Cirrosi: endotossiemia e trombocitopenia ridotte da rifaximina

Secondo uno studio greco condotto su 23 pazienti cirrotici con trombocitopenia, la rifaximina ha mostrato di produrre miglioramenti che potrebbero essere legati alla riduzione di endotossiemia. I ricercatori, guidati da Georgios N. Kalambokis, dell’Ospedale universitario di Ioànnina, hanno rilevato il conteggio delle piastrine, i livelli plasmatici di endotossina e i valori sierici di interleuchina-1 (Il-1), interleuchina-6 (Il-6) e  fattore di necrosi tumorale á (Tnf-á) in 13 pazienti prima e dopo un trattamento di 4 settimane con 1.200 mg/die di rifaximina, in altri 10 che non hanno ricevuto alcun trattamento e, alla baseline, in ulteriori 10 pazienti cirrotici che non presentavano trombocitopenia. L’endotossina e l’Il-6 hanno evidenziato livelli più elevati nei pazienti con trombocitopenia rispetto agli altri, con valori medi che si sono attestati, rispettivamente, a 2,76 contro 0,64 EU/ml e a 24,26 vs 2,66 pg/ml. Inoltre, nei soggetti con trombocitopenia, la conta piastrinica è apparsa correlata in modo inverso con i livelli di endotossina e di Il-6, con lo score di Child-Pugh (che valuta la gravità e la prognosi della malattia epatica) e con le dimensioni della milza. Dopo il trattamento con rifaxamina, il conteggio piastrinico è aumentato in modo statisticamente significativo, in media da 83.100 a 99.600, parallelamente alla riduzione dell’endotossina (da 2,54 a 1,28 EU/ml), dell’Il-1 (da 4,4 a 3,1 pg/ml), e del Tnf-á (da 5,8 a 3,6). La conta delle piastrine è risultata correlata con la variazione dell’endotossina, dell’Il-6 e del Tnf-á.

Liver Int, 2012; 32(3):467-75

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Intolleranza multipla ai farmaci nelle anziane in sovrappeso

La sindrome da intolleranza multipla a farmaci è in parte iatrogena e interessa soprattutto donne anziane in sovrappeso che fanno elevato impiego di medicinali. Si associa all’ansia ma non ad allergie IgE-mediate o patologie pericolose per la vita, e può essere gestita attraverso l’evitamento ai farmaci che danno disturbi e a una loro giudiziosa sostituzione. È la conclusione di due ricercatori (Eric Macy e Ngoc J. Ho) del Department of Allergy presso il San Diego Medical Center, in California, che hanno effettuato uno studio epidemiologico per individuare le caratteristiche comuni tra i pazienti che soffrono di allergie multiple ai farmaci. Grazie alle cartelle cliniche elettroniche registrate negli archivi dell’assicurazione sanitaria Kaiser Permanente Southern California, sono stati esaminati i dati di 2.375.424 persone che erano state sottoposte ad almeno un controllo medico e avevano una copertura sanitaria di almeno undici mesi nel corso del 2009. Il piano di salute del 20,1% dei soggetti riportava una o più volte la parola “allergia”. Coloro che avevano segnalato precedenti allergie ne avevano fatto registrare più spesso di nuove; inoltre le percentuali di nuove allergie sono risultate più elevate nelle donne rispetto agli uomini. La sindrome da intolleranza multipla ai farmaci è stata definita tale se relativa ad almeno tre classi di medicinali ed è risultata presente nel 2,1% dei casi. L’età di questi 49.582 soggetti è risultata piuttosto elevata, con una media di 62,4 anni; in gran parte si trattava di donne (84,9%) tendenzialmente sovrappeso, con un indice di massa corporea medio di 29,3. Questo gruppo di persone si caratterizzava anche per un ricorso più frequente ai farmaci e per l’abitudine di rivolgersi spesso al medico anche per condizioni non strettamente patologiche.

