Recidiva ictale con livelli pressori nel range di normalità

I pazienti colpiti da un recente ictus ischemico non cardioembolico potrebbero non tollerare livelli pressori nei limiti molto bassi di normalità. Dallo studio Profess (Prevention regimen for effectively avoiding second strokes) – condotto da Bruce Ovbiagele, dell’università della California, e collaboratori – emerge infatti che il rischio di recidive è molto elevato con valori di pressione arteriosa sistolica (Sbp) non solo alti (140-<150 mmHg) e molto alti (=/>150 mmHg), ma anche normali molto bassi (<120 mmHg). Il dato – che si discosta dalle attuali linee guida, secondo cui quanto maggiore è la diminuzione della Sbp (ritenuta normale a un livello <120 mmHg), tanto maggiore è la riduzione del rischio di recidive ictali – scaturisce da un’analisi osservazionale post hoc di un trial multicentrico in cui sono stati arruolati 20.330 pazienti (età =/>50 anni) colpiti da ictus non cardioembolico recente, seguiti per 2,5 anni e suddivisi in 5 categorie, in base al livello medio di Sbp: ‘normale molto basso’ (<120 mmHg), ‘normale basso’ (120-<130 mmHg), ‘normale alto’ (130-<140 mmHg), ‘alto’ (140-<150 mmHg) e ‘molto alto’ (=/>150 mmHg). I tassi di prima recidiva ictale (outcome primario) tra i pazienti dei gruppi con livelli ‘alti’ e ‘molto alti’ di Sbp sono stati 8,7% e 14,1%, rispettivamente. Fra i soggetti nel range di normalità i tassi di recidiva si sono attestati su 8,0% nel gruppo ‘normale molto basso’, 7,2% in quello ‘normale basso’, e 6,8% nel ‘normale alto’. Rispetto ai pazienti del gruppo ‘normale alto’ il rischio di ictus è aumentato di 1,23 e 2,08 volte nei pazienti con livello di Sbp, rispettivamente, ‘alto’ e ‘molto alto’. Il rischio di ictus, comunque, è aumentato significativamente di 1,29 volte anche nei soggetti del gruppo ‘normale molto basso’. Rispetto agli individui del gruppo ‘normale alto’, il rischio composito di ictus, infarto miocardico o morte per cause vascolari (outcome secondario) si è rivelato significativamente maggiore nei pazienti di tutti gli altri gruppi.

JAMA, 2011 Nov 16;306(19):2137-44

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Calreticulina, potenziale biomarcatore di cancro polmonare

3 Apr 2012 Oncologia

La calreticulina (Crt) è una molecola “chaperone” (ossia implicata nel corretto folding o ripiegamento delle proteine) presente nel reticolo endoplasmatico. Un’èquipe della Quarta università medica militare di Xi’an (Cina) guidata da Rongrong Liu ha dimostrato che la concentrazione di tale sostanza nel siero dei pazienti con cancro del polmone è superiore a quella dei soggetti sani e il suo livello di espressione sulle membrane cellulari del tumore è associato alla classificazione patologica e al grado. Per questo si pensa che la Crt possa costituire un utile marker predittivo e diagnostico. Utilizzando un metodo immunoenzimatico chemiluminescente (Cleia), il team ha scoperto che la Crt in forma solubile (sCrt) era presente in modo significativamente maggiore in campioni di siero di 58 pazienti affetti da cancro polmonare rispetto a 40 individui sani (solo in 9 di questi ultimi era rilevabile). Tra i soggetti con tumore polmonare, la sCrt nel siero era misurabile in quantità inferiori nel cancro polmonare a piccole cellule rispetto all’adenocarcinoma, e in entrambi i casi a dosaggi minori rispetto al carcinoma squamocellulare. Inoltre si è visto che i livelli sierici di sCrt erano maggiori nei pazienti che erano stati sottoposti a chemioterapia rispetto a quanti non avevano effettuato un trattamento chemioterapico. Ulteriori studi di immunoistochimica hanno evidenziato che la Crt è altamente espressa anche nel citoplasma e su altre membrane delle cellule cancerose, mentre è espressa in minime quantità nelle cellule polmonari normali. In modo analogo, il livello di espressione della Crt sulla membrana cellulare del tumore polmonare risulta associata al grado patologico del tumore.

