Ricercatori dell?Ospedale Macedonio Melloni di Milano hanno valutato il rischio di recidive di endometriosi profonda dopo chirurgia conservativa.
L?analisi retrospettiva ha riguardato 115 pazienti sintomatici sottoposti ad intervento chirurgico dal 1996 al 2002.
Il periodo osservazionale post-chirurgico ? stato di 12 mesi.
Nel corso del follow-up, 28 pazienti hanno lamentato recidiva di dolore, mentre 15 pazienti hanno presentato recidive cliniche. Dodici pazienti sono state rioperate per endometriosi profonda.
L?incidenza di recidive di dolore e recidive cliniche, durante 36 mesi, ? stata del 20.5% e del 9%, rispettivamente.
L?analisi multivariata ha mostrato che solo l?et? era un predittore significativo di recidiva di dolore ( odds ratio, OR = 0.9; p < 0.05 ), con un aumento del rischio per le pazienti pi? giovani.
Le recidive di segni clinici di endometriosi profonda erano predette dall?occlusione della tasca di Douglas ( OR = 1.46; p < 0.05 ), mentre il reintervento era predetto solo dall?incompletezza del primo intervento ( OR = 21.9; p < 0.001 ).
Lo studio ha indicato che l?et?, l?occlusione della tasca di Douglas e la completezza chirurgica possono avere un?influenza significativa sulle recidive della malattia.
Vignali M et al, J Minim Invasive Gynecol 2005; 12: 508-513
Il suo nome ? SIRT, ovvero Selective Internal Radiotherapy ed ? una delle pi? importanti innovazioni degli ultimi anni nel trattamento dei carcinomi epatici ed in particolare nella lotta alle metastasi del colon-retto. La tecnica, elaborata negli USA e basata sull?infusione di microsfere, arriva anche in Italia, in otto centri distribuiti sul territorio nazionale: il Regina Elena di Roma, il Pascale di Napoli, il Policlinico Universitario di Udine, il Sant?Orsola Malpighi di Bologna, l?Istituto Europeo di Oncologia di Milano, l?Ospedale S. Maria Goretti di Latina, il Santa Corona Unita di Pietra Ligure e le Molinette di Torino. Sfere microscopiche dal diametro ben tre volte pi? piccolo di un capello sono in grado di trasportare direttamente nel fegato, attraverso l?arteria epatica, alcune particelle radioattive, distruggendo il tumore. Cinque degli otto centri italiani in cui viene praticata la SIRT – Roma, Napoli, Udine, Bologna e Massa Carrara ? stanno inoltre conducendo il primo studio nazionale a conferma della validit? del metodo: lo studio ? coordinato dall?ospedale Regina Elena di Roma ed ? condotto su quarantotto pazienti. I risultati della ricerca italiana sono finora molto promettenti, come ha confermato anche Maurizio Cosimelli, chirurgo oncologo dell?ospedale capofila e coordinatore dell?intero studio: ?Siamo riusciti ad ottenere una stabilizzazione delle metastasi, garantendo inoltre un?ottima qualit? di vita per ogni paziente?. Il tumore al colon-retto ? oggi la quarta neoplasia pi? diffusa al mondo con oltre un milione di nuovi casi ogni anno: nella sola Italia si registrano pi? di trentasettemila nuovi casi ogni anno. Secondo lo statunitense Andrew Scott Kennedy, radio-oncologo del Wake Oncology Services di Raleigh (North Carolina), ?poche persone sanno che le metastasi epatiche rappresentano il naturale epilogo di numerosi tumori solidi nonch? una delle principali cause di morte negli USA e nella maggior parte dei Paesi sviluppati: la SIRT offre una concreta chance di sopravvivenza, alla luce del fatto che ? riuscita a prolungare in modo rilevante la vita di oltre 2.500 pazienti sin dal 2002, anno in cui tale tecnica ? stata approvata dalla Food And Drug Administratrion?.
