Alcuni meccanismi genetici che aumentano l’HDLc non sembrano abbassare il rischio di infarto del miocardio (IM). Questi dati contraddicono il concetto che aumentare l’HDLc significhi automaticamente ridurre il rischio di IM, ed emergono da un ampio studio internazionale al quale hanno partecipato anche alcuni ricercatori italiani. Il team di ricercatori ha provveduto a
analizzare il polimorfismo di un singolo nucleotide (single nucleotide poymorphysm – SNP) nel gene endoteliale della lipasi (LIPG Asn396Ser), strettamente legato alla produzione di HDLc ed ha testato questo polimorfismo in 20 studi con più di 20.000 casi di IM vs 95.000 controlli
testare, utilizzando uno score genetico consistente in 14 comuni polimorfismi associati a HDLc, lo score stesso su 12.482 casi di IM vs 41.331 controlli
testare uno score genetico di 13 polimorfismi comuni esclusivamente associati con LDLc.
I risultati hanno evidenziato che i portatori del gene LIPG Asn396Ser, come peraltro previsto, avevano maggiori livelli di HDLc, livelli simili di altri fattori di rischio lipidico e non lipidico per IM, ma – e qui sta il dato inquietante – i maggiori valori di HDLc non erano associati ad un minore rischio di IM (p=0.85), convinzione ormai acquisita da studi osservazionali in cui un aumento di 1 DS nel HDLc era associato ad una riduzione del rischio di IM (OR 0.62, 95% IC 0.58-0.66). Per l’LDLc invece i risultati dello score concordano con quelli degli studi osservazionali, per cui abbassare l’LDLc abbassa effettivamente il rischio cardiovascolare. Il risultato pratico dello studio è rilevante: questo nuovo strumento genetico ci dice che esistono ampie categorie di individui nei quali un aumento dell’ HDLc non significa automaticamente diminuzione del rischio di IM. Ciò non vuol dire che l’HDLc non abbia un effetto protettivo, ma mentre tutti i dati confermano che ha un senso abbassare l’LDLc, non si sa fino a che punto abbia senso una ricerca spasmodica di farmaci che possano aumentare il HDLc.
Voigh BJ et al. The Lancet Published Online May 17, 2012 DOI:10.1016/S0140
All’European Meeting on Hypertension 2012 è stata presentata la ricerca di un gruppo italiano sugli effetti benefici che il grana padano avrebbe sulla pressione arteriosa. Responsabili ne sarebbero due tripeptidi prodotti dalle proteinasi del Lactobacillus Helveticus, di cui è documentata un’attività ACE inibitoria. Gli autori hanno selezionato 29 soggetti in terapia antipertensiva che non assumevano ACEI o sartani ed hanno integrato la loro dieta con 30 g di grana padano per due mesi, senza alterare l’apporto calorico totale. Sono state effettuate le rilevazioni della pressione con metodiche office, office automatica, ABPM 24 h. Lo studio era in aperto vs un gruppo di controllo di 16 pazienti. Dopo il trattamento non si sono verificate variazioni nel BMI, nel colesterolo totale e HDL, trigliceridi, glicemia, Na e K, nella sodiuria; i soggetti che avevano assunto il grana padano mostravano una diminuzione media della PAS di 8 mmHg (p = 0.012) e della PAD di 7 mmHg (p = 0.021) rispetto ai controlli, indipendentemente dalla metodica di misurazione utilizzata: i risultati raccolti sono comparabili a quelli dei farmaci e superiori a quelli ottenuti con la sola restrizione del sodio alimentare. I risultati migliori si sono ottenuti con i formaggi mediamente invecchiati (9-12 mesi) perché in quel periodo la concentrazione dei tripeptidi responsabili dell’effetto ACEI è maggiore. Riguardo ai dubbi sull’eccessivo apporto di acidi grassi saturi e sodio col formaggio, gli AA fanno notare che questo tipo di formaggio non è particolarmente ricco di grassi o di Na, almeno in confronto con altri alimenti consumati: 30 g di grana padano contengono 128-129 mg di Na e 6 g di grassi (4 g saturi, 2 g insaturi). Purtroppo nei pazienti che già assumono ACEI o sartani l’effetto non è additivo. Lo studio è in aperto, ha una numerosità limitata ed è di breve durata; certamente necessita di ulteriori verifiche e necessitano studi crossover in doppio cieco, ma sicuramente l’argomento è originale e stimolante.
