Neuroimaging e Fibromialgia

La sindrome fibromialgica è una forma di dolore a carico dell’apparato muscoloscheletrico diffuso e di affaticamento, molto diffusa che si stima colpisca approssimativamente 1.5 – 2 milioni di Italiani. Il termine fibromialgia significa letteralmente dolore nei muscoli e nelle strutture connettivali fibrose.

Si perviene alla diagnosi da una parte valutando quanto il paziente riferisce e dall’altra ricercando dei punti tipici (triggers) che stimolati, evocano inusuale dolore (cioè sono silenti nei soggetti sani).

Di fatto la diagnosi è affidata a ciò che il paziente ci riferisce; le variabilità di risposte ottenute in larghi campioni hanno fato si che la fibromialgia sia stata ritenuta una manifestazione tipicamente psichiatrica, anziché un disturbo cerebrale primario o il risultato di disfunzioni periferiche che inducono alterazioni cerebrali, con meccanismi di fondo che in parte si sovrappongono ad altre condizioni dolorose.

Nel V Congresso Nazionale ANIRCEF (Associazione Nazionale per la Ricerca sulle Cefalee) che si è svolto a Napoli dal 31 maggio al 02 giugno 2012 si è fatto il punto su tale patologia .

Anche se ci sono variazioni metodologiche, recenti studi di neuroimaging hanno correlato a risultati clinici le anomalie di modulazione del dolore nella fibromialgia.

In particolare vi è correlazione tra la diminuzione della sostanza bianca cerebrale specie quella del lobo cingolato e il decorso della malattia. Le regioni cerebrali dell’insula e della amigdala sono iperattive, particolarmente “accese” nei pazienti fibromialgici rispetto ai controlli sani. Inoltre i pazienti sottoposti a terapia con amitriptilina (un antidepressivo ampiamente usato nella terapia di questa patologia) mostravano agli studi di neuro immagine un miglioramento della irrorazione del talamo: ciò portava a miglioramento clinico del dolore ma non al miglioramento di un’eventuale depressione associata.

Appare evidente come questi dati abbiano notevolmente migliorato le conoscenze, e quindi le implicanze terapeutiche, di una patologia “dell’immaginario” fino a qualche tempo fa. (1,2).

Ca mammario, spiegare alle pazienti la prevenzione con Serm

 

Negli Usa, dove tamoxifene o raloxifene sono approvati dall’Fda per la chemioprevenzione del ca mammario, i medici dovrebbero illustrare alle pazienti le caratteristiche degli inibitori selettivi degli estrogeni (Serm) e proporne l’impiego soltanto a chi presenta un alto rischio di sviluppare il tumore e ha invece scarse probabilità di andare incontro a effetti collaterali. Lo ha stabilito un gruppo governativo di esperti, in linea con quanto ribadito dalle recenti linee guida dell’U.S. Preventive Services Task Force (Uspstf), ovvero che è necessario selezionare accuratamente le donne alle quali somministrare i Serm a causa dell’alto rischio di fenomeni vasomotori e tromboembolici. «Non esiste a priori una risposta giusta o sbagliata» sostiene Mark Ebell, della University of Georgia (Athens) e affiliato all’Uspstf. «Ciò che più importa è che le pazienti siano informate di questa opzione e discutano con il loro medico se esse siano ad alto rischio». È opportuno sottolineare che una donna è considerata ad alto rischio se ha almeno una probabilità su 60 di sviluppare un cancro mammario. La stessa Uspstf, inoltre, ha da poco pubblicato una review su 7 studi condotti con i due Serm secondo cui tali farmaci da un lato riducono il rischio di carcinoma della mammella in una percentuale variabile dal 30 al 56%, dall’altro raddoppiano il rischio di trombosi e (solo nel caso di tamoxifene) cancro endometriale e cataratta. Secondo Angie Fagerlin, bioeticista della University of Michigan (Ann Arbor), è fondamentale considerare una riduzione relativa del 50% circa del rischio di sviluppare un cancro. «Se una donna inizia il trattamento quando ha una probabilità su 40 di sviluppare il tumore, il rischio passa da 2,5 a 1,25%: una differenza dell’1%, correlata all’assunzione quotidiana di un farmaco per 5 anni con qualche possibile effetto collaterale. Se però la donna ha un rischio molto più alto nel breve termine, per esempio del 16%, i farmaci hanno più probabilità di causare effetti collaterali. Sono dunque molti i fattori che possono incidere sulla decisione».

