Iud a rilascio di levonorgestrel per dolore endometriosico

Un sistema a rilascio intrauterino di levonorgestrel si è dimostrato efficace e ben tollerato per una terapia a lungo termine dopo chirurgia conservativa in donne con dolore moderato-grave correlato a endometriosi. Il dispositivo si è rivelato in grado di migliorare la qualità di vita delle pazienti e la loro salute sia fisica che mentale. È l’esito di un trial controllato in doppio cieco – condotto da Prason Tanmahasamut e colleghi dell’università Mahidol di Bangkok (Thailandia) – su 55 pazienti con endometriosi e dismenorrea da moderata a grave (visual analog scale, Vas, superiore a 50 mm) sottoposte a chirurgia laparoscopica conservativa. Le donne sono state randomizzate, dopo l’intervento, al device intrauterino (n=28) o in un gruppo sottoposto a osservazione e attesa (n=27). Dopo 12 mesi, il gruppo levonorgestrel aveva un valore medio del punteggio di dismenorrea e dolore pelvico non ciclico significativamente inferiore. Rispetto al gruppo controllo, le donne con il dispositivo intrauterino mostravano una maggiore riduzione alla Vas per dismenorrea e dolore pelvico, ma una simile riduzione alla Vas per dispareunia. Due pazienti nel gruppo levonorgestrel (7,4%) e 9 tra i controlli (39,1%) hanno presentato episodi ricorrenti di dismenorrea entro un anno dall’operazione. Il number-needed-to-treat per prevenire un caso di dismenorrea recidivante  entro il primo anno postoperatorio si è attestato a 3 casi. I punteggi del questionario Short Form-36 sullo stato di salute sono migliorati nel gruppo con il dispositivo intrauterino, non nelle donne poste in osservazione e attesa. Non si sono avute gravi eventi avversi lungo tutto lo studio.

Obstet Gynecol, 2012; 119(3):519-26

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Il vaccino per l’epatite C: i progressi di un valido programma sperimentale

Finalmente si intravvede una promettente prospettiva per la realizzazione di un vaccino per l’epatite da HCV, atteso da lungo tempo. Infatti un gruppo di ricercatori, di cui fa parte una numerosa rappresentanza italiana, ha selezionato tra i numerosi ceppi (più di 1.000) degli adenovirus degli scimpanzé alcuni ceppi rari che – a differenza di altri già noti (in particolare l’Ad5) e rivelatisi di scarsa utilità per la preparazione di vaccini – possono comportarsi anche nell’uomo come vettori di antigeni di diversi agenti d’infezione senza che il loro potenziale immunogenetico sia neutralizzato da preesistenti anticorpi: ciò avviene perché insieme alla reazione immunitaria umorale anticorpale viene indotta anche quella cellulare basata sui linfociti T. Tra i nuovi vaccini, la cui produzione può essere consentita con l’impiego di questi vettori, rientra anche quello per la prevenzione dell’epatite da HCV, preparato dal medesimo gruppo di ricercatori con la realizzazione in volontari sani del primo studio clinico di fase 1. I virus utilizzati per il trasferimento nei linfociti umani delle proteine NS di HCV genotipo 1 B erano  adenovirus ricombinanti del ceppo umano 6 (Ad6) e del ceppo dello scimpanzé 3 (Ad3). La protezione si è estesa a ceppi eterologhi di HCV, quali i genotipi 1 A e 3 A e si è realizzata  attraverso l’induzione di una risposta da  parte delle cellule T CD4+ e CD8+; si è ottenuta una secrezione di IFN-gamma, TNFalfa, MIP1beta ed interleuchina-2, associata a fenomeni di degranulazione cellulare. I risultati dello studio consentono  di chiarire altri  importanti interrogativi

  • la risposta appare sufficiente ad assicurare la protezione contro l’infezione da HCV per oltre un anno, indicando una persistenza a lungo termine della memoria immunologica
  • la risposta immunologica difensiva si estende ad un ampio spettro di antigeni virali, costituendo un importante meccanismo di limitazione dell’escape virale, anche per un agente che è caratterizzato da numerosi genotipi e sottotipi
  • la risposta difensiva appare correlata in maggior misura ai linfociti T CD4+ ed è comparabile a quella indotta dall’infezione naturale.

