Nuovo marker prognostico per il cancro mammario

23 Lug 2012 Oncologia

Il riscontro di elevati livelli solubili di molecola di adesione cellulare dei leucociti attivati (sAlcam) nel siero di donne con cancro mammario indica un comportamento tumorale più aggressivo ed è un fattore indipendente di prognosi peggiore. Lo ha verificato il gruppo di Isabell Witzel, del Centro medico universitario di Amburgo-Eppendorf (Germania). Per giungere a questo dato, il team ha analizzato i livelli di sAlcam nel siero di 157 pazienti con cancro primario della mammella e di 48 donne sane. Inoltre, mediante altre analisi (Western blot, cDna microarray), si è valutata l’espressione proteica e del mRna dell’Alcam (frazione non solubile) nel tessuto tumorale delle pazienti corrispondenti. Si è così verificato che i livelli di sAlcam sono differenti tra pazienti e soggetti sani (media: 24,2 vs 18,9 ng/ml). Non si è invece osservata alcuna correlazione tra livelli sierici di sAlcam ed espressione proteica o ribonucleica di Alcam nei tumori corrispondenti. Infine, se i livelli di sAlcam non sono risultati correlati con il tipo istologico, il grado e lo stadio tumorale o l’età del paziente, elevati valori di sAlcam sono apparsi comunque associati a una ridotta sopravvivenza libera da malattia (hazard ratio: 1,97).

Oncology 2012;82:305-312

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Ruolo delle ‘piccole’ riviste medico-scientifiche: l’esperienza della Croazia

In una recente riflessione sulle funzioni che una rivista medico-scientifica può svolgere, Richard Smith – in passato ‘editor in chief’ del British Medical Journal – si pone la domanda se un giornale medico sia in grado di promuovere cambiamenti all’interno della comunità medica o della società nel suo insieme, o soltanto seguirli. La risposta che si dà a questo quesito è che una rivista medico-scientifica solo in limitati casi è in grado iniziare un cambiamento che diversamente non sarebbe avvenuto, ma ciò può capitare specialmente se più giornali medici si coordinano nelle loro pubblicazioni.

Ma le riviste medico-scientifiche più piccole possono indurre cambiamenti al di fuori del loro limitato contesto, per esempio nella comunità medica a cui si rivolgono o nella società nel suo complesso? Un esempio concreto di questa possibilità viene da una ‘piccola’ rivista medico-scientifica pubblicata in un Paese assai vicino al nostro, la Croazia. Il Croatian Medical Journal (CMJ) ha iniziato le sue pubblicazioni circa 20 anni fa durante la recente guerra nei Balcani, con la finalità di collegare i medici croati alla comunità scientifica internazionale. Certamente un giornale medico non è in grado di modificare l’andamento di una guerra, ma può contribuire allo sviluppo della pace e della giustizia sociale, attraverso la promozione della salute ed il miglioramento della organizzazione sanitaria. Ma sicuramente una ‘piccola’ rivista medico-scientifica può rappresentare una opportunità per presentare alla comunità scientifica internazionale una ricerca di buona qualità svolta in un contesto geografico di limitate dimensioni. L’obiettivo principale non è tanto quello di ottenere in un breve periodo un alto impact factor (l’impact factor del CMJ è di 1.455, che si posiziona nella metà superiore dei giornali medici di questa categoria), ma piuttosto di seguire le migliori regole e metodologie adottate nelle pubblicazioni scientifiche; in particolare, eccellenza e trasparenza della ricerca clinica fonte dei dati pubblicati, capacità di scrivere con chiarezza i contributi scientifici. Alcuni di questi temi sono affrontati da Ana e Matko Marusic – del Dipartimento della Ricerca in Biomedicina e Salute dell’Università di Spalato – Croazia, in un loro recente contributo pubblicato su Lancet. Le loro considerazioni possono costituire una fonte di riflessione sui compiti che una Società Scientifica (e di conseguenza una rivista scientifica, suo organo ufficiale) dovrebbe svolgere. In particolare

