Dieta ricca in carboidrati ma con basso indice glicemico riduce rischio cardiova

Una dieta ricca in carboidrati con un basso indice glicemico ? la migliore per la riduzione del rischio cardiovascolare: ? forse il momento di incorporare i concetti di indice glicemico e carico glicemico nella pratica clinica per la riduzione del rischio cardiovascolare. Nonostante la popolarit? delle diete a basso indice glicemico e ricche in proteine, non vi sono stati finora studi randomizzati che abbiano paragonato sistematicamente i loro effetti relativi sulla perdita di peso e sul rischio cardiovascolare. Un elevato carico glicemico potrebbe aumentare la difficolt? del controllo del peso perch? i carboidrati rapidamente digeribili possono causare marcate fluttuazioni nei livelli ematici di glucosio ed insulina, il che a sua volta stimola la fame ed inibisce l’ossidazione dei grassi. Sia le diete a basso indice glicemico che quelle ricche in proteine hanno catturato l’attenzione del pubblico, ma i medici rimangono scettici, in mancanza di basi scientifiche solide. In base ai risultati del presente studio, almeno a breve termine, ? il carico glicemico, e non soltanto l’apporto energetico complessivo, ad influenzare la perdita di peso e la glicemia postprandiale: moderate riduzioni nel carico glicemico aumentano il tasso di smaltimento dei grassi, in particolare nelle donne. Sono in aumento i dati secondo cui la glicemia postprandiale ? un importante fattore di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari, che possono essere controllate tramite mezzi sia farmacologici che dietetici che ritardino l’assorbimento gastrointestinale dei carboidrati

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Rinite purulenta acuta: antibiotici spesso inutili

Gli antibiotici possono essere utili per la rinite purulenta acuta, ma possono anche risultare dannosi: molti pazienti peraltro migliorano anche senza antibiotici, e pertanto ? opportuno inizialmente non somministrarne. La maggior parte delle linee guida raccomandano di non usare antibiotici per questa patologia, ma un recente studio aveva indicato che l’uso di alcuni antibiotici potrebbe ridurre la durata della malattia, anche se non porterebbe a miglioramenti significativi nei sintomi. L’abuso di antibiotici, comunque, ? motivo di preoccupazione a causa della possibilit? della comparsa di resistenze.

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Una chance in pi? nel carcinoma mammario avanzato

16 Ago 2006 Oncologia
La notizia. Si ? tenuta recentemente a Milano l?ottava edizione della ?Milan Breast Cancer Conference?, congresso internazionale sulle terapie del tumore della mammella. Tra i vari temi discussi, l?ormonoterapia ha senz?altro avuto un posto rilevante. Negli ultimi tempi, infatti, questo tipo di terapia ha subito profondi cambiamenti: l?uso sempre pi? frequente e affermato in terapia adiuvante (nella fase precoce del carcinoma della mammella) degli inibitori dell?aromatasi in postmenopausa ha creato la necessit? di avere nuove opzioni da poter utilizzare nella fase avanzata del tumore, quando si evidenzia un numero sempre pi? grande di fenomeni di resistenza sia a tamoxifene, l?antiestrogeno per eccellenza, che agli inibitori stessi.

Approfondimento. In quest’ambito Angelo Di Leo, responsabile dell’Unit? di Oncologia medica dell’Ospedale di Prato, ha presentato fulvestrant, il capostipite di una nuova classe di antiestrogeni con un diverso meccanismo d?azione rispetto al tamoxifene, in grado di determinare un blocco recettoriale completo con conseguente eliminazione di qualsiasi attivit? agonista, presente invece con tamoxifene. Questa nuova molecola ? in grado, legandosi ai recettori per gli estrogeni, di provocarne una modificazione e successivamente la distruzione riducendone cos? i livelli presenti nella cellula in modo persistente. L?effetto di fulvestrant ? triplice:

? si lega in modo selettivo al recettore per gli estrogeni (maggiore rispetto al tamoxifene),

? inibisce le funzioni AF1 e AF2 coinvolte nel processo di trascrizione,

? accelera la distruzione del recettore (fenomeno di downregulation),

portando in questo modo al blocco della trascrizione.