Naturalmente – lo affermano gli autori della sperimentazione – sono necessari ulteriori studi clinici per confermare l’azione protettiva (e far ipotizzare anche quella terapeutica?) verso l’infezione da HCV; ma vi sono fondati elementi di giudizio che consentono di affermare che è stato intrapreso un percorso sperimentale corretto e verosimilmente fattivo. 

Colloca S et al. Vaccine Vectors Derived from a Large Collection of Simian Adenoviruses Induce potent Cellular Immunity Across Multiple Species. Sci Transl Med 2012; 4: 115ra2
Barnes E et al. Novel Adenovirus-Based Vaccines Induce Broad and Sustained T cell Response to HCV in Man. Sci Transl Med 2012; 4: 115ra1

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Basse emissioni di carbonio, più salute alla popolazione

Un articolo pubblicato sul British Medical Journal sostiene che la salute non è adeguatamente considerata nell’elaborazione delle politiche ambientali e mostra come si potrebbero ottenere benefici sanitari generalizzati dalla riduzione dei gas che producono l’effetto serra. Sir Andy Haines della London school of hygiene and tropical medicine e Carlos Dora dell’Organizzazione mondiale della sanità fanno l’esempio del passaggio dalla combustione del carbone a una produzione di energia elettrica con metodi a basso impatto ambientale, che comporterebbe una riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di composti dannosi alla salute: restringendo l’analisi solo all’India, questo cambio di politiche industriali e ambientali eviterebbe circa 90.000 morti premature all’anno. Gli autori sottolineano gli aspetti economici dell’operazione e ricordano che il costo, certamente elevato, della riconversione all’economia verde verrebbe bilanciato dal risparmio di ingentissime spese sanitarie: l’incidenza di patologie cardiache e cerebrovascolari, depressione, malattia di Alzheimer, diabete, cancro al seno e al colon potrebbe ridursi drasticamente in conseguenza di un abbattimento minimo dell’inquinamento e delle emissioni dei gas serra. Secondo Haines e Dora, le autorità che si trovano a prendere decisioni su tematiche dal forte impatto ambientale dovrebbero abituarsi a consultare sistematicamente gli esperti di sanità, che «possono promuovere una maggiore sensibilità e fornire tutte le evidenze per aiutare la scelta di politiche in grado di migliorare la salute».

BMJ, 2012; 344:e1018

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Staminali mesenchimali autologhe anti-rigetto

12 Giu 2012 Nefrologia

Nei pazienti sottoposti a trapianto di rene, l’utilizzo di cellule staminali mesenchimali autologhe ha prodotto – rispetto a quello degli anticorpi anti recettori Il-2 – un’inferiore incidenza di fenomeni di rigetto e di infezioni opportunistiche, oltre a una migliore funzionalità renale. È quanto si è visto in uno studio randomizzato controllato su 156 persone, realizzato da Jianming Tan, dell’università Xiamen di Fuzhou (Cina) e collaboratori. Dopo una suddivisione in 3 gruppi, a 53 pazienti sono state iniettate cellule staminali mesenchimali derivate dal midollo (1−2xÌ10(6)/kg) alla riperfusione renale e due settimane dopo, altri 52 hanno ricevuto una dose ridotta all’80% mentre 51 pazienti sono serviti come gruppo di controllo, trattato con una dose standard di anticorpi anti recettori Il-2. Dopo 6 mesi, il rigetto acuto confermato da biopsia si è verificato nel 7,5% dei pazienti che avevano ricevuto il dosaggio standard di staminali e nel 7,7% di coloro che erano stati trattati con un dosaggio ridotto, rispetto al 21,6% dei soggetti inseriti nel gruppo di controllo. Nessuno dei rigetti avvenuti nei pazienti trattati con le cellule staminali si è rivelato resistente all’azione dei glucocorticoidi, mentre ciò si è verificato in 4 dei soggetti che avevano ricevuto gli anti-recettori Il-2. Inoltre la somministrazione di staminali mesenchimali autologhe si è associata a un più veloce recupero della funzionalità renale con un aumento del livello di eGFR superiore al gruppo di controllo durante il primo mese. I benefici si sono estesi anche su tempi più lunghi, con una riduzione delle infezioni opportunistiche rilevata al controllo effettuato dopo un anno di follow-up.