Ann Allergy Asthma Immunol, 2012; 108(2):88-93

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Stato epilettico, terapia intramuscolare pari a quella endovena

12 Mar 2012 Neurologia

Nei soggetti in stato epilettico, il midazolam somministrato per via intramuscolare è almeno altrettanto efficace e sicuro del lorazepam endovenoso per interrompere la crisi in corso. Lo dimostra uno studio randomizzato in doppio cieco – coordinato da Robert Silberglet della University of Michigan ad Ann Arbor (Usa) – su 893 pazienti che erano stati accompagnati al locale dipartimento di medicina di emergenza dopo aver ricevuto uno dei due trattamenti da parte di personale paramedico. Come outcome primario è stata scelta l’assenza di convulsioni al momento dell’arrivo al pronto soccorso, tale da non richiedere ulteriori trattamenti. Questo risultato positivo si è avuto in 329 dei 448 pazienti trattati con midazolam intramuscolare e in 282 del 445 a cui era stato somministrato lorazepam per  via endovenosa: riportate le cifre in percentuale, si tratta rispettivamente del 73,4% e del 63,4%. I due trattamenti hanno comportato percentuali simili riguardo alla necessità di ricorrere a intubazione endotracheale (14,1% nel gruppo midazolam e 14,4% nel gruppo lorazepam) e nella recidiva delle convulsioni (11,4% e 10,6% rispettivamente). Tra i soggetti in cui le convulsioni si sono placate con successo prima dell’arrivo al reparto di emergenza, il tempo medio di attivazione del trattamento è stato di 1,2 minuti per l’iniezione intramuscolare di midazolam e di 4,8 minuti per l’endovena di lorazepam, mentre le convulsioni sono cessate rispettivamente in 3,3 e 1,6 minuti di media. Infine i ricercatori non hanno riscontrato effetti avversi nei due gruppi.

N Engl J Med, 2012; 366(7):591-600

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Cancro ovarico, alimentato da trombocitosi paraneoplastica

12 Mar 2012 Oncologia

Uno studio finanziato dal National Cancer Institute britannico supporta l’esistenza di un circuito paracrino in cui l’aumentata produzione di citochine trombopoietiche nel cancro ovarico e nel tessuto ospite condurrebbe a trombocitosi paraneoplastica, che alimenta la crescita tumorale. A fronte dei molti punti oscuri che permangono nelle conoscenze del meccanismo della trombocitosi paraneoplastica nel tumore dell’ovaio e del ruolo delle piastrine nella crescita tumorale, un team di studiosi inglesi e americani – coordinati da Rebecca L. Stone, della University of Texas, a Houston – ha analizzato i dati clinici relativi a 619 pazienti con tumore epiteliale ovarico per verificare l’esistenza di una associazione tra la conta piastrinica e l’outcome della patologia. La trombocitosi si è associata a una malattia in stato avanzato e a una ridotta sopravvivenza; in queste pazienti, i livelli plasmatici di trombopoietina e di interleuchina-6 (Il-6) sono risultati notevolmente più elevati rispetto alle altre. In un modello murino, l’aumento della sintesi di trombopoietina nel fegato in risposta all’Il-6 di derivazione tumorale è stato identificato come meccanismo soggiacente alla trombocitosi paraneoplastica e anche nelle pazienti analizzate l’Il-6 e la trombopoietina epatica sono apparse associate alla trombocitosi. Un trattamento con anticorpi anti Il-6 ha portato a una significativa riduzione delle piastrine sia nei topi di laboratorio con tumore che nelle pazienti con carcinoma epiteliale ovarico. Inoltre, la neutralizzazione dell’interleuchina-6 ha potenziato l’efficacia terapeutica del paclitaxel nelle cavie murine e ha ridotto la crescita tumorale e l’angiogenesi.