Di Leo ha inoltre presentato i risultati degli studi clinici di fase III di confronto tra fulvestrant e anastrozolo, inibitore dell?aromatasi non steroideo, in donne in postmenopausa con carcinoma della mammella in fase avanzata gi? trattati con ormonoterapia. Fulvestrant si ? dimostrato efficace almeno tanto quanto anastrozolo sia in termini di beneficio clinico che in tempo alla progressione, la cui mediana ? risultata di 5,5 mesi con fulvestrant e 4,1 con anastrozolo ad un follow-up mediano di 15 mesi (p=0,45). Ha inoltre presentato i nuovi studi in corso con questo farmaco disegnati anche in base alle nuove acquisizioni sui fenomeni di resistenza a tamoxifene e agli inibitori dell?aromatasi che comprendono:

? studi di confronto e di associazione con un inibitore dell?aromatasi,

? studi con dosi maggiori di fulvestrant,

? studi di associazione con ?targeted therapies?,

? studi in adiuvante.

Con fulvestrant viene data un?ulteriore possibilit? di posticipare l?uso della chemioterapia, migliorando cos? la qualit? di vita delle pazienti ormonoresponsive con carcinoma della mammella in fase avanzata.

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Diabete precoce connesso a nefropatia terminale e mortalit? precoce

Rispetto a coloro che lo sviluppano successivamente, i soggetti che sono diabetici dall’et? di 20 anni o prima ancora hanno maggiori probabilit? di sviluppare nefropatie terminali e di morire in un’et? compresa fra 25 e 55 anni. Dato che il diabete ad insorgenza giovanile porta ad un aumento sostanziale del tasso di complicazioni e mortalit? nella mezza et?, ? necessario impegnarsi nel prevenire o ritardare l’insorgenza del diabete, ritardando pertanto anche l’insorgenza della nefropatia diabetica. Attualmente, l’aumento dell’obesit? infantile in molte parti del mondo sta portando all’aumento della prevalenza del diabete di tipo 2. bench? solo il tre percento dei casi di diabete di tipo 2 insorgano entro i 20 anni, il diabete ad insorgenza giovanile ? connesso a complicazioni microvascolari nella prima et? adulta. Il diabete giovanile inoltre ? dannoso per i reni quanto quello dell’anziano. Nei bambini ad alto rischio di diabete, per?, i programmi dimagranti basati su dieta ed esercizio possono ridurre il tasso di sviluppo del diabete del 58 percento.

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Mononucleosi e linfoma di Hodgkin

