Tumore al seno, aumentano le cancer-survivor

18 Lug 2012 Oncologia

Nell’Unione europea il numero di donne decedute per cancro al seno diminuirà quest’anno del 9% e di oltre il 13% nella fascia d’età fra i 20 e i 49 anni. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori italiani e svizzeri – appartenenti rispettivamente al Dipartimento di epidemiologia dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano e all’Istituto di medicina sociale e preventiva (Iumsp) dell’università di Losanna – recentemente pubblicato su Annals of oncology. Si tratta di un trend globale ma che interessa i singoli Paesi. Del resto questi dati sono in linea con quelli attuali italiani, secondo cui a 5 anni dalla diagnosi sopravvive l’87% delle donne colpite da tumore del seno. Una percentuale tra le più rilevanti in Europa e che consente ai medici di ampliare lo spettro di attenzione alle fasi pre- e post-malattia. «Il passaggio della donna da cancer-patient a cancer-survivor orienta l’intervento del terapeuta al recupero della vita della paziente nella sua completezza» ha affermato Patrizia Vici, oncologo all’Istituto Regina Elena (Ire) di Roma, tra gli organizzatori di un incontro dedicato all’analisi dei fattori di rischio, alla prevenzione farmacologica (fasi pre-malattia) e alla preservazione della fertilità (post-malattia). I principali fattori di rischio sono stati identificati nei difetti genetici, nelle stimolazioni ormonali ripetute per indurre gravidanza e nell’impiego di ormoni per alleviare i disturbi legati alla menopausa. La prevenzione farmacologica, che sta riscontrando sempre più interesse, consiste invece nel somministrare agenti ormonali specifici (come il tamoxifene) in pazienti a rischio di sviluppare un tumore prima che la neoplasia si manifesti. Quanto alla fase post-malattia, per la valutazione della fertilità all’Ire «è già operativa la valutazione plasmatica di due ormoni, l’inibina B e l’ormone antimülleriano» fa sapere Ruggero De Maria, direttore scientifico dell’Ire. Restano ancora da definire metodiche emergenti come il trapianto di tessuto ovarico.

Ann Oncol, 2012 Feb 28. [Epub ahead of print]

 865 total views

Con gravidanze tardive più rischio endometriosi

Le donne italiane tendono a posticipare l’arrivo dei figli e ricorrono alla contraccezione ormonale, per evitare gravidanze non programmate. Tutto ciò è attualmente uno degli elementi alla base dell’aumento di endometriosi, patologia che è figlia delle gravidanze tardive. È quanto ha sostenuto Alessandra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia dell’Ospedale San Raffaele Resnati di Milano, nell’ambito del 15° Congresso mondiale di endocrinologia ginecologica, presieduto da Andrea Genazzani, e svoltosi a Firenze dal 7 al 10 marzo scorsi. Secondo i dati diffusi nel corso dei lavori congressuali, la fecondità attuale in Italia è pari a 1,4 figli. «Un numero insufficiente» sostiene Graziottin «a mantenere gli italiani. Oggi si fanno figli a 31 anni, ovvero quasi 16 anni dopo rispetto a quello che avveniva 100 anni fa. L’Italia, insieme all’Irlanda, è il Paese europeo con le nascite più tardive e quello con la più alta percentuale di ultraquarantenni al primo figlio». Oggi – è la conclusione – bisogna fare i conti con numeri che sono molto cambiati rispetto a un secolo fa: da una parte abbiamo una speranza di vita di oltre 84 anni, dall’altra è stata abbassata a 3,3 ogni mille, rispetto a 160, la quota dei bambini che muoiono nei primi giorni di vita.