N Engl J Med, 2012; 366(7):610-8

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La disfunzione di Gpr120, recettore di acidi grassi, e l’obesità

Il funzionamento difettoso di una proteina, che agisce come sensore per monitorare i grassi assunti con il cibo, potrebbe essere una delle cause dell’obesità e di patologie epatiche, secondo uno studio condotto da ricercatori dell’Imperial College di Londra guidati da Philippe Froguel. Si tratta della proteina Gpr120, che si trova sulla superficie delle cellule dell’intestino, del fegato, del tessuto adiposo, ed è un recettore che si lega alle molecole di acidi grassi, in particolare a quelli insaturi a lunga catena, come gli Omega-3, e che ha un ruolo critico in vari meccanismi fisiologici omeostatici, quali l’adipogenesi, la regolazione dell’appetito e la preferenza per gli alimenti. La sperimentazione effettuata ha evidenziato che i topi di laboratorio con carenza della proteina Gpr120, quando vengono alimentati con cibi ad alto contenuto di grassi, sviluppano con maggiore frequenza obesità, intolleranza al glucosio e steatosi epatica. Negli esseri umani l’espressione di Gpr120 nel tessuto adiposo è significativamente superiore nei soggetti obesi rispetto a quelli magri; ma anche chi presenta certe mutazioni nel gene che codifica per la Gpr120 tende a essere più frequentemente obeso. I ricercatori hanno analizzato il gene che codifica per la Gpr120 in 6.942 persone obese e in 7.654 individui non obesi che hanno costituito il gruppo di controllo; hanno così constatato che una mutazione genica, che provoca una disfunzione nella proteina, si associa a un incremento del 60% del rischio di obesità. La mutazione ha un effetto simile a quello prodotto da una cattiva alimentazione, in cui non vengono assunti acidi grassi omega-3 in quantità sufficiente. Si prospetta dunque un target promettente per nuovi farmaci contro l’obesità e altre malattie metaboliche. 

Nature, 2012 Feb 19.

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Il tempo speso in attività fisica prescinde dalla sedentarietà

12 Mar 2012 Pediatria

Nei bambini il tempo trascorso in attività fisica moderata o vigorosa (Mvpa) si associa a migliori outcome cardiometabolici, indipendentemente dal tempo speso in attività sedentarie. Il dato è stato ricavato da Ulf Ekelund, dell’Istituto di Scienze metaboliche di Cambridge (UK), e collaboratori, tramite la meta-analisi di 14 studi, tratti dal Children’s Accelerometry Database, effettuati tra il 1998 e il 2009, per un totale di 20.871 bambini (età: 4-18 anni). Il tempo accumulato dai bambini in Mpva o in attività sedentaria (espresso come media di minuti al giorno) è risultato pari, rispettivamente, a 30 e 354. Il tempo speso in Mpva è apparso significativamente associato a tutti gli outcome cardiometabolici indipendentemente da genere, età, tempo trascorso in modo sedentario e circonferenza vita. Al contrario il tempo passato in modo sedentario non è risultato associato ad alcun outcome indipendente dal tempo speso in Mpva. Nelle analisi combinate, ai livelli più elevati di Mpva è sempre corrisposto un quadro dei fattori di rischio cardiovascolare più favorevole rispetto a tutti i terzili di attività sedentaria. La differenza media di circonferenza vita tra i soggetti in Mpva e l’altro gruppo è stata di 5,6 e 3,6 cm per i soggetti, rispettivamente, con molto o poco tempo passato in sedentarietà. La differenza di pressione arteriosa sistolica per i soggetti a elevato e basso tempo di sedentarietà è risultata di 0,7 mmHg e 2,5 mmHg, rispettivamente, mentre la variazione di colesterolemia Hdl è risultata di -2,6 mg/dL e -4,5 mg/dL. Simili differenze sono state riscontrate per insulina e trigliceridi. I soggetti nel terzile superiore di Mpva hanno accumulato oltre 35 minuti al giorno a tale intensità di lavoro contro un livello inferiore a 18 minuti al giorno per i bambini nel terzile inferiore. Il tempo speso in Mpva e in sedentarietà non sono risultati associati alla circonferenza vita al follow-up, ma un valore più elevato di quest’ultima al basale è apparso correlato a valori più alti di sedentarietà al follow-up. 