14 Ago 2006 Oncologia
Esiste una correlazione tra mononucleosi da virus di Epstein-Barr e successivo sviluppo di linfoma di Hodgkin? (Ann Hematol 2006, 85: 463-8).
Statisticamente, da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2003, ? stato stimato un rischio di sviluppare un linfoma di Hodgkin dopo mononucleosi nell’ordine di 1 caso su 1000. Il virus di Epstein-Barr (EBV) sembra avere un ruolo nella patogenesi e nella prognosi del linfoma di Hodgkin.
Il virus di Epstein-Barr ? un herpes-virus che infetta oltre il 90% degli adulti, si trasmette tramite la saliva e le secrezioni orofaringee ed ? l’agente eziologico responsabile della mononucleosi infettiva.
La mononucleosi infettiva pu? presentarsi in forma asintomatica o con faringite lieve, caratteristica dei neonati e dei bambini, o in forma tipicamente sintomatica, comune nei giovani-adulti dopo un periodo di incubazione di 4-6 settimane, con febbre, faringite, linfoadenopatie soprattutto laterocervicali, epato-splenomegalia, astenia.
La diagnosi si pone mediante il rilievo sierologico degli anticorpi specifici anti EBV IgM ed attualmente non esiste un trattamento antivirale specifico.
Il linfoma di Hodgkin (LH) rappresenta il 25% di tutti i linfomi, l’1% di tutte le neoplasie maligne, mostra un’incidenza di 8000 nuovi casi/anno che corrisponde nel mondo occidentale a 3 nuovi casi per 100.000 abitanti con una mortalit? che si attesta attorno a 0,55 per 100.000 abitanti. LH colpisce prevalentemente i giovani-adulti in pi? del 40% dei casi con un picco d’incidenza maggiore tra i 15-30 anni e un secondo picco tra i 60-74 anni d’et?.
Clinicamente il linfoma di Hodgkin pu? presentarsi in forma di variet? A (asintomatico) o variet? B (febbre o febbricola, sudorazioni profuse, calo ponderale, prurito sine materia), all’esame obiettivo si notano linfoadenomegalie asimmetriche, soprattutto in sede laterocervicale (90%), e nei giovani-adulti anche in sede mediastinica (76%) o lomboaortica (49%).
All’esame obiettivo si presentano delle masse linfonodali indolenti, tendenzialmente riunite in pacchetti, duro-lignee, ipomobili sui piani profondi e superficiali, con cute sovrastante solitamente normale.
Localizzazioni extranodali possono essere quelle polmonari, mediastiniche (con reperto di tosse secca e dispnea) anche di notevoli dimensioni ?bulky? (diametro 6 cm) ed epatiche. Infiltrazione ossea e osteomidollare pu? essere presente da diffusione del linfoma rispettivamente per continuit? o per via ematogena.
La diagnosi ? istologica sulla biopsia linfonodale che identifica la tipica cellula di Reed-Sternberg. Il LH pu? presentare 4 sottotipi cellulari: sclerosi nodulare 50-70%, cellularit? mista 15-35 %, prevalenza linfocitaria 5% e deplezione linfocitaria 4%.
La stadiazione segue la classificazione in 4 stadi di Ann-Arbor (tabella 1) e viene stabilita attraverso diverse indagini strumentali quali RX torace, TC, ecografia addominale, Scintigrafia ossea, PET, Biopsia ossea, Biopsia Linfonodale.
La terapia del linfoma di Hodgkin si basa su vari schemi di radioterapia, chemioterapia e radiochemioterapia; l’85% dei pazienti ? curabile. L’impostazione della terapia viene stabilita valutando i fattori prognostici e lo stadio della malattia (tabella 2). La terapia deve comunque essere aggressiva fin dall’inizio, soprattutto se coesistono fattori prognostici sfavorevoli (Tabella 3). Nel 35% dei casi si osservano ricadute. La percentuale di guarigione dei pazienti allo stadio I e II ? circa del 90%, mentre allo stadio III e IV si ? in grado di ottenere una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni del 60-70%.
Relazione tra EBV e LH
La partecipazione di EBV nella patogenesi del linfoma di Hodgkin (LH) ? stata suggerita da diversi studi. E’ stata identificata una infezione latente da EBV nel 41 % dei casi di LH.
La cellula di Reed-Stenberg (HRS) espone una forma di tipo-II di stato latente con l’espressione virale dell’antigene limitata all’antigene nucleare di EBV (EBNA) 1, proteina latente della membrana LMP1 e LMP2 cos? come i trascritti dell’ EBV-RNA codificato EBER1 ed EBER2.
