress a cui non pu? far fronte un muscolo cardiaco con ridotta capacit? di risposta, come quello del GC, che aveva evidenziato in sede di esame autoptico una ipertrofia del ventricolo sinistro da cardiopatia ipertensiva. Il Tribunale di Lecco accoglieva le conclusioni del PM e condannava il medico di guardia a 6 mesi di reclusione con la sospensione condizionale (sentenza del 29-9-2005).

Il ricorso in Appello

Contro la sentenza proponevano appello, con distinti atti, entrambi i difensori di fiducia, contestando la possibilit? di riconoscere la colpa professionale, nonch? la sussistenza di un nesso causale tra condotta ed evento, chiedendo l’assoluzione dell’imputato perch? il fatto non sussiste.
Preliminare ad ogni discussione era, tuttavia, la doglianza circa la mancata considerazione, da parte del Giudice di primo grado, delle conclusioni del perito d’ufficio. Mancata considerazione che costituiva ragione di nullit? della sentenza per violazione della norma di cui all’art. 546, comma 1, lett. e) c.p.p. Il dottor FB, consulente d?ufficio, aveva concluso nel senso che, dall’analisi dei soli elementi di giudizio disponibili all’atto della dimissione, non vi era prova della necessit? di un diverso atteggiamento terapeutico del medico di guardia, il quale si era trovato di fronte ad una vicenda clinica di estrema difficolt? tecnica, evolutasi in modo sfavorevole per il carattere di imprevedibilit? e perniciosit? delle patologie da cui era affetto il GC.
La Corte d?appello riforma totalmente la sentenza di primo grado, ritenendo che l’imputato debba essere assolto dal reato ascrittogli perch? il fatto non sussiste.

Motivi della decisione

Nel “verbale di triage e pronto soccorso” risulta che Il GC era entrato nella struttura sanitaria alle ore 5.46, “sveglio” e con un respiro “normale”; i valori di pressione arteriosa erano andati diminuendo fino ad assestarsi su 150/75; veniva dimesso alle ore 6.36.
La figlia DC ha dichiarato che il padre “non ha mai avuto problemi di salute”, tanto che “durante il lavoro non ? mai stato a casa in malattia”; ha inoltre escluso che il padre bevesse “in modo particolare”, riferendo, in proposito, di un normale consumo di vino durante i pasti.
E’ conseguentemente da escludere che al medico e al personale del PS siano stati forniti, anche dal paziente, dati e informazioni diversi. L’infermiera CS, di turno all’accettazione il giorno del fatto (compil? il “verbale di triage”), ha riferito che: “il sanguinamento dal naso in pronto soccorso non era in atto”; che GC “stava in piedi” davanti a lei, “perfettamente collaborante e cosciente”, tanto da poter rispondere con prontezza e lucidit? alle domande che gli venivano rivolte.
La situazione cos? ricostruita appare quindi caratterizzata da:

a) totale carenza di informazioni utili a fini diagnostici e, in particolare, di informazioni (su malattie e terapie pregresse e in atto, su un qualunque quadro di possibile rilievo sintomatologico, su abitudini di vita comunque significative) in grado di orientare il sanitario nella variet? e complessit? delle patologie che possono determinare l’epistassi, o essere direttamente o indirettamente collegate al verificarsi di tale fenomeno;

b) rapida e stabile risoluzione dell’episodio di sanguinamento e da un altrettanto rapido e stabile assestarsi dei valori pressori, senza alcun supporto farmacologico, su parametri di normalit?: e ci? in un contesto in cui il GC, oltre a non rivelare alcuna particolarit? all’esame del torace, ebbe ad entrare e uscire autonomamente dai locali della struttura sanitaria e a dimostrarsi sempre ed in ogni momento lucido e collaborante, cos? presente ai fatti da manifestare la normalissima preoccupazione che la figlia avesse a far tardi sul posto di lavoro.