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Tumore alla prostata. Sarà presentato domani test Polaris per favorire prevenzione

12 Lug 2013 Oncologia

Si tratta un nuovo test molecolare effettuato su campioni agobioptici o direttamente su tessuto post-prostatectomia, che riesce a misurare i livelli di espressione dei geni coinvolti nella replicazione tumorale.

22 MAG – Sarà presentato domani, per la prima volta in Italia, il test Prolaris per predire l’aggressività del tumore prostatico. La presentazione sarà curata da Myriad Genetics.

All’evento, organizzato a margine dell’8° Congresso Nazionale degli urologi dell’ospedalità privata, che si aprirà a Ravello (Salerno), saranno presenti Massimo Frerschi dell’Ospedale S.Raffaele di Milano e Marcello Pafgliano, direttore medico della Myriad Genetics. Prolaris è un nuovo test molecolare effettuato su campioni agobioptici o direttamente su tessuto post-prostatectomia, che riesce a misurare i livelli di espressione dei geni coinvolti nella replicazione tumorale.  Con questa indagine si ottiene la possibilità di predire l’aggressività del tumore e il rischio di progressione della patologia, aiutando gli specialisti a decidere una strategia di trattamento o monitoraggio. 

Quale impatto per l’eradicazione dell’H. Pylori?

Il risanguinamento dell’ulcera peptica è virtualmente impossibile nei pazienti nei quali è stata correttamente condotta una eradicazione dell’Helicobacter Pylori, e la terapia di mantenimento con farmaci antisecretori non è necessaria. Solo in caso di assunzione continuata di FANS e nuova infezione da Helicobacter Pylori può verificarsi un nuovo sanguinamento gastrico nei pazienti eradicati. Lo rivela uno studio prospettico pubblicato dall’American Journal of Gastroenterology.

I ricercatori dell’ H. pylori Study Group of the Asociación Española de Gastroenterología, coordinati da Javier P. Gisbert del Servicio de Aparato Digestivo dell’Hospital Universitario de La Princesa di Madrid hanno valutato la ricorrenza dei sanguinamenti gastrici in una popolazione di 1000 pazienti (età media 56 anni, 75% maschi, 41% consumatori abituali di FANS) sottoposti in precedenza a eradicazione dell’Helicobacter Pylori per ulcera duodenale (69%), ulcera gastrica (27%), ulcera pilorica (4%). In tutti i pazienti presi in esame la diagnosi di infezione da H. pylori è stata confermata da test rapido all’ureasi, esame istologico e test del respiro (13C-urea breath test). I protocolli terapeutici seguiti per l’eradicazione sono stati diversi. Tutti i pazienti invece sono stati trattati con ranitidina 150 mg/die fino alla conferma dell’avvenuta eradicazione ottenuta con test del respiro a 8 settimane dalla terapia antibiotica. In caso di mancata conferma dell’eradicazione i pazienti sono stati sottoposti a un secondo, terzo o quarto ciclo di eradicazione. In caso di conferma dell’avvenuta eradicazione i pazienti non hanno ricevuto una terapia di mantenimento e sono stati avviati a un follow-up con test del respiro su base annuale, con divieto di assumere FANS. Il follow-up è stato di almeno 12 mesi, per un totale di 3253 anni-paziente. Si è verificata una ricorrenza del sanguinamento gastrico in 3 pazienti a 1 anno di follow-up (avvenuta dopo utilizzo di FANS in 2 casi e per nuova infezione da H. pylori nel terzo caso) e in 2 pazienti a 2 anni di follow-up (dopo utilizzo di FANS in un caso e per nuova infezione da H. pylori nell’altro). L’incidenza cumulativa del risanguinamento quindi è risultata dello 0,5% (95% CI, da 0,16 a 1,16%), mentre il tasso di incidenza di risanguinamento è risultato dello 0,15% (0,05–0,36%) per anno-paziente di follow-up.

