Embolia polmonare, riviste le linee guida sull’imaging

Sono state recentemente riviste le linee guida dell’American college of radiology (Acr) per la scelta delle tecnica di imaging più appropriata e gli interventi da effettuare nel caso di pazienti affetti da dolore toracico e con sospetta embolia polmonare (Pe). La premessa è che, in assenza di un’elevata probabilità pre-test e con un test al D-dimero ad alta sensibilità negativo, la Pe può essere effettivamente esclusa; altrimenti può rendersi necessario l’imaging diagnostico. La radiografia del torace rimane il primo test, che può eliminare la necessità di ulteriori indagini evidenziando altre cause di sintomatologia acuta (come polmoniti o ampi versamenti). L’angiografia polmonare Tac (Ctpa) “multislice” è attualmente considerata il gold standard per la valutazione della Pe acuta. Un Ctpa positivo per Pe, combinato a un alto o medio sospetto clinico, ha un alto potere predittivo positivo; con un basso sospetto clinico e un Ctpa negativo, un’embolia può essere esclusa. Nel complesso, una Ctpa è più accurata di una Tac monostrato o di una scansione V/Q. La scintigrafia polmonare di perfusione e di ventilazione è stata l’esame di riferimento fino all’avvento della Ctpa, ma ancora oggi è valida: un normale quadro perfusorio in varie proiezioni, accompagnato da una normale scansione ventilatoria, è ampiamente accettato come indicativo di assenza di emboli polmonari e, quindi, assente necessità di ulteriori accertamenti. L’angiografia selettiva polmonare catatere-guidata è una tecnica invasiva ma sicura che, permettendo di misurare i livelli pressori dell’arteria polmonare e del cuore destro, consente di dimostrare un’embolia polmonare con un accettabile grado di sicurezza quando le altre tecniche falliscono. Le ecografie transtoracica e transesofagea non sono generalmente indicate nella diagnostica differenziale del dolore acuto toracico, mentre utili – ma usate solo in centri specializzati – sono l’angiografia Rm e l’imaging perfusiorio Rm per lo studio delle arterie polmonari centrali e segmentali. 

J Thor Imaging, 2012; 27(2):w28-31

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Nsclc, sulla sopravvivenza pesa la gravità dei sintomi

14 Mag 2012 Oncologia

Il paziente affetto da cancro deve condividere con il clinico le sue preferenze riguardo ai trattamenti e ai rischi connessi. A una migliore sopravvivenza libera da progressione (Pfs) di solito viene dato più valore se i sintomi sono lievi. È quanto dimostra un’esperienza effettuata da un gruppo di ricercatori guidati da John F. P. Bridges, della Johns Hopkins Bloomberg school of public health di Baltimora (Usa), che ha condotto in Gran Bretagna un’indagine online su 100 pazienti affetti da tumore polmonare non a piccole cellule (Nsclc), patologia il cui trattamento richiede decisioni complesse e che necessitano un bilancio rischio/beneficio dal punto di vista del paziente. Scopo della ricerca: identificare i benefici ritenuti sufficienti dai pazienti per compensare i rischi associati alla terapia. Alle domande hanno risposto 89 soggetti (73% maschi), che hanno completato correttamente il questionario. Gli aumenti di Pfs insieme alla riduzione della gravità dei sintomi sono considerati i fattori più importanti, e il cui valore aumenta con il protrarsi del Pfs (rilevate quote crescenti a 4, 5 e 7 mesi). In ogni caso, i miglioramenti del Pfs sono percepiti principalmente come benefici quando i sintomi della malattia sono lievi, peggiorativi quando i sintomi al contrario sono gravi. L’affaticamento è considerato il rischio principale, seguito da diarrea, nausea e vomito, febbre e infezioni, rash cutanei. La somministrazione orale degli agenti terapeutici è preferita alla via infusionale. I pazienti con sintomi lievi o moderati rispetto al valore della Pfs antepongono quelli di un minore rischio dei trattamenti o di una mancata percezione di sintomi gravi.