Cancer Immunol Immunother, 2011 Nov 15. [Epub ahead of print]

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Inutile la rimozione di calcoli ureterali silenti

La presenza di calcoli ureterali silenti è associata a una ridotta funzione renale al momento della diagnosi. Dopo la loro rimozione, l’idronefrosi tende a diminuire ma la funzionalità renale rimane inalterata. Queste poche righe sono il frutto di 5 anni di osservazioni effettuate dal team di Giovanni S. Marchini, della Scuola medica universitaria di San Paolo del Brasile, che ha analizzato 506 pazienti sottoposti a ureterolitotrissia. Di questi, il 5,3% (n=27) ha soddisfatto i criteri previsti dalla definizione di calcoli ureterali silenti, ovvero scoperti in assenza di qualsiasi sintomo specifico o soggettivo correlato alla concrezione ureterale. Dopo l’intervento, tutti i pazienti sono stati sottoposti a esame scintigrafico statico con acido dimercaptosuccinico (Dmsa) per la valutazione del parenchima renale, considerando anormale una differenza relativa di funzionalità renale >10%. I corpi calcolotici sono stati diagnosticati durante un esame radiologico addominale per malattie non urologiche nel 40% dei casi e dopo un pregresso trattamento per nefrolitiasi nel 33% dei pazienti. La terapia primaria è stata l’ureterolitotrissia, effettuata nell’88% dei casi. Il tasso complessivo di assenza di calcoli ureterali dopo 1 e 2 procedure è stato del 96% e del 100%, rispettivamente. I livelli di creatinina sierica pre- e post-intervento sono risultati simili e la funzione media post-intervento all’esame con Dmsa si è attestata sul 31%. In una sottocoorte di 9 pazienti, in cui si sono messi a confronto gli esiti delle scintigrafie renali effettuate prima e dopo l’intervento, non si sono riscontrate differenze negli esiti degli esami (22% vs 20%, rispettivamente), così come nei livelli di creatinina sierica (0,8 mg/dL vs 1,0 mg/dL).

Urology, 2011 Nov 3. [Epub ahead of print]

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Talidomide: una nuova (e forse efficace) proposta terapeutica per i sanguinamenti intestinali da angiodisplasie

I pazienti con sanguinamento gastrointestinale ricorrente da malformazioni vascolari quali le angiodisplasie e/o le ectasie vascolari dell’antro gastrico rappresentano sicuramente una condizione clinica con difficile soluzione terapeutica. Attualmente le terapie convenzionali, tra cui l’embolizzazione angiografica, la ablazione endoscopica, e la resezione chirurgica, sono spesso inefficaci nel prevenire la recidiva del sanguinamento, ed i trattamenti farmacologici quali l’utilizzo degli estrogeni e della somatostatina o dei suoi analoghi quali l’octreotide, non hanno dimostrato di avere una sicura efficacia. Per tale motivo alcuni colleghi gastroenterolgi di Shanghai hanno voluto verificare se l’utilizzo di un agente antiangiogenetico come la talidomide potesse avere un ruolo nella prevenzione dei sanguinamenti da malformazioni vascolari dell’intestino. Lo studio – open-label, randomizzato – ha interessato 55 pazienti consecutivamente ricoverati per sanguinamenti dipendenti da angiodisplasie intestinali, randomizzati a ricevere 25 mg di talidomide 4 volte al giorno o 100 mg di ferro, sempre 4 volte al giorno per 4 mesi e poi seguiti per 1 anno. L’end point primario era il tasso di risposta efficace, definita come la proporzione di pazienti nei quali gli episodi di sanguinamento erano diminuiti di oltre il 50% nel periodo di follow-up (essendo il sanguinamento definito come un risultato positivo di un test di ricerca del sangue occulto fecale). Gli end points secondari includevano il tasso di cessazione del sanguinamento, il numero delle trasfusioni di sangue, l’ospedalizzazione generale e quella a causa di un sanguinamento intestinale. Sono stati ovviamente valutati anche gli effetti collaterali della talidomide (vedi tabella 1) che seppur comparsi in modo superiore rispetto al ferro non hanno comportato la cessazione della terapia. Questi i risultati

  • le percentuali di risposta nei gruppi talidomide e controllo sono state rispettivamente del 71.4% e 3.7%, (p < 0.001) con significativa riduzione degli episodi di sanguinamento (così come emerge dalla Figura 1)
  • la terapia con talidomide aveva anche efficacia significativamente superiore nei confronti di tutti gli end points secondari
  • i livelli di fattore di crescita vascolare endoteliale (Figura 2) sono stati significativamente ridotti dalla talidomide (p <0.001), a dimostrazione del meccanismo d’azione del farmaco.

La talidomide, attraverso la sua documentata azione antiangiogenetica, potrebbe quindi rappresentare una valida e relativamente sicura opzione terapeutica per la prevenzione dei sanguinamenti intestinali da malformazioni vascolari. Rimane tuttavia da verificare se trattamenti di durata maggiore ai 4 mesi possano avere negativi impatti coagulativi con insorgenza di episodi di tromboembolismo venoso. 