JAMA, 2012; 307(7):704-12

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Un paziente iperteso su 5 smette la terapia

Una quota significativa di mancata aderenza alla terapia antipertensiva ècausata da sospensioni del trattamento in seguito a una sola dispensazione di farmaco. Lo rivela uno studio di coorte retrospettivo condotto dal team di Charity D. Evans, della university of Saskatchewan, a Saskatoon (Canada); i ricercatori hanno utilizzato i dati amministrativi provinciali relativi a soggetti di età pari o superiore a 40 anni che avevano ricevuto la prescrizione di una nuova terapia antipertensiva tra il 1994 e il 2002. Nell’analisi sono stati inclusi 52.039 individui (età media: 59,4 anni; maschi: 42%). Complessivamente i soggetti non aderenti alla terapia a 1 anno sono risultati il 50%; tra questi, il 39,1% era costituito da pazienti che avevano cessato il trattamento dopo la prima prescrizione. Approssimativamente il 20% di tutti i partecipanti allo studio ha smesso di assumere qualsiasi terapia antipertensiva dopo una singola ricetta medica. Un più elevato chronic disease score e l’uso di un farmaco antidepressivo durante il periodo di osservazione di 1 anno sono apparsi associati a un maggiore rischio di cessazione del tattamento dopo la prima prescrizione. Al contrario sono risultati associati a un minore rischio in tal senso un’età più avanzata, il ricorso a frequenti visite dal medico, l’uso di statine, acido acetisalicilico, warfarin o antiiperglicemici.

Am J Hypertens, 2012; 25(2):195-203

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Scompenso: ursodesossicolico migliora flusso ematico

11 Mar 2012 Cardiologia

L’acido ursodesossicolico (Udca), normalmente impiegato nel trattamento della epatopatia colestatica, è ben tollerato dai pazienti con scompenso cardiaco cronico nei quali migliora il flusso ematico periferico e i marker di funzionalità epatica. Lo dimostrano i risultati di uno studio prospettico, crociato e in doppio cieco con placebo realizzato da Stephan von Haehling della scuola medica Charité di Berlino (Germania) e collaboratori. Il razionale della sperimentazione consisteva da un lato nel frequente riscontro – nei soggetti scompensati – di disfunzione endoteliale, ritenuta corresponsabile delle limitate capacità di esercizio dei pazienti, e dall’altro nel considerare il lipopolisaccaride batterico un possibile trigger per il rilascio di citochine proinfiammatorie, con aggravamento del quadro endoteliale. Di qui l’ipotesi di somministrare l’Udca che, grazie alle sue proprietà antinfiammatorie e citoprotettive, e alla possibilità di formare micelle intorno al lipopolisaccaride, avrebbe potuto migliorare il flusso ematico periferico nei pazienti con insufficienza cardiaca. Per verificare questa tesi, sono stati arruolati 16 pazienti di sesso maschile scompensati (classe Nyha II/III, frazione di eiezione ventricolare <45%) ma clinicamente stabili, i quali sono stati randomizzati a ricevere 500 mg di Udca bis/die per 4 settimane e placebo per altre 4 settimane. Rispetto al placebo, l’Udca ha migliorato il picco di flusso post-ischemico nel braccio (endpoint primario, misurato con pletismografia “strain-gauge”) e si è rilevata una tendenza positiva per un miglioramento analogo nell’arto inferiore. Anche le funzioni epatiche sono migliorate: rispetto al placebo, i livelli di gamma-Gt, aspartato transaminasi e recettore solubile del Tnf-alfa sono risultati inferiori. Non si sono visti cambiamenti nel test del cammino a 6 minuti o di classe funzionale Nyha, e i livelli di Tnf-alfa e interleuchina-6 sono rimasti immutati o aumentati rispetto al placebo.