Lung Cancer, 2012 Feb 27. [Epub ahead of print]

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Anamnesi familiare identifica rischio cardiovascolare

14 Mag 2012 Cardiologia

Nell’ambito delle cure primarie, la raccolta sistematica dell’anamnesi familiare dai pazienti aumenta in modo significativo il numero dei soggetti identificati come ad alto rischio cardiovascolare. Lo sostengono Nadeem Qureshi dell’università di Nottingham (UK) e collaboratori, autori di uno studio controllato randomizzato a grappolo su 748 soggetti di età compresa fra i 30 e i 65 anni, senza diagnosi pregressa di rischio cardiovascolare (Cv). I partecipanti sono stati suddivisi in un gruppo controllo, in cui si effettuava una valutazione standard del rischio Cv, e in gruppo intervento, che prevedeva la raccolta dettagliata aggiuntiva dei dati anamnestici familiari e la compilazione – da parte del paziente – di un questionario relativo alla storia medica personale, con dettagli su malattie coronariche nei genitori e nei nonni e sulle caratteristiche fisiopatologiche degli altri familiari. In tutti i soggetti è stato calcolato il rischio Cv secondo il punteggio Framingham. Se tale rischio era =/> 20% lungo i 10 anni successivi, si offriva la possibilità di un appuntamento per una consulenza sugli stili di vita. Usando in modo sistematico la raccolta dell’anamnesi familiare, la percentuale di soggetti del gruppo intervento classificati ad alto rischio Cv (=/<20% a 10 anni) è aumentata del 40,8%, rispetto all’incremento del 5,6% del gruppo controllo dopo aggiunta dei dati familiari da record elettronici. Tra le due modalità di intervento (sistematica vs tradizionale), la percentuale di partecipanti ad alto rischio Cv in media è aumentata, rispettivamente, di 4,8 e 0,3 punti percentuali, con una differenza tra gruppi di 4,5 punti percentuali, rimasta significativa anche dopo correzioni per variabili confondenti. I ricercatori concludono che questa utile strategia di intervento, visti i bassi costi, l’alta adesione e gli elevati tassi di completamento dei questionari, è effettivamente percorribile. 

Ann Intern Med, 2012; 156(4):253-62

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Effetto sul peso: fruttosio uguale agli altri carboidrati

Il fruttosio non sembra causare un ulteriore aumento di peso quando sostituisce altri carboidrati in regimi dietetici che prevedono il medesimo apporto calorico. Lo si evince da una meta-analisi condotta da un team di studiosi canadesi. Il contributo che il consumo di questo zucchero, all’interno dei regimi alimentari tipici dei paesi occidentali, esercita sulla diffusione di sovrappeso e obesità è poco conosciuto. Allo scopo di ridurre questa incertezza, John L. Sievenpiper, della McMaster university di Hamilton, e i suoi colleghi, hanno ricercato sui principali database scientifici gli studi che hanno messo a confronto due tipi di studi controllati: quelli che indagavano gli effetti sul peso corporeo del fruttosio rispetto a quello di altri carboidrati in trial isocalorici, e quelli in cui il fruttosio veniva somministrato come integratore per produrre energia in eccesso rispetto a diete abituali o di controllo (trial ipercalorici). I ricercatori hanno individuato 31 trial del primo tipo, per un totale di 637 partecipanti, e 10 del secondo, corrispondenti a 119 soggetti. Si è trattato di studi tendenzialmente di breve durata (inferiore alle dodici settimane), su coorti poco numerose (spesso con meno di 15 soggetti analizzati) e di qualità modesta. Pur tenendo conto di questi limiti, i risultati degli studi isocalorici indicano effetti complessivi del fruttosio sul peso corporeo simili agli altri carboidrati. Invece, agli alti dosaggi previsti negli studi ipercalorici, il fruttosio ha comportato un considerevole aumento del peso che tuttavia, secondo gli autori, «può essere attribuito all’eccesso di calorie più che al fruttosio in sé».