Fonte

Corte d?Appello di Milano – Sezione II – 06-11-2006

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Sinusite in chiaro

La sinusite, o meglio rinosinusite, ? un disturbo di riscontro comune, che viene a volte confuso con un forte raffreddore o un?allergia di stagione. E? invece un? infiammazione dei seni paranasali, che pu? essere acuta o cronica, con ostruzione, ritenzione di muco e infezione, scatenata nella maggior parte dei casi da un?infezione virale e, meno di frequente, batterica. Altri fattori scatenanti sono riniti allergiche e non allergiche, alterazioni anatomiche quali deviazione del setto nasale e ipertrofia dei turbinati, fumo, e poi anche diabete, infezioni dentali, altre condizioni patologiche e situazioni come nuoto e immersioni. Un certo incremento delle rinosinusiti sarebbe in gran parte collegato a quello delle riniti allergiche.
Se nella forma acuta spesso si risolve senza trattamento, la rinosinusite ha comunque una sintomatologia molto fastidiosa che si protrae, arriva a essere causa di assenteismo scolastico o lavorativo; inoltre pu? evolvere verso la cronicizzazione, e ci sono anche possibili complicanze. Perci? ? importante inquadrarla e affrontarla correttamente: ne riassume i criteri di gestione una review pubblicata sul Bmj.

Rapporti con rinite allergica e asma

Poich? l?infiammazione della mucosa a livello dei seni paranasali ? praticamente sempre accompagnata da quella della mucosa nasale adiacente, si parla pi? correttamente di rinosinusite. La sua incidenza ? pi? elevata tra chi soffre di allergie, soprattutto riniti allergiche, molti asmatici presentano rinosinusite (e rinite allergica) cos? come molte rinosinusiti croniche riguardano malati di asma: infatti ci sono evidenze che l?infiammazione allergica coinvolge l?intero tratto respiratorio come un continuum. La forma acuta ? definita dalla presenza per 3-4 settimane (da 4 a 12 ? subacuta) di almeno due sintomi tra ostruzione/congestione, gocciolamento nasale o retronasale, dolore facciale o alta pressione, ridotta capacit? olfattiva, con possibile aggiunta di mal di denti, febbre, malessere, nel bambino anche gonfiore palpebrale, vomito, tosse, irritabilit?. Un peggioramento dopo 5 giorni o la persistenza oltre i 10 (ma entro le 12 settimane) sarebbe indicativo di un?origine non virale; sotto i 10 giorni invece di una virale. Nella forma cronica congestione od ostruzione nasale durano pi? di 12 settimane con almeno un sintomo di accompagnamento. Molto spesso la diagnosi viene posta solo in base ai sintomi, che possono per? portare a errata classificazione tra il coinvolgimento virale e quello batterico, essendo simili nei due casi; si ricorre anche all?esame della transilluminazione dei seni (diafanoscopia), all?indagine endoscopica nasale e paranasale, alla Tac, all?ecografia, alla coltura dell?aspirato, all?esame batteriologico delle secrezioni.

Terapia medica e chirurgica

La rinosinusite pu? andare incontro a complicanze: la maggioranza delle infezioni orbitarie si legherebbe a patologia naso-sinusale, sono possibili poi celluliti orbitarie e ascessi intraorbitari; la sinusite frontale pu? sfociare in osteomielite dell?osso frontale e a deterioramento del seno; si pu? arrivare a meningiti e ascessi intracranici.
Venendo al trattamento, spesso come detto la condizione si risolve senza ricorrere agli antibiotici, che negli USA, per esempio, verrebbero prescritti nel 90% dei casi. Comunque nella forma acuta, specie se i sintomi sono piuttosto pesanti e persistono oltre i 5 giorni, sono efficaci antibatterici come amoxicillina con o senza acido clavulanico, cefalosporine, macrolidi; utili anche cortisonici spray. Nella forma cronica si dovrebbe iniziare con i cortisonici topici nasali e proseguire trattando le cause sottostanti, specie le allergie; si possono prevedere gli antibiotici in casi non responder o con sintomi marcati e persistenti, e cortisonici per os in alcuni casi. Risolti i sintomi, ? importante poi il mantenimento con cortisonici inalatori.
Possono essere utili in fase acuta anche gli spray nasali decongestionanti (per pochi giorni), oltre a mucolitici, Fans, antistaminici se c?? sintomatologia allergica, lavaggi nasali con soluzioni saline, nelle forme croniche trattamenti termali. Un ruolo importante nelle forme croniche l?ha infine la chirurgia per correggere le cause anatomiche o in casi complicati; oggi sono frequenti gli interventi dei seni paranasali per via endoscopica.

