Terapia a lungo termine con bassa dose di interferone pegilato ed eccesso di mortalità

HALT-C (Hepatitis C Antiviral Long-term treatment against Cirrhosis) è uno studio prospettico, multicentrico, randomizzato e controllato, che è stato eseguito per valutare se una terapia protratta con una bassa dose (90 mcg ogni settimana per iniezione sottocutanea) di interferone pegilato alfa2a (PegINF) può favorire una progressione più lenta delle epatopatie croniche (EC) gravi da virus C (HCV) in pazienti che non hanno risposto ad un precedente trattamento per 20 settimane a pieno dosaggio con PegINF (180 mcg ogni settimana per iniezione sottocutanea) e ribavirina (1.000-1.200 mg per os ogni giorno). La randomizzazione è stata eseguita alla 24° settimana ed il gruppo di controllo non ha ricevuto alcun trattamento antivirale. La terapia è stata praticata per 3 anni e mezzo. Le conclusioni dello studio indicano che la terapia protratta con una bassa dose di PegINF non influisce sulla progressione di malattia nei pazienti con EC da HCV con fibrosi avanzata, con o senza cirrosi. I ricercatori dell’HALT-C Trial Group hanno esteso l’analisi dei dati dello studio per ulteriori differenti valutazioni correlate alla terapia di mantenimento con PegINF nei medesimi soggetti con malattia cronica da HCV in fase avanzata. Tra l’altro sono state indagate la frequenza e la causa dei decessi in questa coorte di pazienti. In una mediana di 5.7 anni (range 0-8 anni) su 1.050 pazienti randomizzati ne sono deceduti 122 (12%). 74 pazienti (7%) hanno ricevuto un trapianto di fegato; di essi sono successivamente deceduti 10, che sono stati inclusi nel numero totali delle morti. 66 decessi (62%) sono stati causati dalla malattia epatica e 46 (36%) da cause diverse. Già dopo 3 anni di terapia si è rilevato, rispetto ai controlli, un eccesso di mortalità dovuto soprattutto ad una malattia non correlata con la patologia epatica; la mortalità da patologia epatica è stata simile nel gruppo trattato e in quello di controllo. A 7 anni la mortalità globale è stato maggiore nel gruppo trattato (20%) rispetto al gruppo di controllo (15%) con p = 0.049. La mortalità è stata maggiore nel gruppo con fibrosi (14%) rispetto al gruppo con cirrosi (7%) con p = 0.01. L’inserimento dei soggetti sottoposti a trapianto non ha apportato variazioni significative ai dati sopra indicati. Ciò potrebbe essere spiegato, almeno in parte, con il risultato di un’altra analisi statistica eseguita dall’HALT-C Trial Group che ha documentato come la terapia prolungata con basse dosi di Peg-INF non riduca l’incidenza del carcinoma epatocellulare (HCC) nei pazienti con fibrosi avanzata che non avevano ottenuto una  risposta virologica sostenuta con terapia standard; la riduzione si è verificata invece nei pazienti con cirrosi. Rimangono invece sconosciuti i motivi per cui vi è stato un eccesso di mortalità nei pazienti randomizzati per la terapia di mantenimento a lungo termine e a basse dosi con PegINF. Eventi avversi gravi da PegINF non sembrano aver avuto un ruolo rilevante: solo in un caso di setticemia, data una stretta correlazione temporale con l’iniezione di PegINF, viene ammesso un ruolo importante e forse decisivo del farmaco. Si può ipotizzare la responsabilità degli effetti del PegINF sulla risposta immunologia dell’ospite, ma non è stato possibile dimostrare un’incidenza molto più elevata di malattie potenzialmente fatali (cardiopatie, pneumopatie o neoplasie). Anche il tentativo di individuare fattori generici di rischio, quali il fumo o l’obesità, non ha dato risultati significativi. Ulteriori studi sull’argomento sono dunque necessari. Ma nel frattempo l’HALT-C Trial Group raccomanda di valutare con prudenza l’impiego della terapia a lungo termine con Peg-INF e di attuare un’attenta sorveglianza anche di tutte le patologie apparentemente non correlate. 