Crippa G et al. Dietary Integration with Grana Padano cheese effectively reduces blood pressure in hypertensive patients. J Hypertension2012; 30 (e-Supplement A): e376
Il boceprevir (B) e il telaprevir (T) sono farmaci antivirali che inibiscono la proteasi NS3/4A, enzima fondamentale per la replicazione del virus dell’epatite C (HCV). Sono stati condotti in passato studi controllati di fase III, nei quali B o T erano associati alla terapia standard con interferone-pegilato e ribavirina (Peg+Rib). Questi studi avevano documentato – in pazienti con malattia epatica cronica da HCV genotipo 1 che non avevano ricevuto alcun trattamento specifico ed in pazienti che con Peg+Rib non avevano ottenuto una risposta virologica sostenuta (SVR) bensì una risposta nulla o soltanto parziale, oppure che erano andati incontro a una recidiva – un incremento significativo del numero delle SVR, in alcuni bracci sperimentali anche a livello doppio rispetto ai controlli. Questi risultati, tra l’altro indipendenti dal livello basale di fibrosi, sono da considerarsi assai favorevoli, anche se la popolazione degli studi aveva un’età media inferiore rispetto a quella dei pazienti abitualmente osservati nella pratica clinica. Inoltre il numero dei pazienti con cirrosi compensata era davvero basso ed era perciò legittimo essere cauti nel ritenere che in essi si possono raggiungere livelli di SVR analoghi a quelli dei pazienti con score METAVIR non indicativo di cirrosi (nei quali la SVR si associa all’arresto della evoluzione della malattia con prevenzione della cirrosi. In base a questi studi i due farmaci sono stati autorizzati alla vendita negli USA e nella Comunità Europea e si attende perciò a breve termine che essi siano commerciabili anche in Italia. Essendo i farmaci già disponibili nell’UK, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) ad aprile 2012 ha elaborato articolate linee guida (LG) per il loro impiego. Da tali LG possono essere selezionate le seguenti raccomandazioni, che appaiono di particolare interesse per la pratica clinica
B e T, in combinazione con Peg+Rib, costituiscono un’opzione negli adulti con epatite cronica e cirrosi epatica scompensata da HCV genotipo 1, mai trattati o con fallimento di una precedente terapia
B va impiegato per os alla dose di 800 mg/tid per un periodo di 44 settimane dopo una fase di lead-in con Peg+Rib della durata di 4 settimane; in alcune particolari condizioni possono essere effettuati cicli di terapia più brevi in base all’accertamento di una precoce SVR o dell’inefficacia della terapia
T va invece impiegato alla dose di 750 mg/tid per 12 settimane; al termine di questo primo ciclo terapeutico si prenderà la decisione circa l’opportunità e le modalità di prosieguo della terapia
la triplice terapia comporta un notevole aumento dei costi rispetto alla terapia con solo Peg+Rib; il rapporto costo/beneficio della terapia si mantiene ad un livello accettabile in rapporto al guadagno di Qaly; nella valutazione economica vanno tenute presenti anche la riduzione dei costi diretti e indiretti conseguente al possibile arresto dell’evoluzione della malattia e la riduzione del rischio della trasmissione dell’infezione ai soggetti sani
l’evento avverso più importante del B è l’accentuazione dell’anemia già correlata alla Rib; tuttavia nella maggioranza dei casi non è necessario ricorrere all’impiego dell’eritropoietina, ma può essere sufficiente una riduzione progressiva della posologia della Rib; altro frequente evento avverso da B è la disgeusia
anche la T può causare un incremento dall’anemia, ma di entità minore rispetto al B; gli effetti secondari indesiderati più frequenti ed importanti di T sono invece i disturbi anorettali e il rush cutaneo, che rischiedono spesso specifici interventi terapeutici
non sono previste decisioni differenti, rispetto al passato, per i tossicodipendenti, gli alcolisti ed i coinfetti HCV/HIV.