Il profilo autoanticorpale, ed in particolare gli autoanticorpi anti-CCP ed il fattore reumatoide, pu? aiutare ad identificare i pazienti con artrite reumatoide ad alto rischio di esiti infausti. Questi dati confermano l’elevata specificit? degli anti-CCP per l’artrite reumatoide e dimostrano chiaramente che il fattore reumatoide al di sopra di una certa soglia ? parimenti valido per la previsione di un’artrite reumatoide con esiti meno favorevoli. Bench? il trattamento precoce di questa malattia prevenga la progressione del danno articolare, una diagnosi differenziale affidabile potrebbe risultare difficile negli stadi iniziali dei disordini infiammatori articolari. Gli autori dello studio suggeriscono una valutazione della malattia in fase iniziale mediante il test del fattore reumatoide; in caso di risultato al di sopra delle 50 U/ml, ? opportuno valutare gli anticorpi anti-CCP, ed infine gli anticorpi anti-RA33. (Ann Rheum Dis 2005; 64: 1731-6)
Circa un terzo delle donne trattate per tumore mammario va incontro ad affaticamento durante i primi cinque anni dopo la terapia, e per circa i due terzi di esse questo fenomeno persiste. In generale, lo stato di salute di queste pazienti tende ad essere buono, ma in caso di affaticamento persistente potrebbe esserci qualche sindrome biologica di base. In particolare, queste donne tendono a presentare anomalie nelle citochine proinfiammatorie e bassi livelli di cortisolo, e sembrano quindi avere una qualche condizione infiammatoria predisponente di base che fa s? che, quando si sviluppa il tumore, l’affaticamento ne risulti scatenato o esacerbato. In generale, cos? come nel caso di qualsiasi sintomo soggettivo, quando la paziente lamenta affaticamento il medico dovrebbe darle credito, e ricercare condizioni cliniche che potrebbero essere passibili di interventi, quali l’anemia o le patologie tiroidee. Se la paziente assume farmaci antipertensivi, ? opportuno cambiare la terapia in modo che assuma farmaci che non contribuiscano all’affaticamento. Sono inoltre chiaramente molto importanti la valutazione di eventuali stati depressivi e la gestione di quelli dolorosi, in quanto con il controllo di questi elementi le energie della paziente potrebbero migliorare. (Cancer online 2006, pubblicato il 9/1)
I portatori giovani ed asintomatici della mutazione RET caratteristica della neoplasia endocrina multipla di tipo 2? (MEN-2A) rimangono liberi dalla malattia anche per 10 anni dopo una tiroidectomia totale preventiva. Il carcinoma tiroideo midollare ? la pi? comune causa di morte nei pazienti con questa malattia, e nel presente studio si intendeva determinare se la tiroidectomia totale potesse prevenire o curare questo tipo di tumore, specificando se l’esito della chirurgia sia o meno correlato alla specifica mutazione del codone RET, dal livello stimolato di calcitonina prima dell’intervento, dall’et? del paziente al momento dell’intervento, dallo status istologico della ghiandola resecata, dalla presenza o meno di metastasi linfonodali cervicali o da un complesso di questi fattori. Nonostante i risultati positivi dello studio, sar? necessario un periodo di monitoraggio pi? prolungato per confermare che i pazienti tiroidectomizzati siano davvero guariti. Si tratta comunque di un intervento complesso, con molte ramificazioni: la chirurgia endocrina pediatrica complessa dovrebbe essere effettuata in centri specializzati con personale multidisciplinare esperto in grado di garantire anche consulenza genetica; l’intervento dovrebbe essere effettuato all’et? pi? precoce in cui il chirurgo lo ritenga sicuro, probabilmente ad un’et? massima di tre anni. Strategie chirurgiche alternative dovrebbero aiutare ad eliminare o ritardare i rischi associati alla chirurgia. Lo sviluppo di metodiche d’immagine per i tumori potrebbero ritardare l’intervento per alcuni pazienti: i farmaci atti ad inibire lo sviluppo o la crescita di questi tumori, che potrebbero essere i tirosin-chinasi inibitori, sono molto promettenti per il futuro. Finch? non verranno sviluppati approcci non chirurgici, il miglior trattamento per i bambini portatori di questa mutazione appare proprio la tiroidectomia totale preventiva. (N Engl J Med. 2005; 353: 1105-13 e 1162-4)