 542 total views

SSRI e cadute con conseguenze dannose nei pazienti con demenza

Agli anziani sono frequentemente prescritti farmaci antidepressivi. La correlazione fra l’uso di tali farmaci ed il rischio di cadute è già ampiamente nota: un recente studio ha il pregio di correlare il rischio incrementale di cadute con conseguenze dannose con il dosaggio degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI). Lo studio è stato compiuto sui residenti di 248 case di riposo, analizzando l’uso di antidepressivi, il dosaggio dei farmaci, e gli eventi caduta con le loro conseguenze, registrati mediante un sistema di report standardizzato di eventi. Il data base ha analizzato 85.074 persone/giorni e si è rivolto ad una popolazione omogenea di anziani affetti da demenza. L’analisi statistica ha chiaramente evidenziato una relazione dose-risposta significativa fra cadute con conseguenze traumatiche e uso di SSRI. Il rischio incrementa del 31% con aumento di 0.25 della DDD (defined daily dose), del 73% con aumento di 0.50 della DDD e ben del 198% con aumento di 1.00 della DDD. Il rischio cresce ulteriormente in caso di combinazione con sedativi o ipnotici. La forza dello studio sta nell’assenza di bias di selezione o di registrazione: erano obbligatoriamente registrate tutte le cadute di tutti gli ospiti, qualunque fosse la terapia farmacologica in uso. Si possono tuttavia rimarcare alcuni punti deboli: la depressione può essere essa stessa fattore di rischio per le cadute; non è noto se i sintomi per cui gli antidepressivi erano prescritti fossero controllati; alcuni farmaci d’uso frequente (fluoxetina o citalopram) non erano usati in questi pazienti, ricoverati in strutture appartenenti ad un’unica istituzione.La raccomandazione conclusiva sulla prudenza nell’interpretazione dei risultati e sulla necessità di ulteriore approfondimento è ancora una volta appropriata. 

Sterke CS et al. British Journal of Clinical Pharmacology 2012, in press
DOI: 10.1111/j.1365-2125.2012.04124.x

 768 total views

L’amoxicillina è necessaria nelle rinosinusiti acute?

Ammesso che ve ne fosse bisogno, ecco un argomento in più contro l’uso indiscriminato di antibiotici: JAMA ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio concepito per verificare se il trattamento con amoxicillina in aggiunta alla terapia sintomatica, in pazienti affetti da rinosinusite acuta (RSA ), sia più efficace del placebo. Lo studio è stato condotto in 10 comunità del Missouri, su 166 pazienti affetti da RSA non complicata: i pazienti sono stati divisi in 2 gruppi, cui sono stati somministrati, random, placebo o amoxicillina 1.500 mg, oltre ai comuni farmaci sintomatici. L’end point primario era il miglioramento della qualità di vita dopo 3-4 giorni, misurato col Sinonasal Outcome Test-16 (la differenza minima tra 2 gruppi di confronto deve essere di 0.5 unità su una scala  da 0 a 3). L’end point secondario era rappresentato da ricaduta, soddisfazione del paziente, stato funzionale ed effetti collaterali. I controlli sono stati effettuati ai giorni 3, 7, 10 e 28. Ebbene, non c’è stata differenza significativa nel Sinonasal Outcome Test-16 al giorno 3 (si è osservata una diminuzione dell’indice di 0.59 nel gruppo amoxicillina e di 0.54 nel gruppo di controllo con una differenza media di 0.03), e meno ancora al giorno 10 (differenza media pari a 0.01), mentre una debole significatività si è riscontrata al giorno 7 a favore del gruppo in amoxicillina (differenza media 0.19; p = 0.02). Il comportamento è stato simile per i sintomi riferiti: non significatività ai giorni 3 e 10 ed una debole significatività al giorno 7. Non si sono infine rilevate differenza negli outcomes secondari né si sono rilevati, in alcun gruppo, eventi avversi. 

Garbutt JM et al.JAMA 2012; 307(7): 685-692

 620 total views

Più aumenta la pressione arteriosa, più aumenta il rischio di fibrillazione atriale