Ann Intern Med, 2012; 156(4):291-304

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Grave asma allergico, calibrare dose di omalizumab sulle IgE

Nei bambini affetti da grave asma allergico persistente in terapia supplementare con omalizumab, si ha un’estensiva eliminazione di immunoglobuline E (IgE) che influenza il sistema immunitario e la regolazione delle IgE. Ciò va considerato ai fini del dosaggio del farmaco a lungo termine, monitorando i pazienti a intervalli ravvicinati. La raccomandazione viene dal dipartimento di Pediatria dell’università Justus-Liebig di Giessen (Germania), dove Jens-Oliver Steisse collaboratori hanno valutato il livello sierico delle IgE in 10 pazienti di età compresa fra 8 e 17 anni trattati con omalizumab per un grave asma allergico bronchiale, subito prima dell’inizio del trattamento e 6 mesi dopo l’avvio del normale regime terapeutico con l’anticorpo monoclonale anti-IgE. Al follow-up tutti i partecipanti hanno evidenziato, rispetto al basale, una marcata riduzione dei livelli di IgE (misurati con metodi più precisi di quelli maggiormente diffusi, che non distinguono tra IgE libere o legate a omalizumab), non confermando quindi l’aumento delle IgE totali dopo l’inizio del trattamento con omalizumab, descritto in letteratura.

Allergy Asthma Proc. 2012 Jan;33(1):77-81

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Cesarei, più complicanze nelle gravidanze successive

12 Mag 2012 Ginecologia

Le donne che partoriscono il loro primo bambino con un parto cesareo sono a maggior rischio di complicanze nelle gravidanze successive. Lo rivela uno studio condotto da Sherri Jackson, del Cedars-Sinai medical center di Los Angeles (Usa), e collaboratori, sui dati relativi a 24.839 donne, tratti dalla Danish national birth cohort (Dnbc). A fronte di un ricorso al parto cesareo che in molti paesi, come gli Stati Uniti, costituisce un fenomeno in crescita, questo studio è solo il più recente di una serie di approfondimenti che segnalano le numerose problematiche che si associano al parto non vaginale. Dopo un aggiustamento statistico per età, indice di massa corporea, consumo di alcool, abitudine al fumo e condizioni socio-economiche, i ricercatori hanno calcolato l’aumento di rischio delle 3.340 donne con precedente parto cesareo rispetto alle 21.499 che avevano partorito in modo naturale. Nei parti successivi il maggior rischio di anemia è stato quantificato con un odds ratio (Or) di 2,8 laddove il distacco intempestivo di placenta si è associato a un Or di 2,3, la rottura di utero di 268 e l’isterectomia di 28,8. «Il numero assoluto di questi eventi è stato modesto, di conseguenza gli intervalli di confidenza sono piuttosto ampi» ammettono i ricercatori «ma i risultati sono in linea con i dati di letteratura». La forza di questa ricerca sta nell’aver tenuto conto di numerosi fattori confondenti, seguito nel tempo le partecipanti e verificato tutte le eventuali complicazioni attraverso un sistema evoluto di registro ospedaliero.

Am J Obstet Gynecol, 2012; 206(2):139.e1-5

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Antipsicotici negli anziani, mortalità dose-correlata

12 Mag 2012 Geriatria

La somministrazione di farmaci antipsicotici è rischiosa nei pazienti anziani ai quali non dovrebbero essere prescritti se non in caso di effettiva necessità. Il concetto trova nuova linfa dai risultati di uno studio condotto su un’ampia popolazione da Krista F. Huybrechts, del Brigham and women’s hospital di Boston (Usa), e colleghi. I ricercatori hanno reclutato – in case di riposo statunitensi – 75.445 soggetti di età pari o superiore ai 65 anni, tutti nuovi utilizzatori di farmaci antipsicotici (aloperidolo, aripiprazolo, olanzapina, quetiapina, risperidone, ziprasidone). Di questi soggetti, esclusi i decessi per cancro, 6.598 sono morti durante i 180 giorni di follow-up dello studio. Rispetto a chi aveva utilizzato risperidone, i pazienti che avevano assunto aloperidolo hanno fatto registrare un rischio di morte doppio, mentre quelli trattati con quetiapina hanno mostrato un rischio inferiore. Non si sono invece osservate differenze significative negli altri farmaci. Il 49% dei decessi è stato attribuito a disturbi circolatori, il 10% a disturbi cerebrovascolari e il 15% a disturbi respiratori. Gli autori ritengono che l’utilizzo di questi farmaci sia comunque destinato a continuare per la necessità di qualche tipo di intervento nella sempre più diffusa popolazione affetta da demenza. Ma avvertono: «pur non provando una causalità di rapporto, i risultati suggeriscono che il rischio di decesso aumenti con dosaggi più elevati di antipsicotici, e che sia superiore per l’aloperidolo e inferiore per la quetiapina».