Elettra Vecchia

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Extrasistolia ventricolare nell’elettrocardiogramma

Il riscontro di extrasistolia ventricolare nell’elettrocardiogramma (ECG) basale ? un evento assai comune in soggetti senza una evidente patologia cardiaca ed ancor pi? in individui cardiopatici. Tale evenienza indirizza abitualmente l’interesse del medico verso differenti ed importanti aspetti di management clinico, quali ad esempio l’esecuzione di indagini pi? approfondite nei soggetti senza una cardiopatia evidente, la valutazione dell’aritmia a fini prognostici, la necessit? e l’utilit? di un trattamento antiaritmico specifico, la maggiore aggressivit? nella terapia della cardiopatia gi? nota. E’ noto che le caratteristiche proprie dei battiti ectopici ventricolari prematuri (BEV, definizione pi? corretta in aritmologia per indicare l’extrasistolia ventricolare) registrati all’ECG assumono un significato rilevante nel giudizio diagnostico e prognostico; per questo una cosiddetta forma ?complessa? (BEV polimorfi, frequenti, ripetitivi a coppie o salve di tachicardia ventricolare non sostenuta o sostenuta, molto precoci con fenomeno R su T) ? considerata in ogni caso con maggiore attenzione ed allarme rispetto ad una senza tali caratteri determinanti.
Certamente, il problema richiede un approccio clinico differente a seconda che l’aritmia venga evidenziata in soggetti gi? cardiopatici o in assenza di un precedente rilievo di malattia cardiaca.

Significato prognostico dell’extrasistolia ventricolare

Nonostante l’elevato livello di conoscenze sull’argomento, esistono tuttora rilevanti aree di incertezza sul significato prognostico dell’aritmia ventricolare nei soggetti con cardiopatia nota, ed ancor pi? nei casi in cui questa viene esclusa dopo un iter diagnostico accurato.
Sembra, inoltre, che la terapia con farmaci antiaritmici, ad eccezione di pochi casi selezionati, non riesca comunque a modificare significativamente la prognosi quoad vitam.
A tale riguardo risulta particolarmente interessante il contributo che deriva da un recente studio, pubblicato sulla rivista American Journal of Cardiology da ricercatori dell’Universit? della Carolina del Nord: vengono riportati i risultati di un’analisi prospettica condotta su un’ampia popolazione dello studio ARIC (Atherosclerosis Risk in Communities), 15.070 soggetti di et? compresa fra 45 e 64 anni.
Il riscontro di BEV in un singolo ECG della durata di 2 minuti era presente nel 6,2% del campione, con una frequenza significativamente maggiore negli individui con malattie delle coronarie.
Nel periodo di osservazione di 10 anni, tra i soggetti che avevano mostrato la presenza di BEV all’ECG, la percentuale di decessi per eventi coronarici era maggiore di almeno tre volte (7,8% versus 2,1%) rispetto al resto della popolazione osservata; tale dato era evidente sia tra coloro che avevano una malattia ischemica gi? accertata sia tra quelli senza cardiopatia.

Cosa fare per migliorare la prognosi?

