Smi: riconoscere ai medici della Ca l’attività usurante

Riconoscere l’attività usurante anche ai medici della continuità assistenziale e dell’emergenza territoriale-118, con i connessi benefici previdenziali. Questa la richiesta che lo Smi ha indirizzato, attraverso una lettera, al ministro del Welfare, Elsa Foriero, chiedendo un incontro per affrontare il nodo. «I medici di continuità assistenziale» è la denuncia di Giuseppina Onotri, responsabile Smi della Continuità assistenziale «lavorano, almeno 96 notti l’anno e quelli di emergenza convenzionata almeno 84 notti. Tuttavia nonostante queste caratteristiche, questi professionisti non rientrano nelle categorie previste dai i lavori usuranti, in quanto non sono dipendenti». Si tratta invece di medici che «hanno caratteristiche equiparabili ai loro colleghi ospedalieri, perché prestano il loro servizio in strutture pubbliche e con un orario stabilito dalle Asl, lavorano di notte e in condizioni di stress evidenti, a contatto con le emergenze (talvolta anche straordinarie), e purtroppo, spesso anche in condizione di scarsa agibilità dal punto di vista delle strutture e di quello della sicurezza». Per di più, con un paradosso: «All’interno della stessa postazione di emergenza, operano fianco a fianco medici dipendenti che rientrano tra le categorie del lavoro notturno e usurante e altri, solo perché parasubordinati, che ne sono esclusi. Crediamo che questa sia una palese disparità di trattamento: nei fatti abbiamo medici di Serie A, portatori di diritti, e altri di Serie B senza tutele».

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Intramoenia, nel 2010 medici e strutture hanno incamerato 1,13 miliardi di euro

Ai medici ha fruttato poco più di un miliardo di euro, ad Asl e ospedali circa 74 milioni. È la contabilità dell’intramoenia 2010 così come emerge da uno studio pubblicato da Il Sole-24 Ore Sanità sulla base dei dati che arrivano dalla Relazione 2010 della situazione economica del paese, licenziata dal ministero delle Finanze soltanto a fine dicembre. Ne emerge un bilancio che riconferma il segno meno degli ultimi anni: l’attività libero professionale è costata nel 2010 agli italiani 1,13 miliardi, per una spesa procapite di 18,64 euro. Rispetto al 2009 fa circa un milione di euro in meno, mentre se il confronto si fa con il 2007 la differenza arriva addirittura a 122 milioni. Rispetto al primo quadriennio di vita dell’intramoenia l’inversione di tendenza è netta: nel 2004 la spesa totale ammontò a 89 milioni e nei quattro anni successivi crebbe costantemente fino al miliardo e 200 milioni del 2007. Va peraltro detto che i medici la fase declinante manco l’anno sentita: nel quadriennio 2007-2010, infatti, i loro introiti sono aumentati di 59 milioni grazie all’incremento progressivo della loro quota parte, che dall’87% del 2004 è oggi salita al 94%.
Significative, infine, anche le differenze regionali in termini di spesa procapite: nel 2010, gli emiliani hannoi speso in attività libero professionale 32,5 euro a testa, sette centesimi in meno dei toscani. I calabresi, invece, hanno speso in intramoenia 4,7 euro ciascuno e i molisani 5 euro.

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Nati morti: molti fattori di rischio già noti in gravidanza

Molti fattori di rischio, che avrebbero potuto essere riconosciuti al momento della conferma diagnostica della gravidanza, sono associati al rischio di avere bambini nati morti. Ogni elemento, però, rende conto soltanto di una piccola quota della varianza nell’ambito di questo possibile outcome. Lo ha stabilito uno studio di popolazione multicentrico caso-controllo condotto tra il 2006 e il 2008 dai ricercatori del Stillbirth collaborative research network writing group con la collaborazione di 59 ospedali statunitensi in grado di accedere ad almeno il 90% dei parti nel paese. Il team ha arruolato i residenti con almeno un parto di un bambino nato morto, e ha raccolto un campione rappresentativo di bambini nati vivi come gruppo controllo. La ricerca è stata condotta su 614 casi e 1.816 parti normali. All’analisi multivariata sono risultati associati in modo indipendente alla natimortalità un’ampia serie di fattori: l’etnia, un pregresso parto di un bambino nato morto, una condizione di nulliparità con o senza pregresse perdite del feto precedenti alle 20 settimane di gestazione, la presenza di diabete (odds ratio, Or vs assenza di diabete: 2,50), un’età della madre > 40 anni (Or vs 20-34 anni: 2,41), il gruppo sanguigno AB della madre (Or vs gruppo 0: 1,96), una storia di tossicodipendenza (Or vs nessun precedente uso di sostanze d’abuso: 2,08), l’abitudine al fumo di sigaretta nei 3 mesi precedenti la gravidanza (Or vs nessuna sigaretta: 1,55), l’obesità o il sovrappeso (Or vs normopeso: 1,72), il fatto di non convivere con un partner (Or vs convivenza con il coniuge: 1,62), la molteplicità di partner (Or vs monogamia: 4,59).