Si può pertanto considerare la triplice terapia Peg+Rib+B o T come prima opzione terapeutica anche nei soggetti mai trattati. Ma l’incremento degli effetti collaterali indesiderati, la necessità di ingerire un gran numero di compresse ed i costi elevati fanno ritenere opportuno continuare nella ricerca di ulteriori terapie per le epatopatie croniche da HCV, genotipo 1 in particolare.
Telaprevir for the treatmentnt of genotype 1 chronic hepatitis C.NICE technology appraisal guidance 252. Aprile 2012 Boceprevir for the treatment of genotype 1 chronic hepatitis C.NICE technology appraisal guidance 253. Aprile 2012
Molti macrolidi hanno effetti proaritmici, per cui vengono associati al rischio di morte improvvisa. Per contro l’azitromicina viene generalmente considerata come poco o punto cardiotossica, ma recenti reports riferiscono che anch’essa può avere un carattere proaritmico ed aumentare perciò il rischio di morte cardiovascolare e di morte improvvisa. Per chiarire questo problema, sul NEJM è stata recentemente pubblicata un’analisi retrospettiva su pazienti che hanno utilizzato azitromicina ed altri antibiotici. Secondo le conclusioni dello studio i pazienti che durante 5 giorni di terapia utilizzavano azitromicina, rispetto a quelli che non assumevano antibiotici, andavano incontro
ad un significativo aumento della morte cardiovascolare (HR 2.88; p < 0.001)
ad un aumento della mortalità totale (HR 1.85; p = 0.002).
Simili risultati si sono avuti confrontando l’azitromicina con l’amoxicillina: si sono stimate 47 morti cardiovascolari in più per milione di cicli di terapia e i pazienti più a rischio erano quelli che in condizioni basali erano già compromessi, con 245 morti stimate in più per milione di cicli terapeutici. Anche nei confronti della ciprofloxacina il rischio è risultato maggiore, ma non nei confronti della levofloxacina. Bisogna chiarire che il rischio non persiste dopo la cessazione della terapia, perché le concentrazioni seriche di azitromicina calano molto rapidamente, nonostante rimangano alte nei tessuti ancora per molti giorni. In conclusione, durante 5 giorni di terapia con azitromicina si è verificato un piccolo aumento del rischio assoluto di morti cardiovascolari: questo rispetto alla terapia senza antibiotici, ma anche nei confronti della terapia con amoxicillina, ed è risultato particolarmente elevato nei pazienti già ad alto rischio cardiovascolare in condizioni basali.
In altre occasioni ci siamo occupati del sospetto che gli ARBs (per la loro interferenza con i recettori dell’angiotensina II coinvolti nell’angiogenesi) possano avere una qualche responsabilità nello sviluppo del cancro. Il dubbio era stato sollevato dallo studio CHARMS, e da allora sono stati pubblicati vari studi a favore e contro tale ipotesi. Recentemente dati metanalitici dell’ARB Trialists Collaboration, piuttosto solidi, hanno concluso che nulla emerge in questo senso: il rischio è simile per gli ACE-inibitori (ACE-I), gli ARBs e per l’associazione. Recentemente il BMJ ha dato un ulteriore contributo a favore degli ARBs, pubblicando un lavoro di Baskaran e coll, in cui sono stati messi a confronto il rischio di cancro in pazienti sottoposti a trattamento con ARBs col rischio di cancro in pazienti trattati con ACE-I. Come outcome si sono ricercati tutti i tipi di cancro e in particolare quello della prostata, del seno, del polmone e del colon. Lo studio è stato condotto dai medici di base della Gran Bretagna, ed ha coinvolto 377.649 pazienti trattati con Arbs o ACEI per almeno 1 anno. I dati sono stati analizzati dal UK General Practice Research Database. Il follow-up medio è stato di 4.6 anni e sono stati osservati 20.203 casi di cancro, ma non c’è stata evidenza che il rischio fosse aumentato nei pazienti sottoposti a terapia con ARBs (p=0.10). Invero in questi pazienti si è riscontrato un lieve aumento del cancro del seno (p=0.02) e della prostata (p=0.04), che però in termini assoluti corrispondeva a 0.5 -1.1 casi, rispettivamente, per 1.000 persone/anno. Una maggior durata del trattamento non ha prodotto un aumento del rischio. In pratica l’uso degli ARBs non è risultato associato ad un aumento del rischio di cancro, ed il leggero aumento del cancro al seno e alla prostata era piccolo in termini assoluti. In più la mancata associazione con la durata del trattamento non può escludere spiegazioni non causali.