J Am Coll Cardiol, 2012; 59(6):585-92

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Alopecia androgenica: linee guida per la diagnosi

Raccomandazioni utili per la gestione competente dei pazienti che manifestano perdita di capelli


L’Alopecia androgenetica (AGA) è la più comune condizione che provoca perdita di capelli e colpisce sia gli uomini che le donne. A causa della sua frequenza e della compromissione spesso significativa della vita percepita dai pazienti che ne sono affetti, richiede una consulenza competente del medico, per una corretta diagnosi e un appropriato trattamento. In generale l’AGA è una diagnosi clinica in cui l’anamnesi del paziente e la sua valutazione obiettiva possono orientare ad ulteriori test diagnostici. Considerando che sul problema della perdita dei capelli esistono poche linee guida basate sull’evidenza il Gruppo di Consenso Europeo ha deciso di formulare delle linee guida S1 (1) per la diagnosi di AGA pubblicate sul British Journal of Dermatology e delle linee guida S3 (2) per il trattamento di AGA pubblicate sul Journal of the German Society of Dermatology.

Il documento definisce AGA una progressiva miniaturizzazione non cicatriziale del follicolo pilifero con una distribuzione secondo uno schema caratteristico negli uomini e nelle donne geneticamente predisposti. Negli uomini, l’AGA mostra un modello di distribuzione tipico, ma a volte è possibile osservare nel maschio un modello femminile. Nelle donne, l’AGA si presenta tipicamente con una diffusa riduzione della densità dei capelli nelle aree frontale e centrale, ma possono essere coinvolte anche le regioni parietali ed occipitali. E’ possibile che l’AGA si manifesti nelle donne con un modello maschile. Poiché la diagnosi è clinica, vanno escluse altre malattie che possono coinvolgere il cuoio capelluto e la crescita dei capelli. Poiché esistono trattamenti selettivamente efficaci nell’AGA, come la finasteride, si può considerarne l’impiego per escludere il coinvolgimento di altre patologie con le stesse modalità di caduta dei capelli.

La prevalenza nel maschio di AGA è più elevata nella popolazione caucasica, raggiungendo l’80% negli uomini > 70 anni, rispetto al 60% nella popolazione asiatica. Mancano informazioni per gli uomini africani, mentre negli afro -americani la calvizie è 4 volte meno comune rispetto ai caucasici. La gravità della calvizie del maschio aumenta con l’aumentare dell’età in tutti i gruppi etnici, con i primi segni di profonda recessione frontale e alle tempie che si possono manifestare durante l’adolescenza anche se, nella maggior parte dei casi, l’esordio inizia successivamente. Dopo i 70 anni circa il 60% dei maschi caucasici è calvo. Anche nelle donne la frequenza e la gravità dell’AGA aumentano con l’età. I tassi di prevalenza variano dal 3-6% al di sotto dei 30 anni fino al 29-42% in donne di età > 70 anni, con una frequenza inferiore delle donne orientali rispetto alle europee. Mancano i dati sulle donne africane.

L’AGA è un tratto androgeno-dipendente che porta alla progressiva miniaturizzazione dei follicoli dei capelli negli uomini predisposti geneticamente e con un’aumentata densità dei recettori degli androgeni e/o aumento dell’attività della 5 alfa -reduttasi di tipo II. In questi soggetti i livelli circolanti di androgeni sono normali e l’analisi della famiglia mostra un aumento significativo del rischio di sviluppare AGA negli uomini con padre affetto. Attualmente le evidenze sono a sostegno della tesi che l’AGA sia un tratto poligenico, inoltre sono state riportate associazioni significative con la regione variabile del gene per il recettore degli androgeni sul cromosoma X ed è stato identificato un locus di suscettibilità sul cromosoma 20p11. Il ruolo degli androgeni nella donna è meno certo ed è possibile che le forme di AGA femminile ad esordio precoce e tardivo rappresentino due entità geneticamente distinte. Il Gruppo di Consenso Europeo ha cercato di definire un subset di donne con AGA associata ad alterazioni ormonali.

Sotto il profilo clinico, nella maggior parte degli uomini, l’AGA coinvolge la zona fronto -temporale e il vertice secondo il modello della scala di Hamilton -Norwood, mentre in alcuni casi si sviluppa un assottigliamento diffuso della corona con mantenimento dell’attaccatura frontale analoga al pattern di Ludwig osservato nelle donne. Nella donna si osservano essenzialmente 3 patterns di perdita di capelli: nel primo si evidenzia un diffuso assottigliamento della corona frontale con attaccatura conservata. Il processo viene rappresentato sia dalla scala di Ludwig (a 3 punti) che dalla scala di Sinclair (a 5 punti); il secondo vede un assottigliamento e ampliamento della parte centrale del cuoio capelluto con compromissione della linea frontale come nella scala di Olsen; nel terzo modello si assiste ad un diradamento associato a recessione bitemporale, secondo la scala di Hamilton -Norwood.