14 Lug 2012 Cardiologia

La fibrillazione atriale (FA), l’aritmia cardiaca in assoluto più comune, si verifica nell’1-2% della popolazione generale e la sua incidenza è in aumento, tanto che ci si aspetta che raddoppi nei prossimi 50 anni. L’ipertensione (IA) è il maggior fattore di rischio di FA e recentemente uno studio effettuato sulle donne ha dimostrato un maggior rischio di FA anche per la pressione normale-alta. Hypertension ha recentemente pubblicato uno studio epidemiologico a lungo termine in cui si è estesa agli uomini questa relazione: in Norvegia sono strati studiati 2.014 uomini sani, arruolati tra il 1972 e il 1975, e sono stati seguiti in un follow up di 30 anni, con 270 casi di FA documentata. I soggetti esaminati sono stati divisi in quartili e si è osservato che il rischio di FA aumentava significativamente (1.60 volte) negli uomini con una PAS basale > 140 mm Hg e di 1.50 volte in quelli con una pressione normale-alta (128-138 mm Hg, terzo quartile) confrontati con quelli con una PAS < 128 mm Hg (quartile più basso). La PAD basale > 80 mm Hg aumentava il rischio di FA di 1.79 volte confrontato con i soggetti che avevano una PAD basale < 80 mm Hg. Le differenze si mantenevano significative anche se  aggiustate per diabete o malattie cardiovascolari insorte prima della FA (durante i 30 anni di osservazione, ci sono stati 115 pazienti che hanno sviluppato una di queste condizioni). Nell’editoriale che accompagna lo studio, Verdecchia si domanda se, visto che i soggetti con PA normale-alta sviluppano ipertensione più di quelli con PA ottimale, sia possibile che la FA si sia sviluppata non tanto nei pazienti con PA nomale-alta, ma in pazienti che nel frattempo erano diventati ipertesi. Comunque è chiaro che questi risultati inducono ad una politica ancora più aggressiva nei confronti dell’IA ma anche della PA normale-alta ed è importantissimo che si conducano studi di intervento per chiarire la relazione tra le strategie di controllo della PA ed il rischio di FA.

Grundvold I et al. Hypertension 2012, 59:198-204
Verdecchia P et al. Hypertension 2012; 59: 184-185

 2,075 total views

Le recenti linee guida ACP per lo screening del cancro colo-rettale

13 Lug 2012 Oncologia

Il cancro colorettale (CRC) costituisce la seconda causa di morte cancro-correlata negli USA sia per gli uomini che per le donne, e lo screening per una sua individuazione precoce andrebbe eseguito in tutta la popolazione sopra i 50 anni. Purtroppo solo il 60% della popolazione adulta esegue gli esami di screening e questo nonostante l’impegno delle Società Scientifiche. Recentemente gli Annals hanno pubblicato le ultime linee guida (LG) dell’American College of Physicians, che in estrema sintesi raccomandano (vedi tabella 2, Figure 1 e 2)

  1. il medico dovrebbe essere in grado di individuare e valutare i fattori di rischio per morbilità e mortalità di CRC, che consistono nell’età anziana, nella razza nera, nell’anamnesi positiva per infiammazione intestinale, poliposi e CRC e nella familiarità per CRC
  2. il medico dovrebbe sottoporre a screening tutta la popolazione sopra i 50 anni, ma nella popolazione ad alto rischio lo screening andrebbe effettuato già a partire dai 40 anni e, se vi è familiarità, 10 anni prima dell’età del  più giovane componente della famiglia in cui si è fatta diagnosi di CRC; lo sforzo e gli eventuali pericoli vengono premiati in termini di riduzione della mortalità
  3. i pazienti a medio rischio possono essere  sottoposti a colonscopia, a sigmoidoscopia e/o a ricerca del sangue occulto nelle feci (SOF) secondo valutazioni che includono le preferenze del paziente stesso; comunque dopo i 50 anni i pazienti a medio rischio andrebbero sottoposti a colonscopia ogni 10 anni, a sigmoidoscopia o a colonscopia virtuale o clisma opaco a doppio contrasto ogni 5 e a ricerca SOF ogni anno
  4. i pazienti ad alto rischio vanno sottoposti a colonscopia e non a sigmoidoscopia
  5. dopo i 75 anni e nei pazienti con spettanza di vita inferiore a 10 anni i test di screening andrebbero interrotti, perché i pericoli (sanguinamento, perforazioni  intestinali, reazioni avverse dovute alla preparazione) superano i benefici.