Bhaskaran K et al. BMJ. 2012; 344: e2697 doi:10.1136/bmj.e2697
I “vecchi” medici di famiglia assieme al trattamento antibiotico erano soliti prescrivere i “fermenti lattici”, pratica questa mai completamente accettata dalla medicina accademica. Negli ultimi tempi sono invece comparsi alcuni reports che invitano ad utilizzare i “probiotici” quale mezzo di prevenzione della diarrea associata al trattamento antibiotico (DAA). L’ultimo in ordine di tempo è quello uscito sul primo numero di maggio di JAMA. È stata effettuata una revisione sistematica ed una meta-analisi sull’utilizzo del Lactobacillus, Bifidobacterium, Saccharomyces per la prevenzione o il trattamento della DAA. Un totale di 82 trial clinici controllati randomizzati è rientrato nei criteri di inclusione. La maggioranza degli studi ha utilizzato il Lactobacillus. Le determinazioni statistiche effettuate hanno dimostrato una associazione significativa tra somministrazione dei probiotici e riduzione della DAA [rischio relativo 0.58, 95% CI 0.50-0.68 p < 0.001; I2 54%; differenza di rischio -0.07, 95% CI -0,10 a -0,05; number needed to treat 13, 95% CI da 10.3 a 19.1]. È comunque emersa una significativa eterogeneità nei risultati aggregati e le prove sono insufficienti per stabilire se il risultato favorevole sia dipendente o meno dalla popolazione dei pazienti testati, dal tipo di terapia antibiotica o dalla preparazione del probiotico. In conclusione, le evidenze suggeriscono che la somministrazione di probiotici si associ con una riduzione della DAA, ma che sono necessarie ulteriori ricerche per determinare quali probiotici hanno la massima efficacia e quali siano le tipologie di pazienti e di antibiotici per i quali ci si debba aspettare il miglior risultato possibile.
Hempel S et al. Probiotics for the Prevention and Treatment of Antibiotic-Associated Diarrhea A Systematic Review and Meta-analysis.JAMA 2012; 307(18): 1959-1969 doi: 10.1001/jama.2012.3507
L’ipertensione notturna rappresenta un valore predittivo del rischio cardiovascolare più affidabilerispetto all’ipertensione diurna o misurata nelle 24 ore, e anche fenomeni quali l’ipertensioneclinica isolata e l’ipertensione mascherata andrebbero confrontati per verifica anche con i valoripressori notturni, non solo con quelli diurni. Lo sostiene uno studio pubblicato dall’AmericanJournal of Hypertension.
I ricercatori spagnoli del Bioengineering & Chronobiology Laboratory dell’Universidade de Vigocoordinati da Ramón C. Hermida hanno preso in esame nell’ambito dello studio MonitorizaciónAmbulatoria para Predicción de Eventos Cardiovasculares (MAPEC) 3.344 persone (1.718 uomini,1.626 donne) con un follow-up medio di 5,6 anni. “I dati di questo studio permettono di esaminarel’impatto della pressione notturna sulla definizione di ipertensione ambulatoriale e il valoreprognostico associato dell’ipertensione clinica isolata e dell’ipertensione mascherata”, spiegaHermida, “e di valutare i fattori di disaccordo nella diagnosi di ipertensione”.