  • richiesta ai ricercatori di registrare sempre i loro studi, specie prima di presentare i dati raccolti in un articolo da pubblicare
  • promozione della Evidence-Based Medicine attraverso revisioni sistematiche della letteratura, utili per indirizzare in modo corretto la pratica clinica corrente
  • promozione della cultura della trasparenza nella ricerca clinica e nella presentazione dei contributi scientifici, attraverso la creazione di un insieme di regole etiche
  • controllo obbligatorio (mediante ‘CrossCheck’) per tutti gli articoli proposti per la pubblicazione di eventuali somiglianze o forme di plagio rispetto a precedenti lavori pubblicati in altre riviste
  • attivazione di corsi di formazione dedicati non solo a saper svolgere ricerche cliniche, ma anche a saper scrivere al meglio un articolo (non di rado può capitare che dati di notevole interesse vengono presentati con scarsa chiarezza); quindi, non solo corsi sulla metodologia della ricerca clinica, ma anche su come si scrive un articolo
  • attivazione di corsi di formazione per lo sviluppo del ragionamento critico quale base per la ricerca clinica, per la presentazione di contributi scientifici, e ovviamente per la pratica medica quotidiana. 

Marusic Ana and Marusic Matko. Can small journals provide leadership? Lancet 2012; 379: 1361-1363

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Stimolazione cerebrale profonda allevia i sintomi del Parkinson

Attraverso una revisione critica della letteratura, tre studiosi dell’Istituto di neurologia dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Roma hanno esaminato le potenzialità offerte dalla stimolazione cerebrale profonda, o Dns (deep brain stimulation) per il trattamento dei pazienti affetti da malattia di Parkinson. I numerosi studi pubblicati e archiviati su Pubmed mostrano che diversi nuclei cerebrali profondi sono stati stimolati da ricercatori e clinici, portando a un’ampia gamma di effetti sui sintomi motori e non-motori che tipicamente si associano al morbo di Parkinson. Esistono evidenze di alta qualità sui benefici a lungo termine della stimolazione del nucleo subtalamico e del globo pallido interno: in entrambi si ottiene un miglioramento delle funzionalità motorie. Altrettanto provata è la riduzione del tremore che si può conseguire stimolando il nucleo talamico ventrale intermedio. Dati sugli effetti a breve termine sono disponibili riguardo alla stimolazione di altre aree cerebrali profonde, quali il nucleo peduncolo-pontino e il complesso talamico centromediano-parafascicolare. Alcuni sintomi non motori migliorano dopo la Dbs, in parte come effetto diretto della stimolazione e in parte indirettamente, in conseguenza dei benefici ottenuti nelle funzionalità motorie e grazie a terapie farmacologiche meno intense.

Lancet Neurol, 2012; 11(5):429-42

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Sartani e rischio tumori: nessun legame confermato

23 Lug 2012 Oncologia

L’utilizzo degli antagonisti del recettore dell’angiotensina non è associato a un aumento del rischio complessivo di tumori. Si nota solo un lieve aumento di rischio per il cancro della mammella e della prostata, ma la mancata correlazione con la durata del trattamento non rende possibile l’esclusione di spiegazioni non causali. È l’esito di una ricerca condotta utilizzando i database delle prescrizioni effettuate dalla medicina primaria inglese – sotto la supervisione di Krishnan Bhaskaran della London school of hygiene and tropical medicine – su 377.649 nuovi utilizzatori di sartani oppure di Ace-inibitori con almeno un anno iniziale di trattamento, messi a confronto tra loro. Il follow-up è stato concluso dopo una media di 4,6 anni a partire dall’inizio del trattamento; si sono osservati 20.203 casi di cancro. Non si è rilevata alcuna evidenza di aumento globale di rischio di malattia neoplastica tra i soggetti mai esposti ai sartani (hazard ratio, Hr: 1,03). Per alcune forme specifiche di cancro, si è rilevata qualche prova di un rischio maggiore; è il caso del cancro mammario (Hr: 1,11) e prostatico (Hr: 1,10); valori di rapporto di rischio che, in termini assoluti, corrispondevano a una stima di 0,5 e 1,1 casi in più, rispettivamente, per 1.000 persone/anno di follow-up tra quanti presentavano la più alta linea basale di rischio. Una maggiore durata del trattamento non è sembrata associarsi a un rischio più elevato. Si è avuto invece un minore rischio di cancro polmonare, e non si è rilevato alcun effetto sul cancro del colon.