▼ Gisbert JP, Calvet X, Piqué JM et al and on behalf of the H. pylori Study Group of the Asociación Española de Gastroenterología (Spanish Gastroenterology Association). Long-Term Follow-Up of 1,000 Patients Cured of Helicobacter pylori Infection Following an Episode of Peptic Ulcer Bleeding. The American Journal of Gastroenterology 2012; 107:1197-1204 doi:10.1038/ajg.2012.132

 

GAST-1057361-0000-UNV-W-10/2014

 

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Melanoma metastatico, a breve la prima terapia personalizzata

Venerdì, a Milano, l’annuncio: per metà giugno è attesa la pubblicazione in Gu dell’autorizzazione all’immissione in commercio di vemurafenib (classe H), prima terapia personalizzata contro il melanoma metastatico prodotta per tutto il mondo in Italia (a Segrate, MI). «Fino a poco tempo fa i risultati erano scarsi e il tempo medio di sopravvivenza per un paziente in stadio avanzato era di 6,2 mesi» ha ricordato Paolo Ascierto, presidente della Fondazione Melanoma e vicedirettore Unità melanoma dell’Istituto nazionale dei tumori (Int) di Napoli. «Ora però si sa che 1 caso di melanoma metastatico su 2 è dovuto alla mutazione della proteina Braf, e ciò ha portato a vemurafenib». «Se il gene Braf è mutato (Braf V600), ne deriva una proteina Braf alterata che trasmette alla cellula un segnale di crescita molto più intenso, con proliferazione incontrollata» afferma Michele Del Vecchio, dell’Int di Milano. «Vemurafenib, inibendo la proteina Braf mutata, blocca la trasmissione del segnale a valle e la proliferazione tumorale». «Per verificare se il gene Braf è mutato va fatto un test genetico sul Dna estratto dal tessuto tumorale» spiega Nicola Normanno, direttore del dipartimento di ricerca dell’Int di Napoli. «In Italia ci sono 78 laboratori distribuiti su tutto il territorio in grado di effettuare questo test con elevata qualità, sottoposta a controllo». «Il beneficio immediato apportato dal farmaco è tale da essere definito ‘Effetto Lazzaro’» sottolinea Ascierto «e si è ottenuto un netto miglioramento dei tempi medi di sopravvivenza.  Dagli studi clinici di fase II e III la mediana di sopravvivenza dei trattati con vemurafenib si aggira sui 13-16 mesi». «Due aspetti rendono il farmaco più gradito al paziente» rispetto alla chemio, aggiunge Del Vecchio. «È una terapia per os, sicuramente meglio tollerata di un’endovenosa, e la maggior parte degli effetti collaterali sono reversibili e transitori». Ora la speranza è che non ci siano ulteriori lungaggini burocratiche prima che il farmaco sia disponibile nelle Regioni. Da citare, infine, sperimentazioni in corso con vemurafenib su altre neoplasie con Braf mutato: tumori della tiroide, del colon, leucemia a cellule capellute, adenocarcinoma del polmone, colangiocarcinoma.

Le cellule staminali. Vi sono alcune tecniche, in via di sperimentazione, che prevedono l’impianto di staminali in determinate aree cerebrali. I tipi di trapianto più studiati sono il trapianto autologo di staminali mesenchimali adulte di derivazione midollare e l’impianto di tessuto mesencefalico embrionale. Attualmente è in corso di sperimentazione anche l’infusione di “glial cell line-derived neurotrophic factor”, un potente fattore neutrofico che promuove la sopravvivenza e la differenziazione dei neuroni del mesencefalo e dei motoneuroni.
Va però sottolineato che, ad oggi, non esiste alcun trattamento a base di staminali raccomandato per i pazienti con malattia di Parkinson. Questi trattamenti necessitano di essere scientificamente validati in sperimentazioni cliniche controllate e condotte in strutture riconosciute e secondo le regole in vigore a garanzia dei pazienti. I dati scientifici prodotti devono poi essere condivisi e pubblicati su riviste peer-reviewed prima del passaggio al letto del paziente.