JAMA, 2012; 307(11):1169-77

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Terapia e sospensione degli inibitori della colinesterasi

12 Giu 2012 Neurologia

 

I risultati di uno studio franco-canadese suggeriscono che, contrariamente a quanto precedentemente riportato, interruzioni nel trattamento con inibitori della colinesterasi non ne compromettono i risultati nei pazienti anziani affetti da demenza. Durante gli otto anni compresi tra l’inizio del 2000 e la fine del 2007, un’analisi di sopravvivenza è stata condotta dagli autori – coordinati da Antoine Pariente, dell’università di Bordeaux Segalen – tra 24.394 soggetti dai 66 anni in su, ospitati in residenze per anziani ubicate in Quebec. La discontinuità di trattamento è stata definita da un’interruzione nella somministrazione dei farmaci contro l’Alzheimer per almeno sei settimane. In totale questa condizione si è verificata in 4.108 persone (16,8%) nel primo anno di terapia, mentre 596 (il 2,4%) hanno interrotto il trattamento già nei primi tre mesi e 4.038 (16,6%) dopo tre mesi. Fra tutti pazienti trattati con inibitori della colinesterasi, 4.409 sono stati ospedalizzati o sono deceduti durante il follow-up. L’interruzione del trattamento si è associata a un rischio leggermente inferiore di istituzionalizzazione o decesso (hazard ratio 0,91), che è invece risultato superiore nei soggetti ultraottantenni e in coloro che facevano uso di farmaci antipsicotici. Il genere femminile e l’assunzione di statine sono risultate invece condizioni associate a una riduzione del rischio.

Neurology, 2012 Mar 14

 

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Da rivedere i criteri di diagnosi precoce del tumore ovarico

12 Giu 2012 Oncologia

Secondo uno studio canadese, la percentuale di carcinomi sierosi ad alto grado che originano esternamente all’ovaio suggerisce che i programmi di diagnosi precoce dovrebbero cercare di identificare i tumori a basso volume piuttosto che quelli ai primi stadi e che gli approcci diagnostici dovrebbero essere modificati di conseguenza. Tra il 2008 e il 2011, Lucy Gilbert e collaboratori della McGill university di Montreal hanno incluso nello studio 1.455 donne di almeno cinquant’anni che presentavano i sintomi del tumore dell’ovaio e hanno proposto loro un controllo diagnostico dell’antigene carboidrato 125 (CA-125) e un’ecografia transvaginale (Tvus) presso lo University health centre di Montreal. Il 27,6% di loro avevano più di 65 anni e appartenevano dunque al gruppo di più alto rischio relativamente all’età e nel 16,4% dei casi si sono resi necessari approfondimenti diagnostici ulteriori. In totale sono stati identificati 22 tumori ginecologici tra cui 11 tumori invasivi dell’ovaio, compresi 9 carcinomi sierosi ad alto grado, che statisticamente comportano il maggior numero di decessi. Quindi, la prevalenza dei tumori ovarici invasivi è stata dello 0,76%: dieci volte superiore di quella riportata in studi relativi a screening generalizzati. Dei carcinomi sierosi ad alto grado, sette (il 78%) hanno avuto origine all’esterno dell’ovaio e cinque si sono associati ad aumenti leggeri nelle concentrazioni di CA-125 e a minime o nessuna anomalia rilevabili attraverso la Tvus. Anche se lo screening delle donne sintomatiche ha dimostrato di portare a una diagnosi precoce, gli autori ritengono prematuro estendere questo approccio su larga scala.