Possiamo chiamarlo Effetto Northridge, dal nome del potente terremoto che ha colpito una zona nelle vicinanze di Los Angeles alle 4.30 di un mattino di gennaio nel 1994. Nel giro di un’ora, e per tutto il resto della giornata, i paramedici impegnati a soccorrere persone schiacciate o intrappolate dentro agli edifici hanno dovuto a far fronte a una seconda ondata di decessi provocati da attacchi cardiaci, tra gente che era uscita illesa dal sisma. Nei mesi seguenti, i ricercatori di due universit? hanno esaminato i referti dei medici legali e hanno rilevato un impressionante balzo in avanti dei decessi per crisi cardiovascolari, da una media giornaliera di 15,6 ai 51 del giorno del terremoto.
Per dirla in parole povere, si erano spaventati a morte. La medicina popolare ha sempre ammesso che un improvviso spavento o una cattiva notizia pu? essere fatale. Per lungo tempo per?, i cardiologi hanno fatto resistenza all’idea che il cuore, la vigorosa sorgente della vita, possa essere sconvolto in modo fatale da un evento mentale.
Ma non sono soltanto gli shock improvvisi come i terremoti ad uccidere. ? sempre pi? dimostrato che stati emotivi cronici come lo stress, l’ansia, l’ostilit? e la depressione impongono un pesante tributo. Il rischio rappresentato dai fattori psicologici e sociali ha un’incidenza almeno pari a quella dell’obesit?, del fumo e dell’ipertensione. I ricercatori cominciano adesso a capire perch?. E un numero sempre maggiore di ospedali sta traducendo questa migliore comprensione in programmi che si ripropongono di combattere le malattie cardiache nel pi? improbabile dei luoghi di origine: il cervello.
Debra Moser, professoressa di scienze infermieristiche all’universit? del Kentucky, present? anni fa i risultati di una sperimentazione condotta su 536 pazienti che avevano subito attacchi di cuore. Aveva misurato i loro livelli di ansia con un classico test psicologico a risposta multipla, e aveva controllato se avevano avuto ulteriori complicazioni – come un secondo attacco cardiaco – durante il periodo trascorso in ospedale. Quelli dal cui test erano usciti i valori di ansia pi? elevati avevano il quadruplo delle possibilit? di andare incontro a complicazioni rispetto a quelli che avevano registrato i punteggi pi? bassi.
I medici stanno scoprendo che i fattori psicosociali costituiscono elementi di rischio molto pi? significativi di quello che si pensava in passato. Prendete la depressione. In una persona in buona salute fa raddoppiare, almeno, il rischio di attacco cardiaco, dice Michael Frenneaux, professore di medicina cardiovascolare all’universit? di Birmingham, in Inghilterra. E per le persone che hanno avuto un attacco cardiaco in passato, la depressione quadruplica o addirittura quintuplica il rischio di averne un altro.
Anche l’ostilit? ? un fattore di rischio sempre pi? importante. Elevati livelli di ostilit?, misurati mediante un test standard, fanno aumentare del 29 per cento le possibilit? di morire di malattia cardiaca. Anche i traumi infantili sembrano avere un impatto sulle malattie cardiache. In una recente inchiesta condotta su oltre 17.000 adulti a San Diego, la dottoressa Maxia Dong, del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha rilevato che il rischio di attacchi cardiaci sale tra il 30 e il 70 per cento in quelle persone che hanno riferito di aver avuto esperienze infantili negative, come abusi fisici, sessuali o emotivi, violenza domestica o familiari che abusavano di droghe o alcol.