LMP1 ? il maggior effettore del cambiamento cellulare virus-indotto. Gli effetti di trasformazione di LMP1 e la sua elevata espressione nella cellula di Reed-Stenberg dei Linfomi di Hodgkin EBV-associati implicano un ruolo per questa proteina nella patogenesi di Linfomi di Hodgkin EBV-positivi e suggeriscono importanti differenze biologiche nei LH che possono essere dipendenti dalla condizione di EBV.
Molti studi riportano un effetto prognostico significativo dell’infezione da EBV in sottogruppi di LH:
? Enblad et al hanno dimostrato in pazienti con linfoma di Hodgkin che la positivit? ad EBV ? correlata con una sopravvivenza minore rispetto ai pazienti EBV-negativi.
? Jarret et al. h anno dimostrato la relazione et?-dipendente tra EBV e linfoma di Hodgkin, osservando una sopravvivenza aumentata per i pazienti EBV-negativi se paragonati con gli EBV-positivi, limitatamente ai pazienti con et? avanzata.
? Flavell et al . hanno riportato invece che la positivit? a EBV era correlata ad una prognosi favorevole, limitatamente alle categorie dei maschi e giovani adulti.
? Altri studi su coorti pi? grandi hanno dimostrato una correlazione negativa fra lo status di EBV e la sopravvivenza generale, specialmente in pazienti in stadio avanzato e variet? a sclerosi nodulare.
? I pazienti EBER-positivi paragonati con gli EBER-negativi, con linfoma di Hodgkin, avevano pi? probabilit? di presentare il sottotipo a variet? mista (56,5% vs 24,2%, P=0,014). I linfomi di Hodgkin EBER-positivi hanno presentato una maggiore prevalenza di stadi avanzati (stadio III+IV) al momento della diagnosi (73,9% vs 45,5%, P=0.034).
? I pazienti EBER-negativi o LMP1-negativi hanno presentato sopravvivenza pi? favorevole rispetto ai pazienti EBER-positivi o LMP1-positivi in un gruppo d’et? superiore a 25 anni.
Conclusioni
I pazienti con LH pi? giovani (et? < 25 anni) con infezione latente da EBV tendono ad avere una maggiore sopravvivenza, mentre i pazienti meno giovani (et? >25 anni) con infezione da EBV tendono ad avere una minore sopravvivenza.
Va rilevata la tendenza generale ad una sopravvivenza minore per i pazienti EBER-positivi. La ridotta sopravvivenza dei pazienti EBER-positivi potrebbe essere dovuta alla pi? alta frequenza di fattori prognostici quali il sesso maschile, l’et? avanzata, lo stadio avanzato ed i sintomi B in questo sottogruppo di pazienti. La positivit? per EBER ? stata infatti osservata pi? frequentemente nel sottotipo a cellularit? mista (MC) e negli stadi avanzati.
L’infezione da EBV ? associata ad una variet? di disordini linfoproliferativi, come il linfoma di Burkitt, linfoma periferico a cellule T e linfoma di Hodgkin.
La cellula di Reed-Stenberg mostra una forma di latenza di tipo II con espressione di EBER e LMP1. Considerando la forte espressione di LMP1 nella cellula di Reed-Stenberg, ? probabile che LMP1 sia un fattore patogenetico del linfoma di Hodgkin EBV-positivo.
LMP1 funziona come recettore essenzialmente attivato del TNF e molti degli effetti di trasformazione fenotipica e di crescita di LMP1 sono il risultato della sua capacit? di attivare una variet? di vie di segnali, includendo NF-kB. L’attivazione di NF-kB ? una caratteristica della cellula di Reed-Stenberg con conseguente sovraespressione osservata in cellule di linfonodi infiltrate dal linfoma di Hodgkin.
Krappmann ed al riportano una implicazione di NF-kB sia nell’induzione della proliferazione cellulare che nell’inibizione dell’apoptosi nelle cellule di Reed-Stenberg. Cos?, considerando l’influenza delle proteine latenti di EBV ed il loro ruolo potenziale nel corso e nelle caratteristiche della malattia, potrebbero essere importanti per lo studio di nuove terapie mirate.
In conclusione, sembra che l’infezione latente da EBV sia associata a caratteristiche cliniche specifiche del linfoma di Hodgkin ed i pazienti con linfoma di Hodgkin EBER-positivo tendano ad una sopravvivenza generale minore.