JAMA, 2011; 306(22):2469-79

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Maggiore rischio di cancro con distrofia muscolare miotonica

25 Mar 2012 Nefrologia

I pazienti affetti da distrofia muscolare miotonica (Mmd) – patologia neromuscolare multisistemica autosomica dominante – presentano un maggiore rischio di sviluppare cancro, sia in senso generale sia in riferimento a specifici distretti anatomici. Lo rivela un’analisi dei dati contenuti nei registri sanitari danesi e svedesi, effettuata da un board internazionale coordinato da Shahinaz M. Gadalla, dei National institutes of health (Nih) di Bethesda (Usa). I ricercatori hanno identificato 1.658 pazienti con diagnosi di Mmd alla dimissione tra il 1997 e il 2008 nei registri ospedalieri dei due paesi scandinavi. È stato quindi effettuato, per questi soggetti, un collegamento ai corrispondenti registri del cancro. I pazienti sono stati seguiti dalla data del primo contatto correlato alla Mmd fino alla prima diagnosi di cancro o al decesso. Come principale misura di outcome si è considerato il rischio per qualsiasi tipo di cancro combinato per la sede anatomica e stratificato per genere ed età. In totale 104 pazienti con diagnosi di Mmd hanno sviluppato un cancro nel corso del follow-up post-dimissione. Un dato corrispondente a un tasso di cancro, osservato nei pazienti con Mmd, di 73,4 per 10.000 anni-persona vs un tasso atteso, nella popolazione generale svedese e danese combinate, di 36,9 per 10.000 anni-persona. In particolare si è osservato un eccesso di rischio di cancro dell’endometrio, del cervello, dell’ovaio e del colon. I dati sono apparsi simili nelle donne e negli uomini (fatta eccezione per i tumori degli organi genitali). Lo stesso pattern di eccesso di cancro è stato rilevato prima nella coorte svedese, poi in quella danese, studiate in modo sequenziale e analizzate in una fase iniziale in modo indipendente.

JAMA, 2011; 306(22):2480-6

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Valutazione del rischio trombo embolico e di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale

I pazienti con fibrillazione atriale hanno un significativo rischio di ictus. L’entità di tale rischio dipende dalla presenza o assenza di altre condizioni che sono state utilizzate per sviluppare degli schemi di stratificazione del rischio. Lo schema più comune è il CHADS2. Questo strumento prende in considerazione 5 variabili per la definizione dello score: Scompenso cardiaco, Ipertensione, Età >= 75 anni, Diabete, Precedente ictus o TIA –con questo ultimo dato che vale doppio. Secondo questo schema i pazienti sono stratificati in alto, medio e basso rischio, destinando alla terapia con anticoagulanti orali quelli ad alto rischio, ad anticoagulanti o aspirina quelli a rischio intermedio mentre, per quelli a basso rischio, c’è l’indicazione ad utilizzare l’aspirina. Recenti studi hanno evidenziato che per i pazienti a rischio intermedio l’uso degli anticoagulanti orali riduce il numero di eventi senza aumentare gli effetti collaterali, viceversa nei pazienti a basso rischio sembrerebbe che l’aspirina non riduca il rischio di eventi tromboembolici. Da qui la necessità di identificare i pazienti “realmente a basso rischio”, che non necessitano di terapia antitrombotica, a differenza di tutti gli altri che dovrebbero essere avviati alla terapia anticoagulante orale.

Un ampio studio di coorte è stato realizzato in Danimarca analizzando 121.280 pazienti con fibrillazione atriale non valvolare ricoverati in ospedale e non trattati con antagonisti della vitamina K nel periodo compreso fra il 1997 ed il 2006. In particolare si è voluto confrontare il valore dello schema predittivo CHADS2 con il CHA2DS2-VASc che utilizza nella valutazione anche la presenza di malattie vascolari, l’età compresa fra i 65 e i 74 anni ed il sesso. Già nel 2006 le linee guida ACC/AHA/ESC avevano considerato come fattori di rischio addizionali (anche se meno validati o più deboli) il sesso femminile, l’età compresa fra i 65 e i 74 anni, le coronaropatie e l’ipertiroidismo. Dal 2006 si sono però accumulate evidenze più forti per questi fattori di rischio (ad eccezione che per l’ipertiroidismo) per cui si è ritenuto che debbano essere utilizzate nella valutazione del rischio. L’età maggiore o uguale a 75 anni e precedenti eventi ischemici hanno un valore doppio.