Lancet Oncol, 2012; 13(3):285-91

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Tracciante prognostico di rischio e tipo di demenza

L’esame Pet eseguito con Fddnp (tracciante che si lega alle placche amiloidi e ai grovigli neurofibrillari) evidenzia, in soggetti non affetti da Alzheimer, pattern che possono associarsi in modo differenziato al rischio di demenza. Lo ha stabilito un’équipe della University of California, a Los Angeles (Usa), guidata da Linda M. Ercoli, dopo aver sottoposto 54 soggetti con invecchiamento fisiologico (n=28) o forme amnestiche da lieve declino cognitivo (n=26) all’esame Pet sia con Fddnp sia con fluordesossiglucosio (Fdg). Le scansioni con quest’ultimo tracciante hanno fornito una validazione indipendente delle evidenze emerse con l’altra indagine. Va ricordato che, in un precedente studio eseguito con Fddnp, erano stati identificati 3 sottogruppi di soggetti in base al pattern di legame del tracciante: basso legame globale (Lg), elevato legame frontale, parietale, temporale mediale (Hf/Pa), e alto legame in sede temporale mediale e laterale e del cingolo posteriore (Ht/Pc). I sottogruppi Fddnp-Pet hanno mostrato differenti pattern di metabolismo glucidico sulla base delle consuete tecniche di valutazione Fdg-Pet. Il sottogruppo Lg non ha evidenziato aree di ipometabolismo significativo rispetto agli altri sottogruppi, e ha presentato un basso rischio di malattia di Alzheimer secondo gli standard Fdg-Pet. Nel sottogruppo Hf/Pa si è notato ipometabolismo nelle aree parietali/parietotemporali inferiori bilateralmente, nel cingolo posteriore a livello bilaterale, nella corteccia perisilviana, nel giro temporale medio, e nelle regioni prefrontali dorsotemporali: un pattern indicativo di elevato rischio di Alzheimer.  Infine, il sottogruppo Ht/Pc ha dimostrato pattern eterogenei di Fdg-Pet con predominante ipometabolismo frontale e temporale anteriore, indicativo di eziologie miste, compreso il rischio di demenza fronto-temporale. 

Int J Geriatr Psychiatry, 2012 Mar 1.

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Condroitinsolfato modula l’angiogenesi sinoviale nell’artrosi

31 Mag 2012 Ortopedia

Nelle aree infiammate delle membrane sinoviali artrosiche, è espresso un fenotipo proangiogenico caratterizzato da una maggiore presenza di interleuchina-1beta (Il-1beta); quest’ultima induce un disequilibrio tra fattori proangiogenici e antiangiogenici nei fibroblasti sinoviali che il condroitinsolfato tende a normalizzare, evidenziando un nuovo meccanismo d’azione del farmaco nell’artrosi. La scoperta è stata effettuata da un team europeo coordinato da Cécile Lambert dell’Unità di ricerca su osso e cartilagine di Liegi (Belgio), basandosi su biopsie delle aree normale/reattive (N/R) o infiammatorie (I)  della sinovia al momento dell’atto chirurgico. Lo stato infiammatorio è stato stabilito sulla base di criteri macroscopici come vascolarizzazione, formazione di villi e aspetto ipertrofico del tessuto. È stata quindi valutata l’espressione di Cd45, fattore di von Willebrand, e antigene Vegf in entrambi i tipi di biopsia. Si è poi misurata la produzione di Il-6, Il-8, Vegf e trombospondina-1 (Tsp-1). I fibroblasti sono stati messi in colture in assenza o in presenza d Il-1beta e con o senza condroitinsolfato. Si è determinata l’espressione genica di fattori sia proangiogenici, come quello di crescita vascolare endoteliale (Vegf), sia antiangiogenici, tra i quali l’inibitore della crescita vascolare endoteliale (Vegi), la Tsp-1 e la Tsp-2. Si è infine stimata la produzione di Vegi e Tsp-1. L’immunoistochimica ha dimostrato nelle biopsie relative alle aree I, rispetto a quelle delle aree N/R, un aumento di infiltrazione linfocitaria, densità vascolare, ed espressione di Vegf. Si è visto che le cellule sinoviali della zona I, rispetto alle altre, producevano più Il-6, Il-8 e Vegf, ma meno Tsp-1. Si è anche verificato che l’espressione di fattori proangiogenici da parte dei fibroblasti sinoviali veniva stimolato dall’Il-1beta. Il condroitinsolfato, infine, eliminava l’effetto inibitorio esercitato da Il-1beta su fattori antiangiogenici, Vegi e Tsp-1.