Di Bisceglie AM et al. (HALT-C Trial Investigators). Prolonged therapy of advanced chronic hepatitis C with low-dose peginterferon. N Engl J Med 2008; 359:2429-41
Lok AS et al.(Halt-C Trial Group). Maintenance peginterferon therapy and other factors associated with epatocellular carcinoma in patients with advanced hepatitis C. Gastroenterology 2011; 140:840-9
Di Bisceglie AM et al. (HALT-C Trial Group). Excess Mortality in Patients with Advanced Chronic Hepatitis C Treated with Long-Term Peginterferon.
Hepatology 2011; 53:1100-8

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Field medicine: un nuovo paradigma della medicina geriatrica

Il Dipartimento di Geriatria della Kochi Medical Scool ha sviluppato negli anni a cavallo del nuovo millennio un progetto di ricerca e di intervento sul campo, utilizzando – per primo in Giappone – il “Comprehensive Geriatric Assessment” (la nostra Valutazione Multidimensionale) per una valutazione effettuata sulla popolazione anziana, non limitatamente all’ambito ospedaliero, ma anche sul territorio, nelle famiglie e nelle case di riposo  La ricerca sul campo è stata compiuta nel ventennio 1990 – 2010 nelle piccole comunità di Kahoku e Tosa, la cui elevata concentrazione di popolazione ultrasessantacinquenne (29% e 40% rispettivamente, in confronto alla media nazionale del 12% all’inizio dello studio) consentiva di proiettarne i risultati alla popolazione giapponese del 2025 e del 2050. La valutazione comprendeva un questionario annuale sullo stato di salute, una valutazione funzionale, cognitiva, sociale, neuro-comportamentale, la somministrazione della Geriatric Depression scale, un esame medico e neurologico: in definitiva una piccola Framingham geriatrica asiatica. Dati rilevanti si sono ottenuti sullo stato cognitivo e funzionale della popolazione anziana giapponese e sulla correlazione con numerose variabili cliniche o sociali, sul profilo di rischio di caduta, sulla qualità di vita e sulle aspettative degli anziani valutati, sugli effetti dei programmi di intervento che man mano venivano sviluppati. Analoghi programmi sono stati somministrati a gruppi di popolazione asiatica nei più diversi contesti (villaggi agricoli vietnamiti, case di riposo in Mianmar, popolazione anziana del Tibet) permettendo lo sviluppo di programmi di intervento misurati sulle risorse disponibili in loco ma non per questo privi di efficacia. Particolarmente rilevante il dato che emerge dallo studio delle popolazioni himalayane, il cui adattamento genetico e culturale alla vita in ambiente a bassa tensione di ossigeno è stressato dalla globalizzazione e dai cambiamenti di stile di vita. La comprensione tuttavia del processo di invecchiamento nelle popolazioni himalayane e della loro attitudine verso malattia e vecchiaia può essere sommamente illuminante rispetto alla questione fondamentale in geriatria: che cos’è per l’uomo l'”optimal aging”? Consapevolezza di sé e profonda spiritualità non sono meno importanti di una buona salute e di un buon inserimento economico e sociale. 

Matshubayasci K et al. Geriatr Gerontol Int 2012; 12: 5-15

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In dieci categorie di cibi le cause di una eccessiva introduzione di sodio

Negli USA e nelle popolazioni occidentali si consuma troppo sodio rispetto a quanto raccomandato dalle Linee Guida che ne consigliano meno di 2.300 mg/die in generale e 1.500 mg in popolazioni particolari (diabetici, ipertesi, neri). Come sappiamo, non basta non aggiungere sale alla dieta, ma conta soprattutto la quantità di sale contenuto negli alimenti che consumiamo. Un rapporto diffuso nel What We Eat in America, National Health and Nutrition Examination Survey, 2007-2008, pubblicato nel febbraio 2012, ha coinvolto 9.013 persone di età uguale o superiore a 2 anni. Di queste 7.227 hanno (o è stato per loro) completato un questionario (52% donne, 46% uomini, ispanoamericani e afroamericani compresi), e si sono avuti i seguenti risultati (vedi tabelle 2,3,4)