I risultati di questo studio (il più ampio studio di coorte mai realizzato sulla fibrillazione atriale non valvolare) hanno portato alla conclusione che lo score CHA2DS2- VASc sia più efficace nell’identificare i pazienti ad alto, medio e basso rischio di eventi tromboembolici rispetto allo CHADS2. In particolare uno score =0 del CHA2DS2-VASc era associato ad un rischio “realmente basso” e nessuna riduzione nell’incidenza di tromboembolismo era apportata dall’utilizzo degli anticoagulanti orali, mentre ciò avveniva nei pazienti con score=1 o con score 0-1 del CHADS2. L’analisi dei dati di questo studio ha inoltre evidenziato come il peso dei vari fattori di rischio non sia uguale all’interno dello stesso score. Per esempio nello score=1 del CHADS2, l’età maggiore o uguale a 75 anni era associata ad una più alta incidenza di eventi, mentre nello score=1 del CHA2DS2-VASc si registravano più eventi nei pazienti diabetici o di età fra i 65 e i 74 anni (quelli di età superiore avevano uno score=2).

Dallo studio emerge che l’utilizzo del nuovo score CHA2DS2-VASc potrebbe semplificare la profilassi antitrombotica, perché sarà possibile discriminare tra pazienti che non ne beneficeranno, in quando a rischio realmente basso (score=0), e quelli che potrebbero trarne beneficio (score=1), considerando le limitate evidenze riguardo l’efficacia in questi casi dell’aspirina ed il potenziale rischio di sanguinamento. Infatti questo ultimo aspetto deve essere preso in considerazione nella pratica clinica assieme al rischio tromboembolico prima di decidere di iniziare una terapia anticoagulante o antiaggregante; a tal fine le linee guida Europee sulla fibrillazione atriale comprendono un nuovo schema predittivo del rischio di sanguinamento.

Jonas Bjerring Olesen et al. Validation of risk stratification schemes for predicting stroke and thromboembolism in patients with atrial fibrillation: nationwide cohort study BMJ 2011; 342:d124 doi: 10.1136/bmj.d124

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Tumore ovarico: quali i test di screening?

12 Mar 2012 Oncologia

Frotte di studenti in medicina si sono formati nella convinzione che il tumore ovarico sia asintomatico. Ma questo è un falso insegnamento. A dispetto della nozione, un tempo comune, che questo tipo di tumore fosse un killer silenzioso, nuove evidenze dimostrano che si possono rintracciare dei sintomi; in particolare molte donne a cui è stato diagnosticato questo tipo di tumore lamentavano, nei tre o quattro mesi precedenti, seri problemi all’apparato gastrointestinale o urinario. Il ritardo nella diagnosi è spesso fatale. Per questo motivo le associazioni dei pazienti sparse nel mondo hanno ingaggiato delle dure battaglie per incentivare o promuovere l’uso di screening che possano permettere la diagnosi precoce.

Ancora una volta una battaglia per la salute, in questo caso delle donne, partita dal basso ha dato i suoi frutti: la settimana scorsa alcune organizzazioni importanti negli Stati Uniti, tra cui la Gynecologic Cancer Foundation, la Society of Gynecologic Oncologists e la American Cancer Society, hanno stilato un documento congiunto in cui si consiglia vivamente a tutti i medici di porre particolare attenzione alle pazienti che riferiscono sintomi persistenti quali sanguinamento, dolore pelvico o addominale, inappetenza, stimolo urinario frequente.

Ma quanto questo documento può davvero essere utile ai medici nella salvaguardia della vita delle proprie pazienti? Un editoriale apparso sull’ultimo numero della rivista The Lancet affronta il tema; molti i dubbi e soprattutto pochi i dati epidemiologici che possano confermare quali potrebbero essere gli esami da usare come strumento di screening. I due migliori candidati, ad oggi, pare siano il dosaggio dell’antigene CA 125 e l’uso degli ultrasuoni transvaginali, per i quali in Inghilterra è stato fatto uno studio preliminare pubblicato proprio sul Lancet nel 1999 in cui si dimostrava un’ottima capacità predittiva dei due esami. Questo studio è stato allargato e i risultati completi si attendono per il 2012.

Fonte: An experiment in earlier detection of ovarian cancer. The Lancet 2007; 369:2051.