La malattia di Parkinson. Nel nostro Paese sono 230 mila le persone affette dal Parkinson, in maggioranza uomini (sei su dieci). Una cifra purtroppo destinata a raddoppiare entro il 2030 a causa dell’invecchiamento della popolazione. Il 70% di tutti i malati di Parkinson ha più di 65 anni, mentre nel 5% dei casi la malattia insorge prima dei 50 anni.

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Parkinson. Dall’Iss la linea guida aggiornata sulla malattia

Le nuove raccomandazioni riguardano i criteri diagnostici, le possibili terapie, ma anche, per la prima volta, le questioni riguardanti i possibili trattamenti  neurochirurgici e l’utilizzo delle staminali.

27 MAG – E’ stata presentata oggi all’Istituto superiore di sanità la nuova “Linea guida sulla diagnosi e terapia della malattia di Parkinson”. Si tratta sia di un aggiornamento della versione pubblicata nel 2010 dallo Scottish intercollegiate guidelines network (Sign) per la diagnosi e i trattamenti farmacologici, sia della valutazione, per la prima volta, in una visione di sanità pubblica, delle questioni inerenti l’opportunità di un trattamento riabilitativo, chirurgico e di una terapia a base di cellule staminali. La Linea guida è inserita nell’ambito del Sistema nazionale linee guida ed è il  frutto del lavoro di collaborazione tra l’Iss e la Lega italiana per la lotta contro la malattia di Parkinson, le sindromi extrapiramidali e le demenze (Limpe), e di altre 13 società scientifiche (mediche e di altri professionisti sanitari) e delle due associazioni di familiari e pazienti.  Questa linea guida costituisce il primo innovativo documento con una serie di raccomandazioni rivolte agli operatori sanitari impegnati nella gestione del paziente affetto da Parkinson.

“Abbiamo tracciato, per la prima volta, un possibile percorso diagnostico assistenziale del paziente affetto dalla malattia di Parkinson – ha affermato Nicola Vanacore, neuroepidemiologo dell’Iss –  offrendo così un primo tassello per lo sviluppo, nel nostro Paese, di un sistema integrato nella gestione di questa patologia, che chiama in causa, nelle sue diverse fasi, numerosi professionisti: dal neurologo al medico di medicina generale, dal geriatra al fisiatra, dal neurofisiologo al neurochirurgo, dallo psichiatra all’ortopedico e molti altri”.

I trattamenti neurochirurgici. La malattia di Parkinson conduce ad una progressiva disabilità motoria con relativa perdita di indipendenza, isolamento sociale, rischio di cadute e traumi. C’è poi tutto un corredo di sintomi non motori: compromissione di alcune funzioni cognitive, dell’attenzione, del linguaggio. Le tecniche riabilitative prescritte (fisioterapiche, logopediche e occupazionali) necessitano tuttavia di essere sottoposte ad una procedura di standardizzazione e valutazione in modo da favorirne la trasferibilità dal mondo della ricerca alla pratica clinica corrente.
In pazienti gravemente compromessi dal punto di vista motorio e che non rispondono ai trattamenti farmacologici, è possibile ricorrere a trattamenti chirurgici di due tipi: gli interventi di lesione e quelli di stimolazione cerebrale profonda. Entrambi prevedono l’inserimento di un elettrodo in determinate aree cerebrali che nel primo caso va a cauterizzare le cellule target per poi essere rimosso, mentre nella stimolazione cerebrale profonda il pacemaker cerebrale viene posizionato in una specifica area del cervello e qui lasciato allo scopo di emettere costantemente un impulso elettrico. Non mancano tuttavia le criticità connesse a tale operazione: dalla scelta del target di stimolazione alle possibili complicanze intra e post operatorie.