BMJ, 2012; 344:e2697

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Artrosi dell’anca: sostituzione totale vs resurfacing

23 Lug 2012 Ortopedia

Nei pazienti affetti da grave artrosi dell’anca, non si nota una differenza di funzionalità tra quanti, a distanza di un anno dall’intervento, sono stati sottoposti ad artroplastica totale (completa sostituzione della testa e del collo femorali) oppure a “resurfacing” (sostituzione della sola superficie articolare della testa femorale, con mantenimento del collo del femore). Restano incerti gli outcome a lungo termine. È quanto deriva dall’esperienza di Matthew L. Costa, dell’università di Warwick, a Coventry (UK), e della sua équipe, autori di una ricerca condotta su 126 pazienti di età superiore a 18 anni con grave artrosi dell’anca e considerati eligibili al resurfacing, allo scopo di confrontare l’efficacia clinica ed economica di questa tecnica con quella più tradizionale. Il team ha assegnato, in modo randomizzato, 60 pazienti all’effettuazione del resurfacing, e 66 all’artroplastica totale. Come principali misure di outcome si è assunta la funzionalità dell’anca a 12 mesi dopo la chirurgia, valutata con gli score Oxford e Harris. L’analisi intention-to-treat non ha evidenziato differenze nella funzione dell’articolazione tra i 2 gruppi a 12 mesi, e i punteggi Oxford e Harris riferiti all’anca sono apparsi sostanzialmente sovrapponibili. Ciò nonostante, affermano gli autori dello studio, non si può escludere con certezza che vi possano essere differenze clinicamente significative nella funzionalità dell’anca nel breve termine. Infine, seppure non si siano registrate differenze nei tassi di complicanze tra i due gruppi di trattamento, si è riscontrato un maggiore numero di complicanze in sede di ferita chirurgica nel gruppo artroplastica totale, mentre in quello resurfacing si sono avuti più eventi tromboembolici.

BMJ, 2012; 344:e2147

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Probiotici efficaci nella diarrea da antibioticoterapia

Un’ampia metanalisi statunitense sembra definitivamente sancire l’efficacia dei probiotici nella riduzione della diarrea associata a trattamenti antibiotici (Aad). Servono però ancora studi per chiarire quali siano, all’interno di un’ampia categoria, i probiotici più validi, per quali pazienti e per quali antibioticoterapie. Sono queste, in sintesi, le conclusioni tratte un gruppo di studiosi californiani basandosi sui dati contenuti in 82 trial clinici randomizzati (Rct). Tra i probiotici considerati nella selezione dei lavori (Lactobacillus, Bifidobacterium, Saccharomyces, Streptococcus, Enterococcus, e/o Bacillus), la maggior parte degli studi ha fatto impiego del Lactobacillus, da solo o in combinazione con altri generi; i ceppi peraltro erano scarsamente documentati. Il rischio relativo raggruppato, in una meta-analisi effettuata su 63 Rct corrispondente a 11.811 partecipanti, ha evidenziato una associazione statisticamente significativa tra la somministrazione di probiotici e la riduzione della Aad (rischio relativo: 0,58) nei trial che riportavano il numero di pazienti con Aad. Questo risultato è apparso relativamente non influenzato nelle analisi dei vari sottogruppi. Comunque, vi è una significativa eterogeneità nei risultati raggruppati e l’evidenza non è sufficiente a stabilire se tale associazione possa variare sistematicamente a seconda della popolazione, delle caratteristiche dell’antibiotico o della preparazione probiotica.