E se lo stress nell’infanzia pu? portare a malattie cardiache, qual ? l’effetto dei fattori di stress nella vita corrente (orari di lavoro pi? lunghi, minacce di licenziamento, tracollo dei fondi pensione)? Uno studio dello scorso anno, sulla rivista The Lancet, ha esaminato oltre 11.000 soggetti colpiti da attacco cardiaco in 52 paesi, e ha scoperto che nei dodici mesi precedenti all’infarto i pazienti avevano subito uno stress notevolmente maggiore – al lavoro, in famiglia, per guai finanziari, depressione e altre cause – rispetto a circa 13.000 persone in buona salute. (Copyright Newsweek – traduzione Fabio Galimberti)
In Italia ogni anno l’ictus colpisce circa 200 mila persone, rappresenta la prima causa di invalidit? e pu? condurre alla morte quasi il 30% degli individui colpiti nel primo anno dopo l’evento. Oltre ai tradizionali fattori di rischio quali diabete, pressione arteriosa elevata, et? e sesso, un particolare enzima e una proteina presenti nel sangue possono aiutare nell’identificare soggetti pi? esposti al rischio di ictus ischemico. A darne notizia ? uno studio pubblicato sul Journal of American Medicine Association, il quale si ? occupato di esaminare i livelli sanguigni di due marker infiammatori, la proteina C reattiva (CRP), e la lipoproteina associata alla fosfolipasi A2 (Lp-PLA2). Lo scopo dello studio era determinare se tali fattori fossero in qualche modo associati a un aumento del rischio di ictus di tipo ischemico. L’infiammazione svolge un ruolo importante nelle patologie cerebrovascolari, e ci? spiega perch? si sia pensato di verificare l’associazione tra ictus e i livelli di proteina C reattiva (marcatore di infiammazione gi? utilizzato per prevedere eventi coronarici) e di lipoproteina associata alla fosfolipasi A2, che ? un enzima proinfiammatorio secreto dai macrofagi e che circola legato principalmente al colesterolo LDL.
I livelli aumentano I ricercatori hanno preso in esame i dati raccolti dall’Atherosclerosis Risk in Communities, studio che ha coinvolto quasi 13 mila uomini e donne, apparentemente sani, di et? compresa tra i 45 e i 64 anni e che sono stati seguiti per un periodo di 6-8 anni. Tra questi sono stati selezionati 960 individui, di cui 194 avevano avuto un evento ischemico. I risultati hanno evidenziato dei livelli pi? elevati di proteina C reattiva e di Lp-PLA2 in coloro che successivamente erano stati colpiti da ictus, rispetto a chi non era andato incontro a evento ischemico. In particolare i pi? alti livelli di Lp-PLA2 e CRP aumentavano il rischio di ictus di 1,91 e 1,87 volte, rispettivamente, mentre negli individui che presentavano contemporaneamente i pi? alti valori di CRP e di Lp-PLA2 aumentava di 11,38 volte, rispetto a chi presentava i pi? bassi livelli di entrambi i marcatori. Ci? si verificava indipendentemente dalla presenza di ulteriori fattori di rischio: anche i livelli di colesterolo e trigliceridi non risultavano differire significativamente da un gruppo all’altro. Alla luce dei risultati, i ricercatori ritengono che il dosaggio della proteina C reattiva, e della lipoproteina associata alla fosfolipasi A2, possano costituire un metodo di diagnosi complementare, accanto all’identificazione dei tradizionali fattori di rischio, per identificare precocemente i soggetti a rischio di ictus. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per determinare se l’utilizzo di inibitori selettivi dell’Lp-PLA2 o la riduzione/inibizione della CRP siano in grado di prevenire l’evento ischemico.