Qaseem A et al. Ann Intern Med2012;156:378-386

 535 total views

Scompenso cardiaco e indicazioni terapeutiche delle Linee Guida

12 Lug 2012 Cardiologia

Alcuni cardiologi di Los Angeles, confrontando un gruppo di pazienti con scompenso cardiaco che erano deceduti entro due anni dall’arruolamento con un altro gruppo di pazienti che invece non erano morti, hanno voluto verificare se il rischio di mortalità fosse correlabile all’attinenza o meno alle raccomandazioni terapeutiche contenute nelle principali linee guida sullo scompenso cardiaco. L’ uso dei beta-bloccanti e, laddove necessaria, della terapia di re-sincronizzazione cardiaca (CRT) ha ridotto significativamente il rischio di morte rispettivamente del 58% e del 56%, mentre gli sforzi educativi circa la ottimale gestione della insufficienza cardiaca lo ha ridotto del 27%. Ininfluente invece l’utilizzo degli antagonisti dell’aldosterone (vedi tabella 1). I ricercatori hanno inoltre osservato una riduzione della mortalità incrementale ad ogni successivo trattamento raccomandato dalle linee guida: infatti associando beta-bloccanti agli ACE-inibitori e/o sartani e/o all’ICD, come pure ad una buona educazione sulla gestione della insufficienza cardiaca, si è osservata una straordinaria riduzione del rischio di morte a due anni, pari all’81%, anche se si è rilevato un plateau una volta che il paziente veniva trattato con quattro o cinque differenti terapie (vedi tabella 2). Ovvie le conclusioni degli autori dello studio circa la necessità di utilizzare le linee guida sia in termini di terapia al basale che di necessità di una sua modificazione incrementale nel corso della evoluzione clinica dello scompenso; conclusioni ovvie ma utili per rafforzare nei clinici questa necessità. 

Fonarow GC et al. Incremental Reduction in Risk of Death Associated With Use of Guideline-Recommended Therapies in Patients With Heart Failure: A Nested Case-Control Analysis of IMPROVE HF  Journal of the American Heart Association. 2012; 1: 16-26

 650 total views

Per quanto tempo la terapia antiandrogena nel carcinoma prostatico radiotrattato?

La terapia antiandrogena è un trattamento molto efficace nel cancro (ca) prostatico localmente avanzato e si utilizza dopo la radioterapia, ma per quanto tempo va somministrata? Classicamente viene somministrata per 3 anni, ma rischia di essere mal tollerata e per di più ci sono delle segnalazioni che una terapia per soli 6 mesi, che provoca molto meno effetti secondari ed una qualità di vita molto migliore, dia dei risultati simili. La questione è importante sotto il profilo clinico, ed uno studio pubblicato su Lancet Oncology l’ha affrontata cercando di individuare quali siano i pazienti in cui la radioterapia ed una soppressione androgenica per soli 6 mesi sia insufficiente. Utilizzando come endpoint la mortalità da ca prostatico gli AA hanno utilizzato il PSA come test precoce surrogato. Lo studio è il risultato di 2 trials (uno americano e uno australia-asiatico) che hanno raccolto, random, 734 uomini con un ca prostatico localmente avanzato, nei quali sono stati utilizzati il PSA alla fine dei 6 mesi (PSA end) e la concentrazione più bassa di PSA (PSA nadir). Gli AA hanno osservato che sicuramente la terapia antiandrogena accompagnata alla radioterapia era più efficace della sola radioterapia (p < 0.0001), ma un PSA end superiore a 0.5 ng/mL era indice di maggiore rischio, per cui i pazienti con questi valori dovrebbero essere presi in considerazione per una soppressione a lungo termine. Anche un PSA nadir superiore a 0.5 ng/mL è indice di rischio e pure questi pazienti dovrebbero essere considerati per un trattamento a 3 anni (vedi figura). Lo studio è importante perché offre anche al medico non specialista un’indicazione accessibile per una prosecuzione del trattamento con antiandrogeni in questo tipo di pazienti, ma ha dei limiti oggettivi: gli effetti sulla concentrazione del PSA possono esser determinati non solo dagli antiandrogeni, ma anche da farmaci concomitanti utilizzati nei due studi, per cui si rendono necessari ulteriori trials randomizzati che chiariscano questi dubbi.