Arthritis Res Ther, 2012 Mar 12;14(2):R58

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Helicobacter pylori correlato all’HbA1c, se Bmi elevato

La presenza di H. pylori può giocare un ruolo nello sviluppo del diabete, infatti si associa a elevati livelli di HbA1c, soprattutto negli individui obesi.È quanto hanno rilevato Yu Chen e Martin J. Blaser, della New York university School of medicine, i quali hanno effettuato un’analisi trasversale di dati appartenenti a 7.417 partecipanti al terzo National health & nutrition examination survey (Nhanes III) e a 6.702 soggetti compresi nel Nhanes 1999-2000. Non si sono riscontrate associazioni tra H. pylori e storia autoriferita di diabete, ma la sieropositività all’H. Pylori, soprattutto se positivo al gene cagA, è apparsa associata positivamente con i livelli di HbA1c, dopo aver escluso gli individui con storia di diabete e controllato per fattori confondenti.Si è anche notata un’interazione sinergica tra H. pylori ed elevato body mass index (Bmi), tale per cui livelli aumentati di HbA1c associati a presenza di H. pylori ed elevato Bmi portavano a un effetto superiore rispetto a quello determinato dalla somma degli effetti dei singoli fattori. I due autori ritengono che il batterio possa influire sui livelli degli ormoni gastrici che aiutano a regolare la glicemia; inoltre ipotizzano che l’eradicazione del microrganismo mediante antibiotici in alcuni soggetti obesi più anziani possa essere benefica.

J Infect Dis. 2012 Apr;205(8):1195-202

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Fattori di rischio cv specifici nei pazienti affetti da Les

Tranne il fumo, i tradizionali fattori di rischio di mortalità cardiovascolare (cv) non sono adeguati nei pazienti con lupus eritematoso sistemico (Les). Elementi come la cistatina C, marker infiammatori ed endoteliali, e gli anticorpi anticardiolipina (aCl), invece, sono in grado di differenziare i soggetti con prognosi favorevole oppure grave. Queste informazioni giungono dal Karolinska insitutet di Stoccolma (Svezia) dove un gruppo di studiosi coordinati da Johanna Gustafsson nell’arco di 4 anni ha analizzato 208 pazienti, ognuno dei quali seguito con un follow-up di oltre 12 mesi. Al momento dell’arruolamento si sono svolte una valutazione clinica, una raccolta dei fattori di rischio per malattia cardiovascolare e sono stati misurati vari biomarcatori. Sono stati anche analizzati i certificati di morte e i protocolli autoptici, classificando le cause del decesso in vascolari (Cvm), non vascolari (N-Vm) e dovute a ipertensione polmonare. Durante il follow-up sono deceduti 42 pazienti con un’età media di 62 anni. Il 48% delle morti è stato determinato da Cvm. Il sistema Score (Systematic coronaric risk evaluation) ha evidenziato di sottostimare i Cvm (seppure non in modo significativo). I più forti predittori di mortalità generale si sono dimostrati l’età, e la presenza di alti livelli sierici di cistatina C e di un’arteriopatia acclarata. Dopo aggiustamento per questi fattori, all’analisi multivariata sono rimasti predittivi di Cvm l’abitudine al fumo (il solo fra i tradizionali fattori di rischio), la molecola 1 di adesione cellulare vascolare solubile (sVCAM-1), la proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCrp), l’anti-beta2-glicoproteina I (abeta2Gp1) e l’assenza di anticorpi antifosfolipidi (aPl). Arthritis Res Ther, 2012 Mar 5;14(2):R46

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