JAMA, 2012; 307(18):1959-69

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Osteoartrosi temporomandibolare: review Cochrane

22 Lug 2012 Ortopedia

Nel trattamento dell’osteoartrosi (Oa) dell’articolazione temporomandibolare (Atm) esistono evidenze sufficienti a dimostrare un’equivalente efficacia nel ridurre il dolore e il fastidio nella regione orofaciale tramite iniezioni intrarticolari di ialuronato di sodio o preparazioni cortisoniche, così come vi sono prove di una pari diminuzione algica ricorrendo al diclofenac sodico o a uno splint occlusale. Inoltre, la glucosamina sembra essere tanto efficace quanto l’ibuprofene. È l’esito di una revisione realizzata da Rafael F. de Souza dell’università di San Paolo (Brasile) e colleghi con l’obiettivo di confrontare i benefici ottenibili con le differenti opzioni chirurgiche e mediche nella gestione dell’osteartrosi dell’Atm. I ricercatori hanno consultato i principali archivi informatici, senza restrizioni linguistiche. Sono stati presi in considerazione trial randomizzati e controllati (Rct) che mettevano a confronto qualsiasi forma di terapia medica o chirurgica per l’Oa dell’Atm in adulti di età superiore ai 18 anni con diagnosi clinica e/o radiologica della patologia. Come outcome primari si sono considerati dolore/tumefazione/fastidio all’Atm o ai masseteri, l’autovalutazione del grado di movimento mandibolare e dei rumori articolari. Gli outcome secondari, invece, sono stati la qualità della vita o la soddisfazione del paziente valutati tramite questionario, i cambiamenti morfologici dell’Atm rilevati mediante imaging, i suoni articolari colti tramite auscultazione e qualsiasi evento avverso. Al termine, sono stati inclusi nella revisione 3 trial e il raggruppamento dei dati per l’effettuazione di una meta-analisi non è stato possibile per via dell’ampia diversità clinica tra gli studi. Data la scarsità di evidenze di alto livello riguardanti l’efficacia degli interventi, secondo gli autori di questa revisione andrebbe incoraggiato l’avvio di studi a piccoli gruppi paralleli che includano soggetti con diagnosi di certezza e soprattutto che si valutino alcuni dei possibili interventi chirurgici.

Cochrane Database Syst Rev, 2012; 4:CD007261

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Ca tiroideo a basso rischio, esiti di due strategie ablative

21 Lug 2012 Oncologia

L’ablazione del tessuto tiroideo residuo mediante l’impiego di tireotropina ricombinante umana o radioiodio postoperatorio a basse dosi può essere sufficiente per la gestione del cancro tiroideo a basso rischio. È la conclusione di uno studio multicentrico francese di fase 3 – coordinato da Martin Schlumberger, del servizio di Medicina nucleare e Oncologia endocrina dell’université Paris Sud, a Villejuif – in cui sono stati messi a confronto due metodi di stimolazione della tireotropina (sospensione dell’ormone tiroideo e impiego di tireotropina umana ricombinante) e due differenti dosaggi di radioiodio (1,1 Gbq e 3,7 Gbq di iodio-131) in un disegno sperimentale 2×2. I criteri di inclusione adottati sono stati: età =/>18 anni; tiroidectomia totale per carcinoma differenziato della tiroide; stadio Tnm, accertato con esame anatomopatologico su campione chirurgico, pT1 (con diametro tumorale =/<1 cm) e N1 o Nx, pT1 (con diametro tumorale >1 cm fino a 2 cm) e N a qualunque grado, o pT2N0; assenza di metastasi a distanza; assente contaminazione da iodio. L’ablazione tiroidea è stata valutata 8 mesi dopo la somministrazione di radioiodio tramite ecografia del collo e misurazione della tireoglobulina stimolata dalla tireotropina ricombinante umana. Nel corso di 3 anni sono stati arruolati 752 pazienti, dei quali il 92% aveva un cancro papillare, ma solo su 684 di essi si sono potuti valutare i dati. In 652 soggetti (95%) l’ecografia del collo è risultata normale, e il livello di tireoglobulina stimolata è risultato di 1 ng/mL o meno in 621 dei 652 pazienti (95%) senza anticorpi antitireoglobulina rilevabili. L’ablazione tiroidea è apparsa completa in 631 pazienti su 684 (92%). Il tasso di ablazione è risultato equivalente tra le dosi di radioiodio e i metodi di stimolazione della tireotropina. Non si sono avuti gravi eventi avversi inattesi.