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Inefficace memantina contro demenza nel Down over 40

12 Mar 2012 Neurologia

«C’è una sorprendente mancanza di evidenza riguardo al trattamento farmacologico del deterioramento cognitivo e della demenza nelle persone con più di 40 anni con sindrome di Down. Nonostante indicazioni promettenti, la memantina non è un trattamento efficace. Le terapie efficaci per l’Alzheimer non lo sono necessariamente in questo gruppo di pazienti». È questa la conclusione di uno studio randomizzato e controllato in doppio cieco con placebo condotto in Gran Bretagna da Clive Ballarddel King’s college di Londra e collaboratori. Gli scienziati hanno selezionato adulti ultra 40enni con diagnosi clinica o cariotipica di sindrome di Down con e senza demenza in 4 centri per disabili in UK e Norvegia e li hanno randomizzati a ricevere memantina (n=88) oppure un placebo (n=85) per 52 settimane. L’outcome primario era costituto da modificazioni della cognizione e della funzione motoria, misurati con i punteggi Dames e la scala Abs (adaptive behaviour scale) parte I e II. In entrambi i gruppi si sono rilevati deterioramenti cognitivi e funzionali, ma i tassi non differivano tra i gruppi per nessun outcome. Dopo correzione per il punteggio basale, si sono viste differenze non significative tra i due gruppi in relazione al punteggio Dames (-4,1), Abs I (-8,5) e Abs II (2,0), tutti in favore dei controlli. Infine, si sono avuti eventi avversi gravi nell’11% dei partecipanti al gruppo memantina contro il 7% dei soggetti di controllo.

Lancet, 2012; 379(9815):528-36

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La vitamina D ha un importante ruolo protettivo nelle patologie neurologiche

12 Mar 2012 Neurologia

In occasione del 63° Congresso dell’American Academy of Neurology (Honolulu, 9-16/4/2011) sono stati presentati diversi studi sul ruolo della vitamina D in diverse patologie neurologiche e psichiatriche. Emerge oramai chiaramente che la vitamina D si comporta come un neurosteroide in grado di regolare la neurotrasmissione. Sembra inoltre, che essa possieda anche proprietà neuroprotettive e neuroimmunomodulatrici. Va inoltre sottolineato, che i recettori cerebrali per la vitamina D sono posti in aree critiche per le funzioni cognitive quali la corteccia cerebrale e l’ippocampo. Il Framingham Offspring Study, condotto su una coorte di 1382 pazienti con età media di 60 anni, ha evidenziato che bassi livelli di vitamina D sono associati a riduzione del volume dell’ippocampo ed a peggiori prestazioni cognitive1 . Un ulteriore studio condotto su una coorte di 5.596 pazienti di sesso femminile con età media di 80 anni, distinta in due gruppi sulla base dell’assunzione settimanale di vitamina D (inadeguata: minore di 35 microgrammi/settimana; adeguata: maggiore o uguale di 35 microgrammi/settimana), ha dimostrato una ridotta funzione cognitiva nelle pazienti con assunzione inadeguata di vitamina D sulla base della valutazione del punteggio “Short Portable Mental State Questionnaire” (SPMSQ)2. I livelli di vitamina D sembrano anche influenzare il controllo dell’andatura. L’indagine, svolta su 411 pazienti di entrambi i sessi con età media di 70 anni, ha dimostrato una correlazione inversa tra i livelli della vitamina ed il coefficiente di variabilità dello “stride time” (tempo intercorrente tra l’inizio del contatto con il suolo di un piede e l’inizio del contatto successivo dello stesso piede), misura sensibile del controllo dell’andatura3. La vitamina D ha mostrato di modulare i livelli di cAMP e la produzione di citochine proinfiammatorie, chiarendo ulteriormente il suo possibile ruolo protettivo nella sclerosi multipla4. Inoltre, bassi livelli di vitamina D risultano di più frequente riscontro in pazienti con mielite traversa ricorrente/neuromielite ottica rispetto a soggetti con mielite traversa idiopatica5. Infine, uno studio caso-controllo retrospettivo che ha confrontato 86 pazienti colpiti da ictus ischemico acuto (età media 69 anni) con un gruppo di pazienti senza ictus, ma con simili comorbidità, ha dimostrato un livello di vitamina D significativamente più basso nei pazienti con ictus, indicando che bassi livelli di vitamina D sono da considerare possibili fattori di rischio per la patologia cerebrovascolare ischemica acuta6.

