Strategie per l?eradicazione dell?infezione da virus dell?epatite B

L?infezione da virus dell?epatite B ( HBV ) ? una delle principali cause di cirrosi e di tumore epatico negli Stati Uniti.

L?Advisory Committee on Immunization Practices ( ACIP ) ha raccomandato una strategia per eliminare il virus dell?epatite B che includa la prevenzione della trasmissione perinatale di HBV, la vaccinazione universale dei neonati, la vaccinazione immediata dei bambini e degli adolescenti non vaccinati e la vaccinazione degli adulti non vaccinati ad aumentato rischio di infezione.

L?incidenza di epatite B acuta si ? ridotta del 75%, da 8.5 casi per una popolazione di 100.000 persone nel 1990 a 2.1 per 100.000 persone nel 2004, con il maggior declino ( 94% ) tra i bambini e gli adolescenti.
L?incidenza rimane pi? alta tra gli adulti, che sono responsabili del 95% delle 60.000 nuove infezioni ( stimate ) nel corso del 2004.

Per esaminare la copertura della vaccinazione per l?epatite B tra gli adulti, sono stati analizzati i dati del 2004 nel National Health Interview Survey ( NHIS ).
Durante il 2004, il 34.6% degli adulti di et? compresa tra 18 e 49 anni hanno riferito di essere stati vaccinati contro l?epatite B, tra cui il 45.4% degli adulti ad alto rischio per l?infezione HBV.

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Dislipidemia nei pazienti con malattia renale cronica

I pazienti con malattia renale cronica non-dialisi-dipendenti hanno pi? bassi livelli di colesterolo HDL, pi? alti livelli di trigliceridi, apo B, colesterolo IDL remnant, colesterolo VLDL remnant e lipoproteina (a), ed una maggiore proporzione di colesterolo LDL ossidato.

Queste alterazioni sono pi? marcate nei pazienti sottoposti ad emodialisi che spesso manifestano cambiamenti proaterogenici del colesterolo LDL in assenza di aumentati livelli.

I pazienti sottoposti a dialisi peritoneale presentano una pi? grave dislipidemia rispetto ai pazienti in emodialisi.

Nella popolazione di pazienti affetti da malattia cronica renale dialisi-dipendente, il colesterolo totale ? direttamente associato ad aumentata mortalit?.

Il trattamento con le statine ( farmaci ipocolesterolemizzanti inibenti l?enzima HMG-CoA reduttasi ) riduce la mortalit? cardiovascolare nella popolazione generale di quasi un terzo, indipendentemente dai livelli di colesterolo LDL basali o da precedenti eventi cardiovascolari.

Le statine presentano una similare, se non maggiore, efficacia nel modificare il profilo lipidico nei pazienti con malattia renale cronica dialisi-dipendente, sia nei pazienti sottoposti ad emodialisi che a dialisi peritoneale, rispetto ai soggetti con normale funzione renale.

Le statine riducono, inoltre, i livelli della proteina C-reattiva.

Studi osservazionali di ampie dimensioni hanno dimostrato che il trattamento con statine ? associato in modo indipendente ad una riduzione del 30-50% di mortalit? nei pazienti con malattia renale cronica dialisi-dipendente.

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Alta incidenza di steatosi epatica nei pazienti con confezione HIV-HCV

E? stata valutata la prevalenza e la gravit? della steatosi e delle possibili interazioni tra steatosi, fattori dell?ospite, fattori virali e trattamento dell?infezione da virus HIV ( virus dell?immunodeficienza umana ) nei pazienti con co-infezione HIV-HCV ( virus dell?epatite C ).

La steatosi ? stata valutata tra 395 pazienti coinfettati HIV-HCV che sono stati arruolati nello studio ANRS HCO2-Ribavic e per i quali erano disponibili i dati istologici.

La steatosi ? stata classificata nel seguente modo: 0; 1 ( epatociti contenenti grasso: < 30% ); 2 ( epatociti contenenti grasso: 20-70% ); 3 ( Epatociti contenenti grasso: > 70% ).

La steatosi era presente nel 61% ( n = 241 ) dei pazienti, dei quali il 38% ( n = 149 ) con grado 1, il 16% ( n = 64 ) con grado 2, e il 7% ( n = 28 ) con grado 3.