Ge ZZ et al. Efficacy of thalidomide for refractory gastrointestinal bleeding from vascular malformation. Gastroenterology 2011; 141(5):1629-37

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Serve abbassare il colesterolo nel grande anziano?

Un lavoro pubblicato a novembre da un gruppo di ricercatori olandesi sul Journal of American Geriatric Society ha evidenziato che livelli alti di colesterolo e di non-HDLc  sono associati con un più basso rischio di mortalità non cardiovascolare e totale. Ciò vale soprattutto per i grandi anziani. Il lavoro riguardava 5.750 adulti di età tra 55 e 99 anni, studiati per una mediana di 13.9 anni. Dai risultati si è visto che per ogni mml/L (1 mml/L = 38.61 mg/dL) di aumento del colesterolo totale c’era un rischio di mortalità non cardiovascolare minore del 12% (p<0.001), e ciò valeva soprattutto nelle età più avanzate ed era da ascrivere a valori di non-HDLc elevati, mentre l’HDLc  non era significativamente associato con la mortalità non cardiovascolare (p=0.26). (vedi Figura) Questo studio quindi si aggiunge al coro di quanti affermano che esista una relazione inversa, soprattutto nel grande anziano, tra colesterolo e mortalità totale. Il lavoro è accompagnato da un editoriale, secondo il quale è possibile che l’aumento della mortalità sia dovuto ad un abbassamento di peso, in genere presente quando si abbassa il colesterolo. Un’altra possibilità è che qualche componente del non-HDLc, come per esempio le grandi LDL, possa essere protettivo contro certe malattie e che le persone longeve possano essere ricche di questi elementi protettivi. In effetti le grandi LDL non sono aterogene e sono associate ad eccezionale longevità. Si debbono e/o si possono quindi usare le statine nei grandi anziani? Fino a quando non avremo dati su studi appositamente disegnati, l’orientamento è che nelle persone sopra gli 80 anni non vi sia una chiara evidenza che siano utili ed andrebbero quindi somministrate solo in presenza di alterazioni coronariche documentate angiograficamente. Inoltre si dovrebbero studiare le LDL di queste persone, e solo se si riscontra una preponderanza di LDL piccole e dense sarà consigliabile continuare con le statine. In pratica bisognerebbe valutare caso per caso. 

Newson RS et al. J Am Geriatr Soc 2011; 59:1779-1785

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I nuovi anticoagulanti orali come possibile terapia della trombocitopenia indotta da eparina

A dicembre è stato presentato all’Annual Meeting 2011 dell’American Society of Hematology uno studio che dimostra come i nuovi anticoagulanti orali (NAO) – dabigatran, rivaroxaban e apixaban – non interagiscono con gli anticorpi responsabili della trombocitopenia indotta da eparina (HIT), quelli cioè rivolti contro il complesso eparina-fattore piastrinico 4. Infatti, mentre l’aggiunta di enoxaparina al siero di soggetti con HIT sintomatica induceva aggregazione piastrinica e incremento del titolo degli anticorpi anti eparina-fattore piastrinico 4, apixaban, rivaroxaban e dabigatran non hanno aumentato tali anticorpi oltre 15.0 ng/mL. Inoltre, i ricercatori hanno notato che nessuno dei nuovi agenti orali ha indotto aggregazione piastrinica. Quasi il 5% dei pazienti trattati con eparina non frazionata ha un qualche tipo di effetto avverso. L’evento avverso più grave è, sicuramente, la trombocitopenia indotta da eparina, che ha esiti catastrofici. Di questi pazienti, circa il 10% sviluppa trombosi, sindrome HIT, ictus e altri danni vascolari. Anche se è rara, allorché l’HIT si verifica, le conseguenze possono essere molto gravi; avere a disposizione nuove armi terapeutiche in grado di contrastare il principale problema della HIT (la trombosi) rappresenta pertanto una valida prospettiva terapeutica per i nuovi anticoagulanti orali. 

Lewis BE, Aranda C, Lewis M, et al. Unlike heparins, newer oral anticoagulants do not interact with HIT antibodies and maybe useful in the long-term anticoagulant management of heparin-compromised patients. American Society of Hematology 2011 Annual Meeting; December 11, 2011; San Diego, CA. Abstract 2317.