  • il consumo medio di sodio è stato di 3.266 mg/die, escludendo il sale aggiunto a tavola

  • il 44% del sodio consumato proveniva da 10 alimenti: pane e panini, carni trattate in vario modo, pizza, pollame, sandwiches, formaggio, piatti di pasta misti, piatti di carne misti e spuntini

  • più del 70% del sodio proveniva dai cibi stoccati nei magazzini

  • per la pizza e il pollame, rispettivamente il 51% e il 27% del sodio proveniva dai fast-foods, che rappresentano i pasti più critici.

In Europa la situazione non è sicuramente molto differente e, considerati i problemi per la salute (in particolare l’ipertensione) causati dal sodio, emerge quanto sia importante una politica educazionale sul suo consumo, sia rivolta alla popolazione sia rivolta ai ristoratori, ed è fondamentale l’impegno dei medici al riguardo. Lo studio calcola che ridurre il sodio di questi alimenti di ¼ può ridurne l’introito totale del 10%, prevenire 28.000 morti e risparmiare 7 miliardi di dollari nella sanità. 

Vital Signs: Food Categories Contributing the Most to Sodium Consumption — United States, 2007-2008. Weekly, 2012 (February 10); 61(05): 92-98

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Cardiosfere infuse nelle coronarie riducono l’area infartuale

L’infusione intracoronarica di cellule autologhe derivate da cardiosfere (Cdc, sfere di cellule staminali proliferanti di origine miocardica) nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra dopo infarto miocardico, è sicura e determina, a distanza di qualche mese, la riduzione dell’area cicatriziale e un aumento di massa cardiaca vitale. Il dato, in precedenza conseguito in modelli preclinici, trova ora riscontro sull’uomo in uno studio prospettico randomizzato di fase 1, denominato Caduceus (Cardiosphere-derived autologous stem cells to reverse ventricular dysfunction). Il trial è stato condotto dal team di Raj R. Makkar, del Cedars-Sinai heart institute di Los Angeles (Usa), su 25 pazienti che avevano subito un infarto da 2 a 4 settimane prima. Sul totale degli arruolati, 8 sono stati assegnati alle cure standard e 17 al trattamento con Cdc. In questi ultimi, le cellule autologhe proliferate da campioni bioptici endomiocardici sono state infuse nell’arteria correlata all’area infartuale 1,5-3 mesi dopo l’evento, senza che si verificassero mai complicanze. A un follow-up di 6 mesi nessun paziente era deceduto, né aveva sviluppato tumori cardiaci o eventi avversi cardiaci maggiori. Nel gruppo Cdc, 4 pazienti (24%) hanno avuto eventi avversi gravi contro 1 solo soggetto tra i controlli (13%). L’analisi Rm, però, nei soggetti trattati con Cdc ha evidenziato diminuzioni della massa cicatriziale e aumenti di massa cardiaca vitale, contrattilità regionale e ispessimento regionale sistolico della parete. In ogni caso, non si sono rilevate differenze fra i 2 gruppi per quanto riguarda le modificazioni del volume  telediastolico e telesistolico e della frazione d’eiezione ventricolare sinistra. Gli autori, alla luce dei risultati ottenuti, compatibili con la dimostrazione di una rigenerazionale terapeutica di tessuto miocardico vitale, ritengono si debba proseguire la ricerca in questo settore con studi di fase 2.

Lancet, 2012 Feb 14.