Ombretta Bandi
Fonte Ballantyne CM et al. Lipoprotein-associated phospholipase A2, high-sensitivity C-reactive protein, and risk for incident ischemic stroke in middle-aged men and women in the Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC) study. Arch Intern Med. 2005 Nov 28;165(21):2479-84.
La soppressione dell’acido non migliora i sintomi respiratori nella maggior parte dei bambini con asma e reflusso gastroesofageo.
Il reflusso ? maggiormente prevalente nei bambini asmatici che in quelli non asmatici, ma in generale nei soggetti asmatici la soppressione dell’acido non sembra influenzare
I sintomi asmatici o la funzionalit? polmonare. Recenti dati sul reflusso non acido o debolmente acido suggeriscono che questi fenomeni potrebbero essere un fattore scatenante per i sintomi respiratori: ? dunque necessario studiare strategie terapeutiche che riducano il reflusso, e non soltanto il contenuto acido del reflussato.
Alcuni soggetti possono beneficiare dalla soppressione dell’acido, come suggerito dal miglioramento dei bambini con asma pi? grave o reflusso grave.
Il diabete mellito giovanile o diabete di tipo 1 ? una malattia metabolica causata da un difettoso funzionamento del sistema immunitario: le cellule beta del pancreas che producono l’insulina erroneamente vengono riconosciute come estranee, e quindi attaccate e distrutte dal sistema immunitario. La distruzione delle cellule beta pancreatiche ha una lenta evoluzione nel tempo, ma non d? alcun sintomo fino a quando circa l’80% di esse ? stato distrutto. A questo stadio, i livelli di insulina prodotta raggiungono una soglia critica per l’organismo. Il deficit di insulina si manifesta con i ben noti sintomi della malattia (sete, aumentata produzione di urina, perdita di peso), legati all’aumento dei livelli di glucosio nel sangue. L’unIca terapia per il diabete tipo 1 ? costituita, da 70 anni a questa parte, da ripetute iniezioni quotidiane di insulina. Cos? per? si corregge solo la conseguenza della distruzione delle beta cellule, ma non la causa della malattia, cio? il difetto del sistema immunitario. Una recente sperimentazione clinica coordinata da Lucienne Chatenoud presso l’Istituto Necker di Parigi e pubblicata sulla rivista ?New England Journal of Medicine? potrebbe in futuro offrire nuove possibilit? terapeutiche ai pazienti diabetici tipo 1. L’idea alla base dello studio ? di “riordinare” il sistema immunitario, facendo uso di un anticorpo diretto contro la molecola CD3. Questa molecola ? presente sui linfociti T, che sono i principali responsabili dell’attacco auto-immune. Topi di laboratorio trattati con un anticorpo anti-CD3 non sviluppano diabete. I meccanismi di questo effetto sono solo in parte conosciuti, ma rispecchiano l’azione dell’anticorpo sui linfociti T, cui segue l’attivazione di linfociti regolatori della risposta immunitaria. In seguito a queste osservazioni su topi, i ricercatori hanno raccolto, entro 4 settimane dalla diagnosi di diabete, 80 pazienti tra i 12 ed i 39 anni. Seguendo la procedura comune a tutti gli studi in cui un nuovo farmaco viene sperimentato sull’uomo, met? dei pazienti ha ricevuto l’anticorpo anti-CD3. L’altra met? ha invece ricevuto un’innocua sostanza di controllo, detta placebo. Per garantire la massima imparzialit? di questi studi, n? pazienti n? medici curanti possono sapere se la sostanza somministrata ? l’anticorpo o il placebo (studio “in doppio cieco”). La ricerca ha mostrato che i pazienti che avevano ricevuto l’anticorpo anti-CD3 mantenevano, a un anno e mezzo di distanza, una maggiore produzione residua di insulina rispetto ai soggetti trattati con placebo. In altre parole, la somministrazione dell’anticorpo era in grado di fermare l’ulteriore distruzione delle beta cellule pancreatiche ancora presenti. Di conseguenza, i pazienti trattati con l’anticorpo anti-CD3 mantenevano livelli di glicemia ottimali con dosi assai inferiori di insulina. NeI 