È emerso che l’ipertensione out-of-office è associata ad un rischio cardiovascolare più elevatorispetto alla normotensione e all’ipertensione clinica isolata (P<0,001) solo quando questecondizioni sono definite sulla base di misurazioni notturne, non diurne e nemmeno sulle 24 ore.Utilizzando esclusivamente misurazioni diurne infatti addirittura nel 58,2% dei casi i soggetti conipertensione mascherata vengono erroneamente classificati come sani e il 26,3% dei soggetti conipertensione cronica vengono erroneamente ritenuti soggetti con ipertensione clinica isolata. Ilmonitoraggio notturno della pressione arteriosa deve diventare il metodo standard per la diagnosidell’ipertensione out-of-office, concludono i ricercatori spagnoli.
▼ Hermida RC, Ayala DE, Mojón A, Fernández JR. Sleep-time blood pressure and the prognosticvalue of isolated-office and masked hypertension. American Journal of Hypertension 2012;25(3):297-305.
Criteri per un appropriato intervento nel processo prescrittivo
Il farmacista, non essendo abilitato alla prescrizione di farmaci esclusiva del medico, non è autorizzato a sindacare i trattamenti terapeutici farmacologici prescritti dal medico e deve viceversa attenersi a quanto prescritto da quest’ultimo, secondo la sentenza n.8073 del 28.03.2008 della Cassazione sezione Civile III°. Ne deriva pertanto che il farmacista, a cui sia stata presentata una precisa ricetta medica, non è tenuto ad accertare se il farmaco e la posologia del farmaco prescritto siano corrispondenti alle effettive esigenze terapeutiche del paziente. Deve limitarsi a dispensare il farmaco che il medico ha prescritto. Se il medico non appone la nota “non sostituibile sulla prescrizione di un farmaco originale a brevetto scaduto, il farmacista acquisito il consenso informato dell’assistito può dispensare un farmaco generico equivalente. Nulla vieta al medico di apporre la nota “non sostituibile” anche sulla prescrizione di un farmaco equivalente di un produttore che ritiene più affidabile, nel qual caso a parità di costo il farmacista è tenuto a dispensare esattamente ciò che il medico ha prescritto. L’art.26 del codice deontologico del farmacista afferma che in caso di prescrizione dubbia il farmacista è tenuto a prendere contatto con il medico proscrittore per il necessario chiarimento, poiché la spedizione della ricetta medica presuppone certezza nel farmacista e sicurezza per il paziente.Il farmacista ha il dovere di acquisizione del consenso informato dell’assistito per la dispensazione del farmaco equivalente in sostituzione al farmaco originale prescritto, quando il medico non appone sulla ricetta l’indicazione “non sostituibile”, ai sensi della legge n.405/2001 e della legge n.149/2005 di conversione del D.L. 87/2005 art.1. Questo dovere è precisato anche dal suo codice deontologico che all’art. 12 afferma : l’informazione fornita deve essere chiara, corretta e completa in riferimento ai medicinali.
Dunque per una corretta acquisizione del consenso informato alla sostituzione del farmaco originale col farmaco equivalente generico, il farmacista può dire all’assistito che il farmaco equivalente è simile, non che è uguale all’originale. Dire che è uguale infatti orienta in modo non corretto la scelta autonoma dell’assistito perché non corrisponde al vero e quindi potrebbe apparire come una pubblicità ingannevole, vietata anche dalla legge n.49/2005 sulla pubblicità ingannevole e dal D.Lgs. 216/2006 sulla pubblicità ai farmaci.
Il farmacista, non essendo abilitato alla prescrizione di farmaci esclusiva del medico, non è autorizzato a sindacare i trattamenti terapeutici farmacologici prescritti dal medico e deve viceversa attenersi a quanto prescritto da quest’ultimo, secondo la sentenza n.8073 del 28.03.2008 della Cassazione sezione Civile III°. Ne deriva pertanto che il farmacista, a cui sia stata presentata una precisa ricetta medica, non è tenuto ad accertare se il farmaco e la posologia del farmaco prescritto siano corrispondenti alle effettive esigenze terapeutiche del paziente. Deve limitarsi a dispensare il farmaco che il medico ha prescritto. Se il medico non appone la nota “non sostituibile sulla prescrizione di un farmaco originale a brevetto scaduto, il farmacista acquisito il consenso informato dell’assistito può dispensare un farmaco generico equivalente. Nulla vieta al medico di apporre la nota “non sostituibile” anche sulla prescrizione di un farmaco equivalente di un produttore che ritiene più affidabile, nel qual caso a parità di costo il farmacista è tenuto a dispensare esattamente ciò che il medico ha prescritto. L’art.26 del codice deontologico del farmacista afferma che in caso di prescrizione dubbia il farmacista è tenuto a prendere contatto con il medico proscrittore per il necessario chiarimento, poiché la spedizione della ricetta medica presuppone certezza nel farmacista e sicurezza per il paziente.