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Dalla genomica per indagare autismo e deficit intellettivi

Nel corso dell’ultimo decennio, i progressi nella ricerca genetica hanno permesso di individuare alcune particolarità genetiche connesse all’autismo e alle disabilità intellettive, così come ad altri disturbi. Tre specialisti americani ne discutono su The New England journal of medicine e passano in rassegna le diverse tecniche che hanno permesso la rapida scoperta di cause genetiche nell’autismo e in diverse patologie che comportano danni alle funzionalità intellettive. Dalla scoperta della trisomia del cromosoma 21 nella sindrome di Down, molte altre anomalie sono state individuate. Per esempio, la sindrome da microdelezione di 17q21.31 è stata recentemente identificata grazie alla tecnologia dei microarray ad alta risoluzione e si associa a disabilità intellettiva, ipotonia, convulsioni, dismorfie facciali, disturbi renali e cardiaci. Un altro esempio è dato dalle delezioni di 16p11.2, riscontrate in pazienti con autismo e associate anche a soggetti non autistici ma con disabilità intellettive. L’analisi di Dna microarray viene raccomandata come test nei bambini con disabilità intellettive, ritardi di sviluppo, autismo o anomalie congenite e fornisce una diagnosi molecolare nel 15-20% dei casi. Anche il sequenziamento dell’intero esoma si è rivelato uno strumento molto valido nei laboratori di ricerca, dove i primi successi si sono avuti con l’identificazione del gene malattia nella sindrome di Freeman-Sheldon (MYH3). Ma ora la tecnica sta rapidamente entrando nei laboratori diagnostici e si traduce «in migliori diagnosi, prognosi e terapie per questi gravi disturbi».

N Engl J Med, 2012; 366(8):733-43

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Sclerosi multipla: apoptosi oligodendrocitica non è la causa

Ricercatori dell’università di Zurigo, guidati da Giuseppe Locatelli, in collaborazione con colleghi di Berlino, Magonza, Lipsia e Monaco di Baviera, smentiscono l’ipotesi secondo cui la morte degli oligodendrociti, le cellule che producono la guaina mielinica nel sistema nervoso centrale (Snc), costituirebbe uno dei meccanismi che scatenano la sclerosi multipla. Lo sviluppo di autoanticorpi contro la mielina si associa comunemente alla sclerosi multipla, ma rimane elusivo il fenomeno che scatena questa autoreattività; una delle possibilità che sono state suggerite è costituita appunto dall’apoptosi degli oligodendrociti. Allo scopo di sottoporre a verifica questa ipotesi, l’équipe svizzero-tedesca ha indotto l’apoptosi oligodendrocitica in vivo in un modello murino. Ne è risultata una forte attivazione di microglia e macrofagi, con componenti della mielina drenati nei linfonodi ed esposizione degli antigeni del Snc ai linfociti. Tuttavia, anche in condizioni favorevoli, gli scienziati non sono riusciti nemmeno una volta a osservare lo sviluppo della sclerosi multipla e ne hanno dedotto che, «a differenza di quanto riportato precedentemente, una diffusa apoptosi degli oligodendrociti, da soli o in combinazione con un’attivazione immunitaria, non scatena autoimmunità del Snc». Alla luce di questi risultati, gli autori ritengono che l’ipotesi neurodegenerativa risulti dunque obsoleta e che la ricerca sulla patogenesi della sclerosi multipla sia destinata in futuro a concentrarsi meno sul cervello e più sul versante del sistema immunitario.

Nat Neurosci, 2012 Feb 26. [Epub ahead of print]

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Alti valori di vitamina D diminuiscono il rischio di Crohn