All?analisi multivariata, 5 fattori di rischio indipendenti erano associati alla steatosi: genotipo 3 di HCV ( odds ratio, OR = 3.02; p < 0.0001 ), punteggio medio METAVIR per la fibrosi ( OR = 1.43; p = 0.0053 ), l?indice di massa corporea ( BMI ) ( OR = 1.13; p = 0.0013 ), carico virale HCV ( OR = 1.65; p = 0.0012 ) e ferritina ( OR = 1.13; p < 0.0003 ).
Nei pazienti con genotipo 3 di HCV, i fattori indipendenti associati alla steatosi sono stati l?indice di massa corporea ed il carico virale di HCV, mentre nei pazienti con infezione da genotipo 1 di HCV erano: il punteggio medio di METAVIR per la fibrosi, l?indice di massa corporea e la ferritina.

I dati dello studio hanno dimostrato che la steatosi ? particolarmente frequente nei pazienti co-infettati con HIV-HCV.

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Carcinoma della prostata, le statine sembrano ridurne l?incidenza

4 Gen 2007 Oncologia

E? stato osservato che gli uomini che assumono farmaci che abbassano i livelli di colesterolo riducono anche il rischio di tumore della prostata.

Ricercatori del Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health hanno seguito 34.000 uomini per 10 anni.
Nessuno degli uomini presentava carcinoma prostatico all?inizio dello studio.

Gli uomini che assumevano le statine, farmaci che abbassano i livelli di colesterolo LDL, presentano un rischio dimezzato di andare incontro ad un tumore della prostata in fase avanzata ed un rischio ridotto ad un terzo di carcinoma prostatico metastatizzato, rispetto agli uomini che non facevano uso delle statine.

Il colesterolo ? un precursore del testosterone.

Il ruolo del colesterolo ? diventato particolarmente importante dopo che uno studio ha trovato che alti livelli di colesterolo negli uomini di razza nera erano associati ad una pi? alta incidenza ( 60% ) di carcinoma della prostata e ad una pi? alta mortalit? ( 50% ) rispetto ad altri gruppi etnici e razziali.

Fonte: American Association for Cancer Research ( AACR ), 2006

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Rischio di diabete e di malattia cardiovascolare durante la terapia di deprivazione androgenica per tumore della prostata

La terapia di deprivazione androgenica con un agonista dell?ormone rilasciante la gonadotropina ( GnRH ) ? associata ad un aumento della massa grassa e alla resistenza all?insulina negli uomini con tumore della prostata. Tuttavia il rischio di malattia associata all?obesit? durante il trattamento non ? stato ben studiato.

Ricercatori dell?Harvard Medical School hanno valutato se la terapia di deprivazione degli androgeni fosse associata ad un?aumentata incidenza di diabete e malattia cardiovascolare.

Lo studio osservazionale ha riguardato una coorte di 73.196 persone del servizio Medicare, dell?et? di 66 anni o pi?, ai quali era stato diagnosticato carcinoma prostatico locoregionale durante il periodo 1992-1999.

Pi? di un terzo degli uomini aveva ricevuto un agonista GnRH nel corso del periodo osservazionale.

L?impiego dell?agonista GnRH era associato ad un aumentato rischio di diabete ( hazard ratio aggiustato, HR = 1.16; p < 0.001 ), di infarto miocardico ( HR aggiustato = 1.11; p = 0.03 ) e di morte cardiaca improvvisa ( HR aggiustato = 1.16; p = 0.004 ).
Gli uomini sottoposti ad orchiectomia presentavano una maggiore probabilit? di sviluppare diabete ( HR aggiustato = 1.34; p < 0.001 ), ma non malattia coronarica, infarto miocardico o morte cardiaca improvvisa.
Dai dati dello studio ? emerso che il trattamento con agonisti GnRH per uomini con tumore prostatico locoregionale pu? essere associato ad un aumentato rischio di diabete e malattia cardiovascolare.

Secondo gli Autori, i benefici del trattamento con agonisti GnRH dovrebbero essere confrontati con i potenziali rischi

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L?impiego materno di contraccettivi orali nella prima parte della gravidanza non

Ricercatori dell?Aarhus University Hospital in Danimarca hanno valutato il rischio di ipospadia nei ragazzi nati da madri che avevano fatto uso di contraccettivi orali nella prima parte della gravidanza.

L?odds ratio ( rapporto tra i rischi ) aggiustato per l?impiego materno dei contraccettivi orali ? risultato pari a 1.21 quando sono stati confrontati i soggetti con ipospadia e quelli senza anomalie congenite.