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L’effectiveness dei trattamenti per il Clostridium Difficilis

Alcuni colleghi del Minneapolis Veterans Affairs Health Care System, della Medical School, dell’Evidence-based Practice Center, della School of Public Health e della School of Nursing della Università di Minneapolis in Minnesota hanno utilizzato MEDLINE, Amed, Clinical Trials.gov, e la Cochrane per una revisione bibliografia che intendeva identificare quello fra i vari trattamenti proposti per la terapia dell’infezione da Clostridium Difficilis che avesse una maggiore efficacia in termini di tempo di guarigione, sicurezza e riduzione delle recidive. Sono stati identificati 11 studi randomizzati e controllati che rispondevano agli stringenti criteri di inclusione e che riportavano i dati di oltre 1.400 pazienti trattati con i farmaci disponibili in USA. Di questi, 3 studi hanno confrontato il metronidazolo con la vancomicina ed i rimanenti 8 metronidazolo o vancomicina con un altro farmaco (fidaxomicina), con combinazioni farmacologiche o con placebo. Nessun farmaco si è dimostrato superiore agli altri nel trattamento iniziale della infezione. In un unico studio, che ha confrontato fidaxomicina (non ancora in commercio in Italia) con vancomicina, il nuovo farmaco è risultato capace di ridurre le recidive rispetto alla vancomicina (15% vs 25%, differenza -10 punti percentuali [95% CI, -17/-3 punti percentuali], p = 0.005). Nessuna differenza è stata riscontrata per ciò che riguarda la safety. 

Drekonja DM et al. Comparative Effectiveness of Clostridium difficile Treatments A Systematic Review. Ann Int Med 2011; 155 (12): 839-847

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Crollano i miti: una pressione sistolica più elevata comporta una prognosi migliore nel dolore toracico acuto

Negli USA circa 6 milioni di persone all’anno si presentano in un DEA per dolore toracico acuto; pertanto identificare i fattori di rischio diventa molto importante: tra questi l’ipertensione è uno dei principali, e tutti gli sforzi sono orientati a tenerla bassa. Ma inaspettatamente sono stati pubblicati alcuni lavori scientifici i quali suggeriscono che una pressione sistolica più elevata, nel dolore toracico acuto, è accompagnata ad una migliore prognosi. Siccome queste pubblicazioni non indicano se i pazienti erano affetti da insufficienza renale, da quanto durasse il dolore, quale fosse l’entità dello stress emodinamico, Irgan e collaboratori hanno concepito uno studio per valutare la prognosi ad un anno anche in rapporto a questi fattori. Lo studio è multicentrico, prospettico e osservazionale ed ha interessato 1.240 pazienti. La PAS alla presentazione è stata quantificata in quartili (Q1<127 mmHg; Q2 128142 mmHg; Q3 143160 mmHg; Q4>161 mmHg). I risultati hanno evidenziato che la mortalità è migliorata progressivamente dai quartili più bassi ai quartili più alti soprattutto nei pazienti che presentavano un dolore toracico da più di 12 ore. In conclusione, i pazienti con dolore toracico acuto che si presentavano in DEA mostravano un’associazione inversa tra valori di PAS e mortalità a 1 anno. Quelli con insufficienza renale preesistente si presentavano con valori pressori più bassi e quindi erano a maggiore rischio di mortalità a lungo termine, ma la relazione appariva molto più stretta nei pazienti che si presentavano in DEA con un dolore che durava da più di 12 ore. Non c’era rapporto tra mortalità a 1 anno e stress emodinamico (misurato col dosaggio del BNP). Lo studio ha molte limitazioni: è prospettico e non quantifica i potenziali effetti benefici di una stratificazione del rischio basata sulla misurazione della pressione; non è quantificato il grado di insufficienza renale perché i pazienti che richiedevano la dialisi erano stati esclusi; vanno infine esaminati con cautela i dati riguardanti la durata del dolore. Comunque è possibile che i pazienti che si presentano con una PAS più bassa siano affetti da più patologie e quindi più fragili e con una prognosi peggiore. 

Irfan A et al. European Journal of Internal Medicine 2011; 22: 495500

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Crampi notturni e uso di farmaci

Anche se è nozione comune che l’utilizzo di certi farmaci sia alla base dei crampi notturni, ad oggi non era mai stato fatto uno studio che ne oggettivasse l’evidenza. Alcuni colleghi farmaco-epidemiologi della British Columbia University di Vancouver, utilizzando i database sanitari di quello Stato dal 2000 al 2008, hanno valutato quale potesse essere il rapporto fra utilizzo dei diuretici, delle statine, dei beta2-agonisti inalatori a lunga durata d’azione (LABA) ed insorgenza dei crampi notturni, avendo come ulteriore parametro il numero di prescrizioni di chinino che in quel contesto è il farmaco maggiormente utilizzato per combatterli. L’adjusted sequence ratio (95% CI) per le 3 classi di farmaci è stata la seguente:

  • per i LABA 2.42 (2.02-2.89; p <0.001), con queste specifiche:
    • 2.17 (1.56-3.02) per il loro utilizzo singolo
    • 2.55 (2,06-3.12) quando usati in associazione con i corticosteroidi (p <0.001 per entrambi)
  • per i diuretici 1,47 (1,33-1,63 [p <0,001]), fra questi
    • 2.12 (1.61-2.78; p <0.001) per i risparmiatori di potassio
    • 1.48 (1.29-1.68; p <0.001) per tiazidici e i tiazidici-like
    • 1.20 (1.00-1.44; p = 0.07) per quelli dell’ansa
  • per le statine 1.16 (1.04-1.29; p = 0.004).

Il trattamento di questo sintomo non si è sostanzialmente modificato nel corso degli anni e prevede l’utilizzo prevalente del chinino. I dati confermano quindi la “nozione comune” e identificano nei LABA e nei diuretici le classi di farmaci che possono peggiorare i crampi notturni. 

Scott R et al. Nocturnal Leg Cramps and Prescription Use That Precedes Them: A Sequence Symmetry Analysis. Arch Intern Med. Published online December 12, 2011. doi:10.1001/archinternmed.2011.1029

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Bisfosfonati dimezzano interventi di revisione protesica

Nei pazienti sottoposti ad artroplastica agli arti inferiori, l’uso di bisfosfonati orali si associa ad almeno un raddoppio della sopravvivenza degli impianti. Lo rivela un ampio studio britannico condotto su tutti i pazienti sottoposti ad artroprotesi primaria totale di ginocchio o di anca

La ricerca è stata effettuata in Gran Bretagna sui dati dei pazienti sottoposti a chirurgia protesica d’anca (n=23.269) e di ginocchio (n=18.726) dal 1986 al 2006. Nel campione complessivo di 41.995 soggetti, Daniel Prieto-Alhambra dell’università di Oxford e i suoi colleghi ne hanno identificati 1.912 che avevano fatto uso di bisfosfonati in somministrazione orale (per almeno sei prescrizioni o per almeno sei mesi di terapia). In questo gruppo la percentuale di revisioni è stata dello 0,93% rispetto all’1,96% degli altri pazienti: dunque meno della metà per un totale di 107 interventi di revisione evitati, secondo l’analisi statistica dei ricercatori. L’effetto protettivo è stato superiore nei pazienti sottoposti ad artroprotesi di ginocchio rispetto a quelli operati all’anca, anche se questa differenza è stata piuttosto limitata. Infine, nei soggetti che avevano ricevuto una diagnosi di osteoartrosi da parte del proprio medico di base, l’utilizzo dei bisfosfonati ha avuto un effetto protettivo proporzionalmente maggiore, con un tempo di sopravvivenza incrementato almeno di tre volte. 

La spiegazione fornita dagli autori
La causa più comune di fallimento delle protesi agli arti inferiori è lo scollamento asettico, che è ritenuto responsabile del 56% di tutti gli interventi di revisione all’anca e del 41% al ginocchio. Si ritiene che lo scollamento sia da attribuire a una risposta infiammatoria cronica, che recluta macrofagi, osteoclasti e altre cellule fino a determinare un’accelerazione della perdita di osso periprotesico. Secondo gli autori dello studio, l’effetto protettivo dei bisfosfonati avverrebbe proprio agendo su questo meccanismo. Lo studio inglese si inserisce in uno scenario di dati talvolta contrastanti, ma nell’articolo, pubblicato sul British Medical Journal, si legge: «i nostri risultati sono coerenti con la maggior parte dei trial pubblicati, poiché noi abbiamo mostrato un significativo effetto protettivo adottando come punto di vista la percentuale di revisioni che si sono rese necessarie dopo l’intervento primario». Inoltre, anche se i dati statistici non sono sufficienti per un responso definitivo, i benefici maggiori sembrano verificarsi sul lungo periodo, dopo almeno cinque anni dalla terapia, proprio quando la causa più comune di fallimento è lo scollamento determinato dall’osteolisi. Naturalmente non si possono trascurare gli effetti avversi che si associano all’utilizzo dei bisfosfonati, ma Prieto-Alhambra riporta in proposito cifre molto basse: «l’osteonecrosi della mascella colpisce da 0,1 a 1 ogni 10.000 pazienti/anno, mentre sono circa 5 ogni 10.000 pazienti/anno a incorrere in fratture atipiche». 

BMJ 2011;343:d7222

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