Elevati livelli plasmatici di 25-idrossivitamina D hanno dimostrato – in un’ampia coorte costituita solo da donne – di ridurre in modo significativo il rischio di morbo di Crohn e, seppure in modo statisticamente non significativo, di colite ulcerosa. È l’esito di una ricerca iniziata nel 1986, quando un team di ricercatori afferenti a diverse strutture ospedaliere di Boston chiese a 72.719 donne, di età compresa tra i 40 e i 73 anni, di compilare un questionario relativo alla loro alimentazione e allo stile di vita; basandosi su questi dati vennero elaborati valori predetti di 25(OH)D rispetto ai livelli misurati direttamente nel plasma. Lungo un follow-up di 1.492.811 anni-persona, durato complessivamente fino al 2008, gli autori  – coordinati da Ashwin N. Ananthakrishnan, del Massachusetts general hospital di Boston (Usa) – hanno documentato 122 casi di morbo di Crohn e 123 di colite ulcerosa. Il livello medio predetto di 25(OH)D è stato di 22,3 ng/mL nel quartile inferiore e di 32,2 ng/mL in quello superiore. Rispetto al quartile con valori più bassi di vitamina D, il quartile superiore si è associato a un hazard ratio per il morbo di Crohn di 0,54 e per la colite ulcerosa di 0,65. La correlazione inversa che intercorre tra i livelli di vitamina D e queste due patologie si conferma in modo ancora più evidente se si prende in considerazione il rischio delle donne con livelli predetti di 25(OH)D superiori ai 30 ng/mL rispetto a quello delle donne con valori inferiori ai 20 ng/mL: l’hazard ratio è stato rispettivamente di 0,38 e di 0,57 per la malattia di Crohn e per la colite ulcerosa. 

Gastroenterology, 2012; 142(3):482-9

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Prognosi buona se il melanoma è sottile

1 Lug 2012 Oncologia

La prognosi a lungo termine dei pazienti con melanoma sottile è positiva, mentre è giustificata una vigilanza clinica continua nei soggetti con melanoma nodulare o con tumori di maggiore spessore. Il dato proviene da una ricerca condotta nel Queensland, in Australia, dove sono stati definiti i tassi di sopravvivenza a 20 anni di pazienti con diagnosi di melanoma sottile (=/<1 mm) nella popolazione generale, determinando anche i principali fattori prognostici. I ricercatori, facenti capo ad Adèle C. Greene del Royal Brisbane hospital, hanno estratto dal Registro statale del cancro i dati clinici e istologici disponibili riguardanti tutti i pazienti cui era stata posta la diagnosi di singolo melanoma invasivo sottile tra il 1982 e il 2006; questi dati sono stati quindi confrontati con le certificazioni di morte. Sono state infine silate stime di sopravvivenza specifiche per il melanoma a tutto il 31 dicembre 2007. Nell’ambito delle 26.736 persone nello stato del Queensland con diagnosi di melanoma sottile, il tasso di sopravvivenza a 20 anni è risultato del 96%. I fattori di maggiore impatto sulla prognosi sono apparsi uno spessore tumorale =/>0,75 mm (hazard ratio, Hr: 4,33 rispetto a lesioni <0,25 mm) e un’età al momento della diagnosi superiore a 65 anni (Hr: 2,8 rispetto a età inferiore a 25 anni). I fattori che, ognuno in modo indipendente, hanno  aumentato il rischio di morire per melanoma sottile invasivo si sono dimostrati: i melanomi acrali lentigginosi e i tumori nodulari, il sesso maschile, la localizzazione del tumore sulla testa o sul collo, l’invasione dell’intero derma papillare.

J Clin Oncol, 2012 Mar 12. [Epub ahead of print]

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Verso l’assunzione quotidiana di Asa per prevenire il cancro