Quando, invece, sono stati confrontati i soggetti con ipospadia e quelli con altre anomalie diverse dall?ipospadia, l?odds ratio aggiustato per l?impiego materno di contraccettivi orali ? stato di 0.83.

I dati dello studio hanno mostrato che l?impiego materno, autoriferito, di contraccettivi orali durante la gravidanza non era associato ad un aumento del rischio di ipospadia nella prole.

Wogelius P et al, Eur J Epidemiol 2006; Epub ahead of print

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L?obesit? addominale ? un marker di resistenza all?insulina e di disturbi metabo

Uno studio ha valutato se la massa grassa viscerale ( obesit? addominale ) rappresentasse la pi? significativa variabile correlata alla resistenza all?insulina e ad altri parametri metabolici nelle donne con sindrome dell?ovaio policistico.

Allo studio hanno preso parte 40 donne con sindrome dell?ovaio policistico e ciclo anovulatorio.

E? stata osservata una forte correlazione lineare tra massa grassa viscerale e resistenza all?insulina ( p < 0.001 ).
Correlazioni statisticamente significative sono state anche trovate con insulina a digiuno ( p < 0.001 ), funzione delle cellule beta ( p = .007 ), livelli di trigliceridi ( p = 0.003 ), livelli di colesterolo HDL ( p = 0.007 ), livelli di urato ( p = 0.002 ), la globulina legante l?ormone sessuale ( SHBG; p = 0.01 ) e l?ormone luteinizzante ( LH; p = 0.02 ). Non sono emerse significative correlazioni tra testosterone e distribuzione della massa grassa o parametri metabolici. La resistenza all?insulina ha mostrato una pi? stretta correlazione con la massa grassa viscerale ( p < 0.001 ) ed anche con la circonferenza giro-vita ( p < 0.001 ). Lo studio ha mostrato che la massa grassa viscerale ? la variabile pi? significativa correlata alla disfunzione metabolica nelle donne con policistosi ovarica. I dati supportano l?ipotesi che il grasso addominale causa resistenza all?insulina, o ne rappresenta una manifestazione precoce. La riduzione della massa grassa addominale dovrebbe ridurre la resistenza all?insulina.
L?esercizio fisico e la perdita di peso sembrano essere pi? efficaci rispetto alle terapie farmacologiche.

La migliore misura antropometrica della resistenza all?insulina ? la circonferenza giro-vita.

Lord J et al, BJOG 2006; 113: 1203-1209

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Maggiore efficacia del Ferro saccarato e.v. rispetto al Ferro solfato per os nel

31 Dic 2006 Ginecologia
L?anemia postparto da deficienza di ferro ? comune nelle donne che hanno partorito, ed il trattamento consiste nella somministrazione di supplementazione per os di Ferro, oppure nelle trasfusioni di sangue.

Uno studio ha confrontato l?effetto dell?assunzione del Solfato ferroso per os o del Ferro saccarato per via endovenosa nel trattamento dell?anemia da deficienza post-parto di ferro.

Lo studio eseguito presso il John Radcliffe Hospital di Oxford, in Gran Bretagna, ha coinvolto 44 donne con valori di emoglobina inferiori a 9g/dl e di ferritina minori di 15microg/l a 24-48 ore post-parto.

Le donne sono state assegnate in modo casuale a ricevere Solfato ferroso 200mg 2 volte die per 6 settimane oppure Ferro saccarato 200mg per via endovenosa, 2 dosi somministrate ai giorni 2 e 4.
Al quinto giorno, i livelli di emoglobina nelle donne trattate con Ferro per via endovenosa sono aumentati in media da 7.3 a 9.9g/dl, mentre non ? stato osservato nessun cambiamento nelle donne trattate con Ferro per os.

Le donne trattate con Ferro per via endovenosa presentavano significativamente pi? alti livelli di emoglobina ai giorni 5 e 14 ( p < 0.1 ) rispetto alle donne trattate con Ferro per os.
Tuttavia, dal 4? giorno non sono state osservate differenze tra i 2 gruppi.