Fonti bibliografiche
? HARRISON, PRINCIPI DI MEDICINA INTERNA – IL MANUALE – 16? EDIZIONE , 2005, Mc Graw-Hill, pp. 330-333; 579-582.
? ROBBINS & COTRAN, LE BASI PATOLOGICHE DELLE MALATTIE , 2005, pp. 686-690.
? S. TURA, LEZIONI DI EMATOLOGIA , Societ? Editrice Esculapio, 2003, pp. 352-362.
? A.R. BIANCO, MANUALE DI ONCOLOGIA CLINICA , 2003, Mc Graw-Hill pp. 211-219.

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Coinfezione Hiv-Hcv e steatosi

Nei pazienti con coinfezione Hiv-Hcv, la steatosi epatica ? prevalente ed ? associata all’uso di analoghi nucleosidici, infezione con Hcv di genotipo 3 e fibrosi. L’associazione con i farmaci indicati ? biologicamente sensata, in quanto ? noto che questi agenti abbiano una grande affinit? per la DNA-polimerasi gamma mitocondriale, ed attraverso questa via possano indurre tossicit? mitocondrale, che pu? manifestarsi in forma di steatosi microvescicolare. I dati del presente studio implicano che i pazienti con coinfezione Hiv-Hcv debbano essere presi in considerazione per la terapia dell’epatite C, in particolare se sono portatori di virus con genotipo 3, in quanto questo agente risponde bene al trattamento. Il sospetto di steatosi epatica dovrebbe essere un’ulteriore indicazione per l’ottenimento di un campione bioptico del fegato nei pazienti che iniziano regimi antiretrovirali contenenti NRTI. Il presente studio ha rafforzato la connessione fra uso di NRTI e steatosi. Nel trattamento clinico della coinfezione Hiv-Hcv, soprattutto in presenza di steatosi, le cosiddette -D-drugs- dovrebbero essere usate con cautela.

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Sintomi inspiegabili, messo a punto un protocollo d’intervento

La notizia. Pronto Soccorso affollati da pazienti con sintomi apparentemente inspiegabili che causano problemi gestionali, costi ingenti e frustrazione? Una realt? che forse in futuro potr? essere affrontata con efficienza grazie al protocollo d?intervento messo a punto dai ricercatori della Michigan State University, che hanno illustrato il loro metodo sul Journal of General Internal Medicine. ?La diagnosi di sintomi medici apparentemente inspiegabili ? un problema che riguarda milioni di pazienti in tutto il mondo e pesa su sistemi sanitari gi? sull?orlo del collasso?, spiega Robert Smith, professore di Medicina alla Michigan State University (MSU). Smith ed il suo team hanno messo a punto un protocollo d?intervento che comprende modifiche comportamentali e terapie farmacologiche, ma soprattutto robuste dosi di comunicazione tra medici e pazienti. Lo studio. E? emerso dallo studio effettuato dal team della Michigan State University che in media i pazienti che presentano sintomi inspiegabili ricorrono al Pronto Soccorso 13 volte l?anno lamentando di volta in volta emicranie, affaticamento, dolori muscolo-scheletrici, sintomi gastrointestinali. Oltre a suggerire di guardare alle radici profonde del dolore o dei disturbi dei pazienti, il protocollo MSU suggerisce la somministrazione di antidepressivi e di terapie comportamentali che incidono sul modo in cui i pazienti percepiscono il loro malessere. Testato su 100 pazienti di Pronto Soccorso, il protocollo ha permesso di ottenere un significativo miglioramento dei sintomi in circa la met? dei casi. ?Abbiamo semplicemente messo in pratica tutto quello che negli ultimi anni abbiamo imparato nel campo della Psichiatria e della terapia del dolore?, spiega Smith, ?e lo abbiamo adattato alle necessit? della Medicina d?emergenza. Ma al centro di tutto c?? la relazione medico-paziente. Viviamo e lavoriamo in un sistema basato sulle patologie, e i sintomi non immediatamente attribuibili a patologie precise sono una fonte di forte frustrazione per i medici e per i pazienti che si sentono non assistiti?.

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Nuove tecniche di imaging per lo studio e la diagnosi della cardiopatia ischemic