Secondo gli Autori dello studio la presenza di aritmia ventricolare all’elettrocardiogramma comporterebbe un rischio pi? elevato di mortalit? per cardiopatia ischemica, anche in soggetti apparentemente sani.
Da questi dati deriverebbe la necessit? di una maggiore attenzione nei confronti dei soggetti, non particolarmente rari, che presentano BEV all’elettrocardiogramma, anche se non cardiopatici, con l’adozione non tanto di un trattamento farmacologico con antiaritmici (che in altri studi non si sono dimostrati sempre efficaci nel ridurre la mortalit? cardiaca), quanto piuttosto di provvedimenti pi? aggressivi di riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare, come ipertensione, fumo, ipercolesterolemia.
Questa pu? oggi essere infatti definita la strategia di prevenzione in assoluto pi? efficace, fondata su una corretta individuazione della popolazione a rischio pi? elevato e su una tempestiva ed aggressiva riduzione dei fattori di rischio modificabili pi? importanti.

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Polimorfismi recettore estrogeni connessi a tumore epatico

4 Mag 2007 Oncologia
Nei portatori cronici di Hbv, alcuni polimorfismi del recettore per gli estrogeni sono associati all’aumento del rischio di carcinoma epatocellulare. Sia nei modelli animali che in quelli umani, la sovraespressione dei recettori per gli estrogeni ? implicata nello sviluppo del tumore epatico. In base ai risultati dello studio, i soggetti geneticamente predisposti a produrre un maggior livello di mRNA del recettore 1 per gli estrogeni sono maggiormente predisposti al carcinoma epatocellulare. Non ? stato per? possibile per il momento stabilire se vi fossero alcuni loci particolari responsabili dell’associazione.

(Gastroenterology 2006; 130: 2001-9)

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Effetto del trattamento multifattoriale sulla steatosi epatica non alcolica nei

La steatosi epatica non-alcolica ? una manifestazione della sindrome metabolica.

Non esistono ad oggi trattamenti efficaci per questa malattia epatica.

Ricercatori greci hanno valutato un intervento multifattoriale nel trattamento della steatosi non alcolica.

Lo studio prospettico ha riguardato pazienti non affetti da diabete ( n = 186 ) con sindrome metabolica.

Il periodo osservazionale ? stato di 54 settimane.

I pazienti hanno ricevuto consigli per modificare il proprio stile di vita e sono stati trattati per l?ipertensione ( nella maggioranza dei casi con inibitori del sistema renina-angiotensina ), per l?alterata glicemia a digiuno ( Metformina ), per l?obesit? ( Orlistat ) e per la dislipidemia.

Riguardo alla dislipidemia, i pazienti sono stati trattati in modo random con Atorvastatina 20mg/die ( n = 63 ) o con Fenofibrato micronizzato 200mg/die ( n = 62 ) o con l?associazione Atorvastatina e Fenofibrato ( n = 61 ).

Al termine del trattamento, il 67% dei pazienti che hanno ricevuto Atorvastatina, il 42% di quelli che sono stati trattati con Fenofibrato ed il 70% di coloro che hanno assunto l?associazione Atorvastatina e Fenofibrato non hanno pi? presentato evidenze biochimiche ed ultrasonografiche di steatosi epatica non-alcolica ( p < 0.05 versus il basale, per tutti i confronti ).
La percentuale dei pazienti senza pi? evidenza di steatosi non alcolica ? risultata pi? elevata nel gruppo Atorvastatina e nel gruppo Atorvastatina e Fenofibrato, rispetto al gruppo Fenofibrato.

L?effetto era correlato in modo indipendente al trattamento farmacologico, cos? come alla riduzione della proteina C-reattiva ad alta sensibilit?, alla circonferenza-vita, al peso corporeo, ai trigliceridi, al colesterolo LDL, al colesterolo totale, alla pressione sistolica e alla glicemia.

Quattro pazienti hanno dovuto interrompere il trattamento a causa di eventi avversi.

Lo studio ha mostrato che l?intervento multifattoriale nei pazienti con sindrome metabolica e con evidenza biochimica ed ultrasonografica di steatosi epatica non alcolica ha permesso di ridurre gli elevati livelli di aminotransferasi e l?ecogenicit? del parenchima epatico.

Athyros VG et al, Curr Med Res Opin 2006; 22: 873-883

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