I livelli di ferritina sono aumentati pi? rapidamente nelle donne trattate con Ferro per via endovenosa e sono rimasti significativamente pi? alti rispetto ai livelli nelle donne trattate con Ferro per os ( p < 0.01 ). I dati dello studio hanno dimostrato che il Ferro saccarato per via endovenosa aumenta i livelli di emoglobina pi? rapidamente rispetto al Ferro solfato nelle donne con anemia sideropenica postparto.
Inoltre, il Ferro saccarato per via endovenosa ? sembrato riempire pi? velocemente i depositi di ferro.

Gli Autori, viste le piccole dimensioni dello studio, ritengono che i dati dovrebbero essere riconfermati.

Bhandal N, Russell R, BJOG 2006; 113: 1248-1252

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Possibile associazione tra decadimento cognitivo e malattia celiaca

Ricercatori della Mayo Clinic a Rochester negli Stati Uniti hanno studiato i pazienti che erano affetti da malattia celiaca e che hanno sviluppato deterioramento cognitivo.

Sono stati arruolati pazienti con insorgenza di declino cognitivo entro 2 anni da un esordio sintomatico o da una grave esacerbazione di malattia celiaca, nel periodo 1970-2005.

Hanno preso parte allo studio 13 pazienti, di cui 5 donne.

L?et? mediana di insorgenza del decadimento cognitivo era di 64 anni ( range: 45-79 ), che, in 5 pazienti, ? coincisa con l?esordio di sintomi o l?esacerbazione di diarrea, steatorrea e crampi addominali.

Elementi di presentazione del decadimento cognitivo sono stati : amnesia, acalculia, confusione e cambiamenti della personalit?.

Il punteggio iniziale del Short Test of Mental Status ? stato di 28 su un totale di 38 ( range: 18-34 ), denotando un decadimento moderato.

I risultati dei test neuropsicologici hanno mostrato un trend verso un pattern fronto-subcorticale dell?alterazione cognitiva.

Dieci pazienti hanno presentato atassia e 4 di loro hanno sofferto anche di neuropatia periferica.

La risonanza magnetica per immagini ( MRI ) della testa ha mostrato iperintensit? in T2 non- specifica e l?elettroencefalografia ( EEG ) ha mostrato diffusi rallentamenti non-specifici.

In 4 pazienti sono stati riscontrati deficit di folato, vitamina B12, vitamina E, oppure un deficit combinato.
Tuttavia, la supplementazione non ha migliorato i sintomi neurologici.

Tre pazienti sono andati incontro ad un miglioramento cognitivo o a una stabilizzazione dopo sospensione del glutine.

L?analisi istologica ha evidenziato gliosi non-specifica.

Secondo gli Autori sembra esistere una possibile associazione tra deterioramento cognitivo progressivo e celiachia.

Hu WT et al, Arch Neurol 2006; 63: 1440-1446

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Screening per il tumore del colon-retto: differenza tra uomini e donne

29 Dic 2006 Oncologia
Le lineeguida sullo screening del tumore del colon-retto dovrebbero essere riviste alla luce di uno studio clinico che ha dimostrato che i polipi nel colon, ritenuti essere i precursori del tumore intestinale, sono pi? comuni negli uomini che nelle donne.

I Ricercatori del Maria Sklodowska Curie Memorial Cancer Center a Varsavia, in Polonia, hanno analizzato i dati di 50.000 volontari di et? compresa tra 40 e 60 anni, sottoposti a screening per il tumore del colon.

Il 6% dei partecipanti di et? compresa tra 50 e 60 anni presentavano neoplasia in fase avanzata ( lesioni al colon o polipi ) contro il 3,4% dei partecipanti di et? compresa tra 40 e 49 anni.
Gli uomini presentavano un rischio di neoplasia avanzata aumentato ( 73% ) rispetto alle donne.

I Ricercatori hanno stimato che tra le persone di et? compresa tra 50 e 54 anni, su 17 uomini screenati c?era 1 caso di neoplasia avanzata, mentre nelle donne il rapporto era di 28 a 1.

I risultati di questo studio contrasta con le lineeguida dell?American Cancer Society che, invece, ritiene che il carcinoma del colon-retto sia comune per gli uomini e per le donne.
Inoltre, l?American Cancer Society consiglia alle persone di et? superiore ai 40 anni e con storia familiare della malattia di sottoporsi in modo regolare ad esami mediante colonscopia, mentre per i soggetti con un rischio medio l?esame dovrebbe essere eseguito ad intervalli regolari solo dopo i 50 anni.

Fonte: The New England Journal of Medicine, 2006

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