D’Amico AV et al. Lancet Oncol 2012; 13: 189-95

 522 total views,  1 views today

La duplice antiaggregazione se somministrata precocemente è efficace e sicura per prevenire altri episodi ictali

Un recente studio meta-analitico (The Acute Antiplatelet Stroke Trialists Collaboration) ha voluto confrontare sicurezza ed efficacia di un duplice trattamento antiaggregante somministrato entro 3 giorni dalla comparsa della sintomatologia ictale vs la usuale monoterapia. Allo scopo sono stati revisionati tutti gli studi presenti in letteratura che avessero come endpoint primario la recidiva di ictus (ischemico, emorragico, sconosciuto, fatale, non-fatale) e che consentissero questo confronto. Ne sono stati selezionati 12 per un totale di oltre 3.700 pazienti. Questo quanto è risultato

  • rispetto alla monoterapia, la duplice antiaggregazione (ASA-dipiridamolo o ASA-clopidogrel) ha significativamente ridotto
    • la recidiva di ictus a 3.3% (58 eventi) vs 5.0% (91 eventi); risk ratio 0.67; 95% CI 0.49-0.93)
    • gli eventi vascolari (ictus, infarto miocardico, morte vascolare) a 4.4% (74 eventi) vs 6% (106), risk ratio 0.75, 95% CI 0.56-0.99)
    • la combinazione di ictus, attacco ischemico transitorio, sindrome coronarica acuta, e morte per tutte le cause a 1.7% (100) vs 9.1 (136 eventi), risk ratio 0.71, 95% CI 0.56-0.91)
  • riguardo ai sanguinamenti, la duplice antiaggregazione ha evidenziato un trend non significativo di aumento dei sanguinamenti maggiori a 0.9% (15 eventi) vs 0.4% (6 eventi) con monoterapia, risk ratio 2.09, 95% CI 0.86-5.06.

Gli autori della meta-analisi concludono nel seguente modo: quando somministrata precocemente, la duplice antiaggregazione ha mostrato maggior efficacia della mono-terapia e buona sicurezza per prevenire le recidive di ictus e di eventi cardiovascolari; tuttavia i dati andranno validati con ulteriori studi prospettici. 

Geeganage CM et al for the Acute Antiplatelet Stroke Trialists Collaboration. Dual or Mono Antiplatelet Therapy for Patients With Acute Ischemic Stroke or Transient Ischemic Attack: Systematic Review and Meta-Analysis of Randomized Controlled Trials. Stroke 2012 Jan 26 [Epub ahead of print]

 467 total views,  1 views today

Ipertensione arteriosa e scarsa compliance alla terapia: uno studio randomizzato

La scarsa aderenza alla terapia è una delle maggiori cause di insuccesso nel trattamento dell’ipertensione arteriosa: ci sono dei dati in letteratura che indicano come i pazienti ipertesi assumano solo il 53-70% dei farmaci loro prescritti. Uno studio inglese (eseguito però in Giordania) si è posto l’obiettivo di stabilire, in pazienti ipertesi non complianti, l’efficacia di un programma finalizzato ad ottenere una stretta aderenza alla terapia confrontato con una gestione usuale del paziente iperteso. Sono stati identificati 181 soggetti non complianti, 45 dei quali (gli irriducibili) rifiutarono di partecipare; dei rimanenti 136, la metà (68), randomizzati in singolo cieco, ricevettero le indicazioni terapeutiche ma gli altri 68, in aggiunta alle indicazioni terapeutiche, vennero inclusi in un programma di educazione. In estrema sintesi, il programma di educazione consisteva in 7 sessioni di educazione sanitaria di 20 minuti per un periodo di 7 settimane. La pressione basale media era di 164,5 mmHg (SD 10.0). L’endpoint principale era la pressione arteriosa  sistolica (PAS) a 11 settimane, l’endpoint secondario la pressione arteriosa diastolica (PAD). I risultati, sebbene lo studio sia di piccole dimensioni, non lasciano adito a dubbi: l’aderenza alla terapia è aumentata del 37% ma, quello che più conta, la PAS si è ridotta di 23,1 mm Hg (95% CI -25.85, -20.36), e la PAD di 15,2 mm Hg (95% CI -17.55, -12.80). Non si sono verificati effetti avversi di rilievo. In conclusione, lo studio ci offre una conferma in più a quanto già sapevamo: un programma di educazione per migliorare l’aderenza alla terapia, oltre ad ottenere effettivamente una migliore aderenza, determina un’importante riduzione della pressione arteriosa, e con essa, naturalmente, un minore rischio cardiovascolare.

Alhalaiqa F et al. Journal of Human Hypertension 2012; 26: 117-126

 413 total views,  1 views today

1 25 26 27 28 29 258

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?