75% dei pazienti trattati con l?anticorpo, ma in nessuno di quelli trattati con placebo, tali dosi di insulina erano, un anno e mezzo dopo la diagnosi, addirittura inferiori alle 0,25 unit? per kilogrammo al giorno (circa 18 unit? al giorno per un individuo di media statura). In altre parole, nel 75% dei pazienti trattati con l’anticorpo anti-CD3 si pu? parlare – almeno per questo periodo di osservazione di un anno e mezzo – di una quasi completa guarigione in termini metabolici. Quali sono i rischi della terapia con anti-CD3? Se ne sa poco, dato il breve periodo di osservazione. Gli effetti collaterali sono stati tuttavia modesti, e limitati al periodo (6 giorni) di somministrazione del farmaco. E? importante notare che non si tratta di una terapia immunosoppressiva del tipo utilizzato per i trapianti d’organo. L’anticorpo anti-CD3 non ? infatti stato somministrato per mesi o anni, ma per soli 6 giorni: quindi con un rischio assai inferiore di infezioni. Quali prospettive apre questo studio per i pazienti diabetici tipo 1? Ulteriori ricerche sono necessarie per tentare un’applicazione su larga scala di questa terapia. I pazienti considerati avevano tra i 12 ed i 39 anni ma molti diabetici sono di et? inferiore e presentano solitamente un attacco auto-immune pi? aggressivo, pi? difficile da fermare. In secondo luogo, uno dei criteri di selezione dei partecipanti allo studio era la presenza di una produzione residua di insulina (cio? la presenza di una consistente frazione di beta cellule pancreatiche ancora risparmiata). Inoltre, non sorprendentemente, i pazienti che maggiormente si giovavano della terapia con anticorpo anti-CD3 erano quelli con una produzione residua di insulina pi? alta. Tuttavia, le condizioni (in termini di produzione di insulina) non sono sempre cos? favorevoli, soprattutto nei diabetici pi? giovani. Come ovviare a questo problema? La soluzione logica sarebbe intervenire pi? precocemente. In effetti, al momento della diagnosi, solo il 20% delle beta cellule possono ancora essere salvate. La percentuale potrebbe essere pi? alta se si potesse intervenire in anticipo. Per farlo, bisogna essere in grado di identificare soggetti ancora sani che svilupperanno in seguito la malattia. Sono in fase di sviluppo nuovi test immunologici per individuare, attraverso un prelievo di sangue, i linfociti T che causano la distruzione delle be-ta cellule pancreatiche. Questo esame potrebbe fornire una diagnosi assai pi? precoce, in un momento in cui nessun sintomo ? ancora presente ma l’attacco auto-immune ? gi? silenziosamente in atto e pu? essere fermato. Uno studio di questo tipo ? in corso all’Istituto Necker di Parigi. L’Universit? di Torino vi ? coinvolta, grazie al Gruppo di studio piemontese per l’epidemiologia del diabete.
ROBERTO MALLONE PAOLO CAVALLO-PERIN (*) (*) Istituto Necker, Parigi e Universit? di Torino
Paolo Alboni et collaboratori della Divisione di Cardiologia e Centro Aritmologico dell?Ospedale di Cento ( Ferrara ) hanno compiuto una revisione della letteratura con l?obiettivo di definire allo stato attuale delle conoscenze la migliore strategia farmacologica per i pazienti con fibrillazione atriale ricorrente.
A ) Pazienti che non necessitano di terapia antiaritmica
Non dovrebbero essere sottoposti a trattamento con farmaci antiaritmici:
– i pazienti dopo il primo episodio di fibrillazione atriale
I pazienti con un primo episodio di fibrillazione atriale dovrebbero essere convertiti a ritmo sinusale, ma il trattamento profilattico con un farmaco antiaritmico non sembra indicato. Questo approccio ? condiviso dalle lineeguida dell?American College of Cardiology/American Heart Association e dell?European Society of Cardiology. Ci possono essere alcune eccezioni come: fibrillazione atriale con grave sintomatologia ( scompenso cardiaco, sincope ), presenza di stenosi mitralica e/o atrii marcatamente dilatati, episodi di lunga durata ( settimane o mesi ).