I fitosteroli rappresentano un valido aiuto non farmacologico per il controllo della colesterolemia. Accanto allo sviluppo di prodotti a base di latte arricchiti con steroli vegetali sta aumentando l’attenzione verso i prodotti a base di soia che potrebbero rilevarsi anche più efficaci poichè ai benefici ipocolesterolemizzanti dei fitosteroli si aggiungono quelli delle proteine della soia.
L’efficacia dei fitosteroli nella riduzione delle concentrazioni ematiche di colesterolo totale e LDL è stata valutata in numerosi tipi di alimenti, la maggior parte delle sperimentazioni sono state realizzate testando creme spalmabili o prodotti lattiero-caseari. Come alternativa ai latticini, spesso causa di intolleranze alimentari, sono presenti in commercio numerosi prodotti a base di soia. Tuttavia le sperimentazioni riguardanti l’efficacia degli alimenti a base di soia addizionati con fitosteroli per aiutare gli ipercolesterolemici intolleranti al lattosio sono ancora scarse.
Un gruppo di ricercatori francesi de l’Université de Nantes ha pubblicato sulla rivista Lipids in Health and Disease uno studio riguardante l’efficacia di un drink di soia arricchito con steroli vegetali sul miglioramento del profilo lipidico in soggetti moderatamente ipercolesterolemici.
Lo studio randomizzato, doppio cieco, controllato con placebo, monocentrico, ha coinvolto 50 soggetti di nazionalità francese, 19 uomini e 31 donne di età compresa tra 19 e 65 anni, con una moderata ipercolesterolemianon trattata farmacologicamente. Dopo un periodo preventivo di 2 settimane di dieta controllata è iniziata la somministrazione giornaliera di un drink di soia (200 ml) arricchito con 2,6g di esteri di steroli vegetali (equivalenti a 1,6g al giorno di steroli vegetali) oppure senza steroli vegetali (gruppo di controllo) per 8 settimane. Il consumo della bevanda avveniva a colazione o durante la mattinata e i partecipanti sono stati invitati a proseguire l’abituale dieta affiancata dall’abituale attività fisica. Le concentrazioni plasmatiche dei lipidi sono state misurate all’inizio dello studio, dopo 4 settimane e dopo 8 settimane.
Dopo 8 settimane di trattamento si è osservata una riduzione significativa del colesterolo totale e LDL (pari al 7% , in accordo con precedenti studi che riportavano risultati nell’ordine di almeno il 5% rispetto al controllo), mentre trigliceridi e HDL non hanno subito variazioni. Le riduzioni medie sono state maggiori rispetto al gruppo di controllo che non ha mostrato cambiamenti significativi del profilo lipidico.
I ricercatori hanno anche verificato il livello di soddisfazione dei soggetti coinvolti nello studio riguardo al drink di soia: il sapore è stato ritenuto accettabile, il consumo è avvenuto preferenzialmente al mattino, inoltre il prodotto è stato ben tollerato e non ci sono state differenze di apprezzamento tra il drink di controllo e quello arricchito con fitosteroli.
I ricercatori valutano perciò che questo possa essere un prodotto molto interessante per controllare l’ipercolesterolemia lieve e moderata considerando anche che la compliance dei soggetti coinvolti nello studio è stata molto alta.
Elevate concentrazioni ematiche di colesterolo totale e LDL sono tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo di patologie cardiovascolari.