11 Ago 2006 Cardiologia
Introduzione
Da oltre trenta anni l’esame diagnostico che costituisce il gold-standard per il riconoscimento della malattia ostruttiva coronarica ? l’esame angiocoronarografico, utilizzato in maniera sempre pi? diffusa negli ultimi anni soprattutto in Nord America ma anche nei paesi europei. Alcuni esami di tipo non invasivo sono di solito utilizzati in prima istanza nello studio della cardiopatia ischemica come il test ergometrico o le tecniche di stress-imaging quali l’ecocardiografia e la scintigrafia miocardica perfusionale da stress fisico o farmacologico, ma frequentemente la conferma della patologia occlusiva con le indicazioni alle modalit? di rivascolarizzazione del miocardio necessita dell’esame angiocoronarografico, che ? sempre un test invasivo che prevede l’introduzione di un catetere intracardiaco, la somministrazione di mezzo di contrasto intraarterioso, l’esposizione a radiazioni e il conseguimento di immagini radiografiche monoplanari, con le quali ? possibile sottostimare o sovrastimare alcune occlusioni del lume coronario di tipo eccentrico.
Nuove metodiche
Negli ultimi tempi nuove interessanti metodiche si sono proposte all’attenzione dei cardiologi per lo studio della malattia coronarica ed alcune sono ormai entrate nell’armamentario clinico dei centri pi? all’avanguardia in questo campo. Un’interessante review pubblicata sul Canadian Medical Association Journal fa il punto su caratteristiche, attuale utilizzo e prospettive future di tre nuove tecniche di imaging diagnostico di grande interesse come l’ ultrasonografia intravascolare, la tomografia assiale computerizzata multi-slice e la risonanza magnetica per lo studio delle coronarie.
Ultrasonografia intravascolare
L’ultrasonografia intravascolare o ecografia intracoronarica ? un esame invasivo utilizzato di solito a completamento della angiocoronarografia che si avvale dell’utilizzo di una piccola sonda ad ultrasuoni montata sulla punta di un catetere che viene indirizzato nell’albero coronarico sino a superare la lesione aterosclerotica e mentre viene ritirato ? in grado grazie ad una rotazione del fascio di ultrasuoni di fornire un’immagine ecografica ricostruita in maniera biplana del lume vascolare visto nella sua circonferenza interna invece che dall’esterno. I vantaggi principali sono rappresentati da una migliore valutazione del grado di stenosi del lume coronarico e dal riconoscimento del tipo di placca presente, importante per valutare l’instabilit? della placca e quindi il grado di rischio. Si possono infatti riconoscere placche soffici (con poco calcio e collagene ed a prevalente contenuto lipidico), placche fibrose (con grado intermedio delle due componenti sopra citate), placche calcifiche (con elevato contenuto di calcio) e placche miste. Un contributo estremamente importante di tale metodica ? emerso nell’indicazione e nella valutazione dei risultati della rivascolarizzazione mediante applicazione di stent intracoronarici con angioplastica. ? infatti assai utile nel riconoscere le lesioni complesse o quelle dubbie alla coronarografia o delle biforcazioni o del tronco comune che possono essere trattate con migliori risultati con angioplastica e stent, ed ? la tecnica pi? sensibile nel riconoscimento delle restenosi (uno dei problemi principali degli stent) prevalentemente dovute ad una iperplasia neointimale, visibile come un tessuto fibrotico neoformato che cresce all’interno del vaso dilatato e lo riocclude. Un ulteriore campo di applicazione, interessante, soprattutto per sviluppi futuri, ? il riconoscimento precoce di placche aterosclerotiche a rischio in soggetti sintomatici con ostruzioni di entit? minima o lieve all’esame coronarografico.

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Angio-TAC multistrato nella diagnosi di embolia polmonare acuta