BMJ 2012;344:e977

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Diabete gravidico e ovaio policistico: più rischi

Le donne con sindrome dell’ovaio policistico (Pcos), se sviluppano diabete gestazionale (Gdm), hanno in seguito un rischio maggiore di andare incontro a una persistente alterazione del metabolismo glucidico. Lo dimostra uno studio prospettico caso-controllo condotto da Stefano Palomba, dell’università Magna Grecia di Catanzaro, su 42 donne gravide affetta da Pcos e Gdm, e su un gruppo controllo formato da 84 donne gravide con Gdm ma senza iperandrogenismo biochimico, policistosi ovarica e oligoanovulazione. I casi e i controlli sono stati messi in correlazione (in rapporto 1:2) per età e indice di massa corporea (Bmi). I profili glicemici sono stati studiati in tutte le partecipanti 6 e 12 settimane dopo il parto, poi ancora 18 mesi dopo. Sono stati quindi calcolati l’incidenza e il rischio relativo (Rr) di persistenza complessiva di un pattern glicemico anormale, così come di ogni specifica alterazione (ridotta tolleranza al glucosio, alterata glicemia a digiuno, diabete mellito). Trascorsi 18 mesi dal parto, le incidenze di alterata glicemia a digiuno, ridotta tolleranza al glucosio e di entrambi i parametri sono state significativamente più alte nei casi rispetto ai controlli. Al follow-up di 18 mesi, l’Rr di un outcome composito di alterazione del metabolismo glucidico nelle donne con Pcos è risultato di 3,45. 

Diabetes Care, 2012 Feb 14. [Epub ahead of print]

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Nessun influsso cortisonici su ca mammario 

L’impiego di cortisonici (in qualunque formulazione e dosaggio) non influisce sul rischio di cancro mammario. Il dato proviene da uno studio danese di popolazione caso-controllo, condotto nell’area della Danimarca settentrionale da Gitte Vrelits Sørensen e colleghi, dell’Ospedale universitario di Aarhus. I ricercatori, basandosi su un database relativo a 1,8 milioni di abitanti, hanno indagato l’associazione tra prescrizione di cortisonici e il rischio di cancro mammario. Nell’analisi sono stati inclusi 9.488 nuovi casi di tumore del seno, diagnosticati tra il 1994 e il 2008, e 94.786 controlli. Il team non ha riscontrato alcun effetto sul rischio di carcinoma della mammella negli utilizzatori (>2 prescrizioni) di qualsiasi tipo di glucocorticoide, per uso sia sistemico che inalatorio, rispetto ai non utilizzatori. L’assenza di correlazione è stata confermata anche dopo l’analisi dei dati suddivisi in categorie: uso recente (entro 2 anni prima) o pregresso (oltre 2 anni prima), dosi (elevato, intermedio o basso numero di prescrizioni). Neppure l’intensità dell’uso sistemico (dose cumulativa), indipendentemente dalla durata, è apparsa associata al rischio di cancro della mammella.

Breast Cancer Res, 2012 Feb 3;14(1):R21

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Pap test, esame salva-vita contro tumore cervice

2 Mag 2012 Oncologia

Il Pap test si può considerare un esame fondamentale per curare le donne con diagnosi di tumore della cervice uterina: nel 92% dei casi invasivi scoperti tramite lo screening, infatti, si ottiene una guarigione. Lo ha verificato uno studio svedese condotto dal Karolinska Institute di Stoccolma, dopo aver seguito 1.230 donne per una media di otto anni dopo la diagnosi di cancro. I ricercatori hanno osservato che questa percentuale era più alta nel 26% rispetto alle donne la cui diagnosi era stata posta perché sintomatiche (66%). Tra queste ultime, inoltre, la quota di guarigione era più alta del 14% tra quelle che avevano eseguito l’esame secondo gli intervalli raccomandati rispetto a quelle che erano arrivate in ritardo allo screening. Un altro dato registrato, che suggerisce l’efficacia del Pap test è quello per cui tre quarti delle 373 donne nel campione decedute a causa del cancro alla cervice, non si erano sottoposte al test negli ultimi anni. Lo screening, secondo Bengt Andrae dell’università di Uppsala, autore dello studio, riduce il rischio di tumore del collo dell’utero e, allo stesso tempo, è anche collegato a un migliore esito delle cure.

BMJ 2012;344:e900

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