Un’adeguata alimentazione, povera di grassi saturi e colesterolo, è la base per il trattamento non farmacologico dell’ipercolesterolemia quando è lieve o moderata. In questo contesto, il consumo regolare di alimenti arricchiti in fitosteroli e l’assunzione di fibre sono utili strumenti per aumentare l’effetto di una dieta volta alla riduzione del colesterolo totale e LDL.
Numerosi studi clinici evidenziano che il consumo giornaliero di 2 g di fitosteroli si traduce in una riduzione delle LDL pari a circa il 10%, a questo va spesso aggiunta l’azione benefica di una dieta povera di grassi, infatti, chi è attento alla propria salute mette in atto tutta una serie di comportamenti alimentari e di stile di vita atti al miglioramento delle proprie condizioni fisiche.
Gli steroli vegetali sono composti naturali presenti nella parete cellulare di numerosi alimenti come la frutta secca a guscio, cereali, verdura e semi. La loro struttura chimica è simile a quella del colesterolo, differisce solo per la presenza di un gruppo metile o etile in più al C-24. Gli steroli vegetali hanno la funzione di ridurre il colesterolo, principalmente per competizione durante la formazione delle micelle: spiazzano il colesterolo che così viene assorbito con minore efficacia a livello intestinale.
Tradizionalmente gli steroli vegetali vengono incorporati in prodotti ad elevato contenuto di grassi come le creme spalmabili e le margarine che servono da matrice in virtù della loro buona solubilità. Una meta-analisi, randomizzata, controllata con placebo, ha verificato che l’uso di una matrice grassa a cui sono stati aggiunti steroli vegetali ha portato ad una riduzione delle LDL nell’ordine del 6,7% fino all’11,3% in base alla dose somministata. Studi che hanno coinvolto adulti con ipercolesterolemia lieve, riportano che il consumo di steroli vegetali addizionati a creme spalmabili porta ad una riduzione delle LDL pari al 5,4%, mentre il consumo di latte e yogurt arricchiti comporta una riduzione del 7,1% e del 6% rispettivamente. Più recentemente sono state indagate le proprietà ipocolesterolemizzanti di alimenti a basso contenuto di grassi arricchiti con fitosteroli, come yogurt, yogurt magri, latte, bevande a base di yogurt o di latte e succhi di frutta. Questi prodotti, associati ad una dieta povera di grassi saturi, svolgono un effetto interessante per un efficace controllo dell’ipercolesterolemia.
Nonostante tutti questi studi, sono state condotte relativamente poche indagini sui prodotti non a base di latte come ad esempio i prodotti a base di soia che sono poveri di grassi saturi e possono essere una matrice alimentare appropriata per l’aggiunta di steroli vegetali.
Dati epidemiologici indicano che le popolazioni asiatiche che consumano soia come alimento principale della dieta hanno un minor rischio di sviluppare patologie cardiovascolari rispetto a coloro che seguono un’alimentazione di tipo occidentale. Inoltre, alcuni studi clinici hanno evidenziato un benefico effetto delle proteine della soia come parte di una dieta a basso contenuto di grassi che ha portato a una significativa riduzione delle LDL.
Quindi, oltre ai già disponibili prodotti a base di latte arricchiti con steroli vegetali, gli alimenti a base di soia addizionati con steroli vegetali potrebbero essere usati come un’ulteriore opportunità alimentare per le persone ipercolesterolemiche poichè ad essi sono associati benefici cardiovascolari dovuti sia alle proteine della soia sia ai fitosteroli.
Tutti questi dati sono molto incoraggianti e fanno ben sperare sulle potenzialità di questi prodotti nel contrastare il rischio cardiovascolare, tuttavia seviranno ulteriori studi per verificare la reale efficacia degli alimenti arricchiti con fitosteroli, infatti, non tutte le ricerche hanno riportato dati positivi. Numerosi studi evidenziano dati inconsistenti riguardo agli effetti dei prodotti a basso contenuto di grassi arricchiti con fitosteroli, mentre altri studi riportano l’efficacia di tali prodotti nella riduzione del colesterolo ematico.