Nella valutazione clinica è fondamentale registrare quando si è verificata la prima manifestazione di caduta dei capelli e le sue caratteristiche (cronica o intermittente). I primi sintomi di AGA possono essere il prurito e la tricodinia. Spesso è presente una familiarità, anche se la sua negatività non esclude la diagnosi. Vanno escluse condizioni concomitanti come la carenza di ferro, che spesso determina perdita diffusa di capelli nelle donne, o altre cause di effluvium diffuso come infezioni gravi o disfuzioni della tiroide. E’ opportuno sondare il comportamento alimentare che, per diete carenti o rapida perdita di peso, può innescare l’effluvium diffuso. L’anamnesi farmacologica è importante perché molti farmaci possono indurre la perdita dei capelli (chemioterapici, steroidi anabolizzanti, ormoni con azione antitiroidea) Un ruolo significativo può esser giocato da alcuni stili di vita come acconciature speciali, fumo, esposizione a raggi UV. Le donne con AGA solitamente hanno una fisiologica funzione ormonale, ma questo non esclude un’attenta anamnesi ginecologica orientata a definire menarca, tipo di ciclo, presenza di menopausa, amenorrea, uso di contraccezione ormonale orale o sistemica, fertilità, gravidanze, chirurgia ginecologica, segni di iperandrogenismo. Negli adolescenti è fondamentale discriminare una perdita di capelli congenita da un’acquisita. L’AGA è una perdita di capelli di tipo acquisito con una distribuzione caratteristica e differisce dall’effluvium diffuso da fattori nutrizionali, dall’alopecia indotta o dal’ipotricosi simplex (congenita). L’AGA senza segni di pubertà precoce comunque non deve esimere dall’acquisire il parere dell’endocrinologo pediatra.

La valutazione clinica comprende l’esame del cuoio capelluto che nell’AGA di solito è normale. Può essere associata una dermatite seborroica che potenzialmente è un fattore aggravante. E’ importante la ricerca dei segni di flogosi, seborrea e di cicatrici. L’alopecia areata e l’alopecia cicatriziale possono mimare un AGA specialmente frontale. E’ possibile che il cuoio capelluto sia atrofico in AGA di lunga durata. Si raccomanda di esaminare la distribuzione dell’alopecia confrontando le aree frontale occipitale e temporale. In alcune donne con AGA è possibile osservare un’atrichia focale di pochi millimetri di diametro. Nei maschi l’AGA si presenta con una distribuzione di tipo maschile per recessione bitemporale e/o recessione e diradamento di vertice e talvolta anteriore. Nel 10% degli uomini l’AGA si presenta con un modello femminile. La distribuzione della perdita nelle donne è più diffusa, accentuata nel cuoio capelluto frontale, ma con conservazione dell’attaccatura. Le scale di valutazione più usate nella pratica clinica sono per l’uomo la scala di Hamilton -Norwood e per la donna le scale di Ludwig e di Olsen. Nella donna che consulta il medico in una fase precoce di perdita dei capelli la scala di Sinclair offre più possibilità di categorizzare la paziente rispetto alle altre scale. L’esame della peluria del viso e del corpo, la sua densità e la sua distribuzione orientano verso un’alopecia areata in assenza o netta riduzione delle ciglia e sopracciglia, reperto che può far pensare anche all’alopecia frontale fibrotica. Una crescita di peluria con distribuzione nelle aree terminali del corpo orienta all’ipertricosi etnica, o farmacologica, o all’irsutismo. Acne, seborrea e obesità sono suggestivi di iperandrogenismo. Le alterazioni ungueali possono essere presenti nell’alopecia areata, nel lichen planus e in alcune forme di carenza.