– i pazienti con rari episodi di fibrillazione atriale di breve durata
I pazienti con rari episodi di fibrillazione atriale di breve durata ( poche ore ), ben tollerati emodinamicamente, non dovrebbero essere sottoposti a trattamento farmacologico preventivo.
– i pazienti con fibrillazione atriale perioperatoria
La fibrillazione atriale ? una frequente complicanza ( con un?incidenza tra il 15 ed il 40% ) dopo chirurgia cardiotoracica. La fibrillazione atriale perioperatoria ? generalmente di breve durata, ma ? associata ad un aumento di morbilit? e ad una prolungata ospedalizzazione. Le recidive di fibrillazione atriale sono abbastanza frequenti nel primo mese dopo intervento di cardiochirurgia. Dopo questo periodo le recidive diventano rare. Un trattamento antiaritmico cronico non appare indicato nei pazienti senza storia di fibrillazione atriale prima dell?intervento chirurgico. Il trattamento antiaritmico pu? trovare indicazione solo nel primo mese dopo l?operazione chirurgica.
I pazienti con fibrillazione atriale durante infarto miocardico
Nell?era trombolitica la prevalenza di fibrillazione atriale durante infarto miocardico acuto ( IMA ) varia tra l?8 ed il 10%. La fibrillazione atriale durante IMA ? associata ad un pi? grave coinvolgimento cardiaco. Il decorso della fibrillazione atriale durante infarto pu? essere estremamente variabile. Pertanto i pazienti con fibrillazione atriale durante IMA senza storia di fibrillazione atriale dovrebbero essere dimessi in ritmo sinusale senza alcuna prescrizione di farmaci antiaritmici.
i pazienti con l?holiday heart syndrome
L?assunzione di elevate quantit? di alcol aumenta il rischio di insorgenza di fibrillazione atriale. I pazienti dovrebbero essere invitati ad evitare l?abuso di alcol.
B ) Pazienti che possono trarre giovamento dall?approccio ?pill-in-the-pocket?
Diversi pazienti con fibrillazione atriale ricorrente presentano episodi che non sono frequenti ( inferiore ad 1 per mese ) e che sono emodinamicamente ben tollerati, ma di durata che richiede il ricorso al Dipartimento d?Emergenza o l?ospedalizzazione. Questi pazienti necessitano di un trattamento, ma la profilassi per os di lungo periodo o l?ablazione non sono trattamenti appropriati di prima linea. Questo gruppo di pazienti potrebbe trarre vantaggio dall?approccio ?pill-in-the-pocket?. L?approccio ?pill-in-the-pocket? consiste nell?assunzione per os di una singola dose di farmaco antiaritmico al momento del manifestarsi dell?aritmia. L?efficacia di un dosaggio da carico di un farmaco di classe IC, Flecainide ( Almarytm ) o Propafenone ( Rytmonorm ) ? stata dimostrata in diversi studi clinici.
C ) Pazienti che richiedono trattamento profilattico con farmaci antiaritmici
Nei pazienti con episodi di fibrillazione atriale frequenti e mal tollerati dal punto di vista emodinamico, trova indicazione il trattamento profilattico con farmaci antiaritmici. Gli antiaritmici dovrebbero essere impiegati solo nei pazienti con fibrillazione atriale sintomatica in cui il ritmo sinusale necessita di essere mantenuto. La decisione di impiegare i farmaci antiaritmici richiede un?attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio. Il farmaco antiaritmico pi? efficace nella prevenzione della fibrillazione atriale ? l?Amiodarone ( Cordarone ).