Il livello di solubilizzazione e dispersione degli steroli vegetali e il momento dell’assunzione sembrano essere le principali cause della variabilità dei risultati. Poichè gli steroli vegetali riducono l’assorbimento intestinale del colesterolo attraverso competizione, sembra plausibile che i fattori che influenzano il transito gastrointestinale possano influire sull’efficacia degli steroli vegetali.
In base a questa ipotesi l’assunzione di prodotti arricchiti con fitosteroli risulterebbe più efficace in concomitanza con un pasto principale come il pranzo o la cena piuttosto che durante la colazione o in un altro momento della giornata.
Questo studio ha voluto verificare l’efficacia di un drink di soia arricchito con fitosteroli partendo dai risultati di studi clinici che evidenziano come il consumo giornaliero di 25-50 g di proteine della soia possa condurre ad un effetto ipolesterolemizzante con una riduzione delle LDL dal 4% all’8%.
Se da una parte i fitosteroli riducono l’assorbimento intestinale del colesterolo, le proteine della soia si pensa possano ridurre le concentrazioni ematiche di colesterolo attraverso una riduzione della sintesi di questa sostanza a livello epatico o attraverso un aumento della clearance plasmatica. Perciò si potrebbe ipotizzare che la combinazione di proteine della soia e fitosteroli possa svolgere un effetto additivo e modificare favorevolmente il profilo lipidico.
Serviranno sicuramente ulteriori studi per verificare un eventuale effetto sinergico delle proteine della soia associate ai fitosteroli.
Contrariamente a quanto aspettato, in questo studio il drink di soia di controllo non ha prodotto significativi cambiamenti nel profilo lipidico dei partecipanti. Il risultato neutro potrebbe essere dovuto sia all’assenza dei fitosteroli sia alla ridotta presenza delle proteine della soia in quella particolare formulazione.
Sebbene basse dosi di prodotti contenenti proteine della soia non possano da sole permettere una riduzione della colesterolemia, rappresentano tuttavia un’ottima matrice per l’incorporazioe di steroli vegetali, inoltre, i prodotti della soia non inducono significative modifiche nè dell’introito energetico giornaliero nè delle abitudini alimentari e ciò consente un’ottima compliance nel tempo.
Bisogna inoltre considerare che la sostituzione controllata dei prodotti a base animale con prodotti a base di soia nella dieta può ridurre l’apporto di grassi saturi e colesterolo, contribuendo al miglioramento del profilo lipidico e alla potenziale riduzione del rischio cardiovascolare.
Un sondaggio su un ampio campione di chirurghi ortopedici americani mostra posizioni differenti in merito al miglior trattamento per prevenire il tromboembolismo venoso dopo artroprotesi d’anca o di ginocchio. La profilassi è stata riportata come pratica di routine dal 99% dei chirurghi interpellati che avevano effettuato nel 2008 interventi di sostituzione protesica d’anca o di ginocchio. Il 79% di loro ha valutato il rischio di tromboembolismo venoso prima dell’intervento e il 74% ha modificato la profilassi in base ai fattori di rischio riscontrati. Tra i diversi approcci adottati durante il ricovero in ospedale, la compressione pneumatica intermittente è stato il più frequente. La strategia farmacologica più diffusa è stata a base di eparine a basso peso molecolare, impiegate nel 65% delle artroprotesi d’anca e nel 63% di quelle di ginocchio. Inferiore è stato l’utilizzo di warfarin e ancor meno impiegata di acido acetilsalicilico, che ha trovato più spesso applicazione nella profilassi successiva alle dimissioni. I risultati del sondaggio mostrano dunque un consenso generale tra i chirurghi degli Stati Uniti sul fatto che esistano evidenze sufficienti per giustificare l’utilizzo standard di una profilassi contro il tromboembolismo venoso. Tuttavia gli autori dello studio ritengono che linee guida emesse in precedenza abbiano creato confusione e abbiano condotto a una grande variabilità di approcci: «in generale la preoccupazione dei chirurghi per il sanguinamento prevale su quella per embolismi polmonari clinicamente importanti».