N Engl J Med, 2012; 366:1663-73

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Screening ca cervicale, più attenzione a Hpv-16, 18 e 45

20 Lug 2012 Ginecologia

Le cellule squamose atipiche il cui significato non è determinato (Ascus) e le lesioni intraepiteliali squamose di basso grado (Lsil) sembrano più correlate all’infezione da papillomavirus umano (Hpv) che ai precursori del cancro: anche Cin3 non deve essere considerato rappresentativo dei tipi che causano cancro cervicale invasivo. Nel contesto dei programmi di screening si deve riservare particolare attenzione all’Hpv16, ma anche all’Hpv18 e 45. Questa la lezione, che si trae da una metanalisi ideata per migliorare la stratificazione delle donne Hpv-positive ad alto rischio ed effettuata su 115.789 donne positive al virus, di cui 33.154 con citologia normale, 6.810 con Ascus, 13.480 con Lsil, 6.616 con lesioni intraepiteliali squamose di alto grado (Hsil) diagnosticate attraverso la citologia, 8.106 con neoplasia cervicale intraepiteliale di grado 1 (Cin1), 4.068 Cin2, 10.753 Cin3 all’analisi istologica, e 36.374 tumori cervicali invasivi (Icc). Non sono emerse forti differenze nella distribuzione dei tipi di Hpv fra citologia normale, Ascus, Lsil o Cin1. Comunque, la positività ad Hpv16 aumentava passando da citologia normale/ Ascus/Lsil/Cin1 (20-28%), a Cin2/Hsil (40-47%), a Cin3/Icc (58-63%). I tipi 16, 18 e 45 erano responsabili di una maggiore o uguale percentuale di infezioni da HPV nell’ Icc rispetto alla citologia normale e a Cin3. Altri tipi ad alto rischio erano coinvolti in importanti percentuali di Cin2 e Cin3 Hpv positivi, ma il loro contributo si riduceva nell’ Icc. I rapporti Icc /citologia normale erano particolarmente elevati per Hpv45 in Africa (1,85) e America centrale e del sud (1,79) e per Hpv58 in Asia orientale (1,36). Lo studio è firmato dai ricercatori dell’Agenzia per la ricerca sul cancro di Lione (Francia) e dell’università medica di Shenyang (Cina).

Int J Cancer. 2012 Feb 9 [Epub ahead of print]

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Ema, cautela in prescrizione di terapia antiosteoporosi

Al termine della revisione del profilo di sicurezza di due farmaci contenenti ranelato di stronzio, il Chmp dell’Ema ha concluso che questi medicinali rimangano un importante trattamento per le donne con osteoporosi, ma che, al fine di gestire meglio i rischi associati, sono necessarie delle modifiche agli avvisi per i prescrittori. La revisione è stata avviata quando uno studio condotto in Francia aveva rilevato 199 gravi reazioni avverse riportate con questi medicinali. Circa la metà di queste erano eventi di tromboembolismo venoso (Tev), e circa un quarto era relativo a reazioni cutanee. La revisione sulla sicurezza ha evidenziato che il rischio Tev è maggiore in chi ne ha sofferto in passato e così come nei pazienti che sono temporaneamente o permanentemente immobilizzati, pertanto in questi i medici non devono prescriverlo e devono rendere i pazienti consapevoli del tempo di insorgenza e dei probabili segni e sintomi di reazioni cutanee. Inoltre, il proseguimento della terapia va rivalutata in pazienti sopra gli 80 anni di età.

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