Bibliografia

  1. Karakis I et al. Serum vitamin D concentrations and subclinical indices of brain aging: the Framingham Offspring Study. Neurology 2011(suppl 4):76:A2.
  2. Annweiler C et al. Dietary Intake of vitamin D predict cognitive function among older community-dwellers. Neurology 2011(suppl 4):76:A5.
  3. Allali G et a. The influence of vitamin D on gait control in older adults. Neurology 2011(suppl 4):76:A74.
  4. Salinthone S et al. Vitamin D treatment modulates cyclic AMP levels and production of pro-inflammatory cytokines: implications for MS. Neurology 2011(suppl 4):76:A188.
  5. Mealy MA et al. A comparison of vitamin D levels in patients with idiopathic TM and NMO/recurrent TM. Neurology 2011(suppl 4):76:A536.
  6. Azar L et al. Vitamin D Deficiency and the risk of acute ischemic stroke. Neurology 2011(suppl 4):76:A92.

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Rischio Cv legato a peso materno prima e durante gravidanza

12 Mar 2012 Cardiologia

Il peso della madre, prima e durante la gravidanza, si associa a fattori di rischio cardiovascolare nella prole in età adulta giovanile. Le associazioni sembrano guidate principalmente dall’adiposità nei figli. È quanto emerge da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori israeliani, guidato da Hagit Hochner dell’università ebraica di Gerusalemme, i quali hanno coinvolto una coorte di 1.400 giovani adulti (età media: 32 anni) con l’obiettivo di esaminare, in modo prospettico, le associazioni tra body mass index pregravidico (mppBmi) e aumento di peso gestazionale (Gwg), da un lato, con l’adiposità e gli esiti cardiovascolari correlati nei figli. I valori più elevati di mppBmi, in modo indipendente da Gwg o altri fattori confondenti – sono risultati significativamente associati, nella prole, a livelli più alti di Bmi, circonferenza vita, pressione arteriosa sistolica e diastolica, insulina e trigliceridi, e a ridotte quote di Hdl-c. In particolare, nei figli di donne del quartile più elevato di mppBmi (Bmi>26,4 kg/m2) – rispetto a quelli di donne del quartile inferiore (Bmi<21 kg/m2) – si sono osservati una differenza individuale di 5 kg/m2 di Bmi in più, una circonferenza vita superiore di 8,4 cm, livelli di trigliceridi più alti di 11,4 mg/dL e una quota di Hdl-c ridotta di 3,8 mg/dL. Il Gwg, indipendentemente dal mppBmi, è pure apparso associato all’adiposità nei figli; mettendo a confronto la prole generata da madri del quartile più alto con quello più basso, si sono rilevate differenze di 1,6 kg/m2 nel Bmi e di 2,4 cm a livello della circonferenza vita. 

Circulation, 2012 Feb 17.

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Haart: nei soggetti più vulnerabili monitorare la salute ossea

Nei pazienti Hiv-positivi, subito all’inizio della somministrazione di una terapia antiretrovirale si ha un aumento dei marker ossei, sia di formazione che di riassorbimento osseo. Ciò induce a ritenere utile il monitoraggio della salute ossea nei pazienti più vulnerabili (anziani, soggetti con valori elevati d Hiv-Rna o con ridotta funzione renale), in modo da intervenire proattivamente in caso di necessità. Sono le conclusioni che Emanuele Focà dell’università di Brescia, e collaboratori, hanno tratto da uno studio prospettico su 75 pazienti svolto per valutare l’evoluzione – prima e dopo la somministrazione di un regime antiretrovirale standard – del paratormone, della 1,25-(OH)2 vitamina D e di alcuni marker ossei, quali il telopeptide C-terminale del collagene di Tipo 1 (Ctx), l’osteocalcina, l’osteoprotegerina e l’attivatore del recettore del ligando nucleare fattorekB (Rankl). I partecipanti, naïve a terapie antiretrovirali, sono stati randomizzati a un trattamento con tenofovir + emtricitabina associato ad atazanavir/ritonavir (Atv/r) oppure a efavirenz (Efv), con un follow-up di 48 settimane. Sono stati rilevati significativi aumenti di tutti i marker, fatta eccezione per Rankl. Si è evidenziata una associazione diretta e significativa tra l’incremento dei valori di Ctx e osteocalcina (marker, rispettivamente, di riassorbimento e formazione ossea). È inoltre emerso che i più elevati tassi di filtrazione glomerulare erano predittivi di maggiori aumenti di osteoprotegerina, mentre l’età avanzata, il rilievo di alti valori di Hiv-Rna al basale e il ricorso al regime Atv/r erano predittivi di un maggiore innalzamento di Ctx. Un significativo aumento del paratormone ha infine seguito l’evoluzione dei marker ossei, mentre la 1,25-(OH)2 vitamina D è rimasta stabile, al di là di una variazione stagionale.

BMC Infect Dis, 2012; 12(1):38

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