10 Ago 2006 Cardiologia
Le probabilit? di successo terapeutico in caso di embolia polmonare (EP) acuta sono strettamente correlate alla tempestivit? della diagnosi. Anche per questo si avverte in maniera sempre pi? pressante l’esigenza di ottenere dati attendibili sulla accuratezza diagnostica in questa patologia di svariate tecniche di imaging. Dunque si procede alla ricerca del test ideale.
Tale esigenza appare motivata oltretutto dal fatto che la diagnosi di EP su basi puramente cliniche pu? rivelarsi fallace perch? gravata da una percentuale elevata di falsi negativi, ma anche di falsi positivi.
Nello studio Prospective Investigation of Pulmonary Embolism Diagnosis (PIOPED II), appena pubblicato sul New England Journal of Medicine , sono state valutate in prima istanza sensibilit? e specificit? della angio-TAC polmonare multistrato nella diagnosi di EP . Considerando l’importanza del rilievo di una trombosi venosa profonda, a sostegno ulteriore della diagnosi di EP, si ? tentato anche di stabilire se la visualizzazione venografica (ottenuta estendendo lo studio angio-TAC alla fase venosa) fosse in grado di incrementare il valore predittivo di questa tecnica.
Il protocollo di studio, per la verit? abbastanza complesso, ha coinvolto oltre 800 pazienti (prevalentemente donne con et? media di poco superiore a 51 anni) selezionati in base ad una batteria di test, clinici (punteggio di Wells) e strumentali fra cui una scintigrafia polmonare ventilo-perfusoria, da molti ritenuta il gold standard per la diagnosi di EP e, in alcuni casi, una angiografia polmonare digitale.
La diagnosi cos? formulata (192 casi positivi e 632 negativi) veniva quindi posta al vaglio della angio-TAC, ottenuta sia con la tecnica standard che con l’aggiunta della fase venosa. I risultati hanno evidenziato una sensibilit? della tecnica standard pari all’83% con una specificit? del 96%, laddove lo studio della fase venosa permetteva di incrementare notevolmente la sensibilit?, portandola al 90%, lasciando praticamente inalterata la specificit? (95%). Per entrambe le tecniche ? stato osservato un numero elevato di diagnosi non conclusive (rispettivamente 51 e 87 casi) essenzialmente a causa della cattiva qualit? dell’immagine. Tale inconveniente, a giudizio degli autori, potrebbe essere parzialmente ovviato dall’impiego di scanner di ultima generazione, in grado di ottenere immagini ad 8 o 16 strati.
Tuttavia, come previsto, il valore predittivo positivo dell’angio-TAC, sia standard sia con studio aggiuntivo della fase venosa, risultava elevato (rispettivamente nel 96% e nel 92%) solo nei casi in cui la valutazione clinica preliminare forniva una probabilit? alta o intermedia di EP acuta, ma si riduceva considerevolmente in presenza di una bassa probabilit? diagnostica, addirittura con un 42% di falsi positivi.
Nell’ipotesi in cui, dunque, non esiste concordanza fra la valutazione clinica e le immagini fornite da questa tecnica, per dirimere il dubbio diventa indispensabile il ricorso ad ulteriori test diagnostici, fra cui ad esempio il dosaggio del D-dimero.
Fonte
Stein PD, Fowler SE, Goodman LR, et al,
Multidetector Computed Tomography for Acute Pulmonary Embolism.
N Engl J Med 2006; 354 (22): 2317-2327

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La Creatina e la Minociclina sembrano essere benefiche nel trattamento della mal

Uno studio condotto dai Ricercatori del NINDS NET-PD che ha coinvolto 200 pazienti con malattia di Parkinson ha mostrato che la Creatina e la Minociclina possono essere utili nei pazienti con Parkinson.
Tuttavia, non ? stato dimostrato che questi farmaci siano efficaci nella malattia di Parkinson.

Il National Institute of Neurogical Disorders and Stroke ( NINDS ), appartenente al National Institutes of Health ( NIH ), ha organizzato uno studio denominato NET-PD ( Neuroprotection Exploratory Trials in Parkinson Disease ) per valutare se alcune sostanze fossero in grado di rallentare il declino clinico della malattia di Parkinson.

I pazienti coinvolti nello studio erano in una fase preliminare della malattia e non necessitavano di farmaci per il controllo dei sintomi.

I pazienti sono stati assegnati in modo casuale a ricevere Minociclina 200mg/die, Creatina 10g/die oppure placebo.
Il periodo osservazionale ( follow-up ) ? stato di 12 mesi.

E? stata esaminata la sicurezza e la tollerabilit? di questi farmaci.

Sebbene nessun farmaco abbia causato gravi effetti indesiderati, la Minociclina non ? risultata ben tollerata.

Sia la Creatina che la Minociclina sono apparse modificare le caratteristiche della malattia, anche se lo studio non aveva come finalit? quella di verificare l?efficacia delle due sostanze nel trattamento della malattia di Parkinson.
L?obiettivo prefissato era quello di verificare se ci fossero indicazioni all?uso della Creatina e della Minociclina in questa malattia neurologica.

Sulla base delle analisi degli studi pilota, la Creatina e la Minociclina sembrano avere un ruolo benefico nella malattia di Parkinson.

Fonte: National Institutes of Health, 2006

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