Tra gli esami di laboratorio Ferritina e TSH trovano indicazione solo se supportati dalla storia del paziente e in presenza di un effluvium diffuso. Nei maschi non c’è indicazione all’esecuzione di esami di laboratorio per la diagnosi di AGA. Nei soggetti > 45 anni è raccomandabile il dosaggio del PSA prima di iniziare la terapia con finasteride, farmaco in grado di ridurne la concentrazione sierica e potenzialmente ritardare la diagnosi in caso di neoplasia prostatica. Nelle donne non è necessario esegire un work up endocrinologico e una valutazione interdisciplinare (ginecologo, endocrinologo, dermatologo). E’ necessaria solo se esiste un sospetto clinico di eccesso di androgeni (es. s. ovaio policistico). Sono considerati solo due test di screening: il testosterone totale e la SHBG, utili per l’identificazione dell’iperandrogenismo, ricordando che i dosaggi vanno eseguiti solo in donne che non assumono ormoni come ad esempio i contraccettivi orali per almeno due mesi.
Nei bambini e negli adolescenti con un’insorgenza precoce di AGA si impone un approccio multidisciplinare tra dermatologo, pediatra ed endocrinologo. Diversi test possono essere impiegati per confermare la diagnosi di AGA come il pull test, la dermatoscopia, la fotografia globale, il tricoscan, il tricogramma, la biopsia, ma l’AGA è essenzialmente una diagnosi clinica e queste linee guida offrono al medico pratico le raccomandazioni essenziali per un rapido e corretto inquadramento.

Bibliografia
(1) U. Blume -Peytavi; A. Blumeyer; A. Tosti; A. Finner; V. Marmol; M. Trakatelli; P. Reygagne; A. Messenger S1 Guideline for Diagnostic Evaluation in Androgenetic Alopecia in Men, Women and Adolescents Br J Derm 2011;164(1):5 -15
(2) A. Blumeyer, A. Tosti, A. Messenger, P. Reygagne,V. del Marmol, P. I. Spuls, M. Trakatelli, A.Finner, F. Kiesewetter, R.Trüeb, B.Rzany, U. Blume -Peytavi Evidence -based (S3) guideline for the treatment of androgenetic alopecia in women and in men

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Cancro ovarico: protettiva la salpingo-ooforectomia bilaterale

29 Feb 2012 Oncologia

La salpingo-ooforectomia bilaterale (Bso) riduce il rischio di cancro ovarico rispetto all’isterectomia e alla conservazione ovarica ma l’incidenza di tumore ovarico è minima in entrambi i gruppi. Lo rivela un nuovo studio – condotto da Vanessa L. Jacoby della university of California di San Francisco, e collaboratori – secondo cui la Bso può non avere un impatto negativo su salute cardiovascolare, rischio di frattura di femore, di cancro o mortalità totale rispetto all’isterectomia e alla conservazione dell’organo. L’indagine prospettica è stata effettuata su 25.448 donne in post-menopausa di età compresa tra 50 e 79 anni arruolate all’interno del Women’s health initiative observational study: le pazienti avevano una storia di isterectomia e Bso o isterectomia con conservazione ovarica in assenza di una storia familiare di cancro ovarico. L’uso corrente o pregresso di estrogeni e/o progestinici era frequente a prescindere dallo status Bso (78,6%). Alle analisi multivariate, Bso non è risultata associata a un aumento del rischio di coronaropatia fatale e non fatale (Hazard ratio, Hr: 1,00), di bypass coronarico e angioplastica coronarica percutanea transluminale (Hr: 0,95), ictus (Hr: 1,04), malattia cardiovascolare totale (Hr: 0,99), frattura di femore (Hr: 0,83) o decesso (Hr: 0,98). Nel corso di un follow-up medio di 7,6 anni, Bso ha anche ridotto il cancro ovarico incidente (0,02% nel gruppo Bso; 0,33% nel gruppo in cui è stato conservato l’ovaio) ma non sono state rilevate significative associazioni con il cancro polmonare, colorettale o mammario.

Arch Intern Med, 2011; 171(8):760-8

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