Una serie di tre articoli (due apparsi su Lancet, il terzo su Lancet Oncology) – tutti firmati da Peter M. Rothwell, dell’università di Oxford (UK) – aggiungono ulteriori indicazioni circa la possibilità di ricorrere all’assunzione quotidiana di acido acetilsalicilico (Asa) per prevenire e forse trattare il cancro. Nel primo studio sono analizzati i dati individuali di pazienti coinvolti in 51 trial randomizzati di Asa vs non Asa nella prevenzione di eventi vascolari. Si è visto che l’Asa riduce il rischio di morte per cancro del 15% rispetto ai controlli. Questo valore sale a 37% nel caso di pazienti in terapia da oltre 5 anni. La diminuzione dei decessi da cancro ha coinciso con una riduzione del 12% delle morti globali non vascolari equivalente al 91% di tutti i decessi. «Accanto alla nota diminuzione del rischio di cancro a lungo termine» commenta Rothwell «si nota una diminuzione di incidenza e mortalità tumorale a breve termine e un rischio ridotto di sanguinamenti maggiori extracranici da uso esteso». Nel secondo articolo si analizza l’effetto dell’Asa sulle metastasi; i dati sono stati raccolti da 5 grandi trial randomizzati con Asa 75 mg/die o più vs controllo per la prevenzione di eventi vascolari, durante i quali sono stati  diagnosticati i secondarismi. A un follow-up medio di 6,5 anni, il gruppo Asa ha visto ridotto il rischio di cancro con metastasi a distanza del 36%, di adenocarcinoma (colon, polmone, prostata) del 46% e di altri tumori solidi (vescica, rene) del 18%. Gli effetti, indipendenti dall’età e dal sesso, si sono  realizzati con la formulazione a basse dosi e a lento rilascio. Anche il terzo studio analizza l’effetto dell’Asa sulle metastasi, attraverso una revisione sistematica di trial osservazionali vs trial randomizzati (Rct). Questo confronto è stato effettuato in quanto gli Rct con Asa hanno chiaramente stabilito la riduzione di rischio di ca colorettale (42%), di vari altri tumori solidi e di metastasi, ma non hanno il potere statistico per stabilire gli effetti su forme di cancro meno comuni o che colpiscono le donne. Inoltre gli studi osservazionali hanno il vantaggio di poter dare risultati in tempi molto brevi, rispetto ai 10-20 anni dei trial prospettici. «Gli studi osservazionali» osserva Rohwell «evidenziano che l’assunzione regolare di Asa riduce i rischi a lungo termine di vari tumori e delle metastasi a distanza e sono coerenti con quelli degli Rct». 

Lancet, 2012 Mar 21. [Epub ahead of print]
Lancet, 2012 Mar 21. [Epub ahead of print]
Lancet Oncol, 2012 Mar 21. [Epub ahead of print]

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OSAS nelle donne: pericolosa come negli uomini

La sindrome da apnee notturne (OSA) è ormai conosciuta come un importante fattore di rischio cardiovascolare (cv), ma gli studi riguardano prevalentemente gli uomini. Se sia un fattore di rischio cv anche per lo donne non era ancora ben sicuro e ciò ha importanza rilevante sia perché le donne russatrici sono più numerose di quanto si pensi, sia perché bisogna valutare se la CPAP (continuous positive airway pressure) è associata anche per loro ad un miglioramento del rischio. A tale riguardo un gruppo spagnolo ha raccolto i dati, in uno studio prospettico osservazionale, di due cliniche del sonno che hanno esaminato tutte le donne presentatesi per sospetta OSA (1.116) nel periodo dal 1998 al 2007, per un follow-up mediano di 72 mesi. Il gruppo di controllo era costituito da donne con un indice apnea-ipopnea inferiore a 10 e l’OSA veniva diagnosticata quando l’indice era superiore a 10. Se la CPAP veniva utilizzata per più di 4 ore le pazienti venivano classificate come CPAP-treated, se meno di 4 h CPAP untreated. L’end point era molto forte: la morte cardiovascolare. I risultati sono stati nettamente a favore delle donne con un basso indice apnea/ipopnea, a dimostrazione che l’OSA è un fattore di rischio anche per le donne, e stesso discorso vale per il trattamento: le donne con OSA severa non trattata avevano un HR di 3.50 contro 0.55 delle donne trattate con CPAP. Ma anche per le pazienti con OSA lieve moderata, se non trattate, la prognosi era peggiore di quelle trattate (HR1.60 vs 0.19). Non sembrano quindi esserci dubbi: nonostante lo studio non sia randomizzato e sia solo osservazionale, l’OSA è associata con un maggiore rischio di morte cardiovascolare anche nelle donne ed un’adeguata terapia con CPAP può ridurre questo rischio. 

Campos-Rodriguez F et al. Cardiovascular mortality in women with obstructive sleep apnea with or without continuous positive airway pressure treatment: a cohort study. Ann Intern Med. 2012; 156(2):115-122

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