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Nuovi anticoagulanti orali: promettono rivoluzione terapeutica

I nuovi farmaci anticoagulanti orali promettono una vera e propria rivoluzione terapeutica nella prevenzione dell’ictus nei pazienti con fibrillazione atriale: meno effetti collaterali, meno interazioni con farmaci e cibi, meno esami di monitoraggio e più compliance dei pazienti al trattamento. Sono questi, spiegano i medici internisti della Fadoi, in occasione del 18° Congresso nazionale della società scientifica svoltosi a Giardini Naxos (Me), i benefici che si possono ottenere con gli anticoagulanti di nuova generazione di (dabigatran, rivaroxaban, apixaban), già approvati dall’Ema e disponibili a breve anche nel nostro Paese, e che si tradurrebbero in «11mila morti e 35mila nuovi casi di ictus cardioembolico in meno l’anno» e «una rilevante diminuzione dell’invalidità, circa 18mila nuovi gravi casi evitabili ogni anno, con un conseguente calo delle spese assistenziali». Con i nuovi farmaci, la terapia per la prevenzione di ictus ed embolia sistemica nei pazienti con fibrillazione atriale, avrà un profilo di sicurezza migliore: «il rischio di emorragie cerebrali è ridotto fino al 70%, i dosaggi sono fissi e le interazioni con altri farmaci e con i cibi sono scarsamente rilevabili» sottolineano gli esperti. «I nuovi anticoagulanti orali hanno non solo un profilo di sicurezza migliore» ribadisce Carlo Nozzoli, presidente di Fadoi «ma anche un atout in più: posso essere assunti con un dosaggio fisso e questo rende superflui i controlli ravvicinati “liberando” il paziente da uno stress, con il vantaggio di riuscire ad adattarsi alla terapia con maggiore facilità». Infatti, come spiega Andrea Fontanella, direttore del Dipartimento di medicina interna dell’Ospedale Buonconsiglio-Fatebenefratelli di Napoli, «i farmaci fino a oggi disponibili, i cosiddetti antivitamina K, nonostante siano efficaci hanno diversi limiti che ne rendono difficile l’utilizzazione nella pratica: la risposta al farmaco non è sempre prevedibile, c’è una stretta finestra terapeutica tra efficacia anticoagulante e rischio emorragico e hanno un lento inizio dell’azione e una altrettanto lenta cessazione dell’effetto. Tutto questo comporta la necessità di esami di laboratorio continui per monitorarne l’effetto e costanti aggiustamenti terapeutici».

k-vs-U�tt�& 8>$ ng.html”>Tom Frieden. Hepatitis C Testing. CDC Vital Signs, May 2013.

 

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Bisturi con tecnica endoscopica solleva bene le sopracciglia

L’innalzamento delle sopracciglia eseguito con tecnica endoscopica è ben tollerato e la maggior parte dei pazienti sono soddisfatti del risultato

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L’innalzamento delle sopracciglia eseguito con tecnica endoscopica è ben tollerato e la maggior parte dei pazienti sono soddisfatti del risultato. È quanto emerge dallo studio condotto alla Wake Forest Baptist school of medicine di Winston-Salem, in North Carolina, e pubblicato su Jama facial plastic surgery. Dice Nicholas Panella, chirurgo plastico alla Wake e coautore dell’articolo: «La comparsa di rughe sulla fronte e alla radice del naso, accompagnate dall’abbassamento delle sopracciglia, è tra i primi segni di invecchiamento». Le sopracciglia basse e cadenti contribuiscono a dare al volto espressioni tristi o pensierose, e per questo molte persone si sottopongono al sollevamento del sopracciglio, l’anglosassone brow lift, realizzato con tecniche differenti. Tra queste c’è il classico innalzamento della fronte: con un’incisione nel cuoio capelluto la pelle viene tesa sollevando le sopracciglia e distendendo le rughe. «Un’altra tecnica, che ha quasi del tutto sostituito la classica, è l’approccio endoscopico eseguito con piccole incisioni che consentono un recupero veloce» riprende il chirurgo, che assieme ai colleghi ha studiato 57 pazienti sottoposti a brow-lift endoscopico con un sondaggio telefonico fatto di 47 domande sulla valutazione dei risultati, la soddisfazione, e il recupero funzionale. I dati raccolti indicano che la procedura ha avuto successo nel 93% dei casi, e addirittura 55 pazienti su 57 la consiglierebbero ad amici e parenti. «A 42 di loro è stato detto che sembravano più giovani, e a 37 che apparivano meno stanchi» puntualizza il chirurgo. E ancora: 51 intervistati hanno avuto bisogno di analgesici per meno di una settimana, 44 hanno descritto le cicatrici come impercettibili e in 54 l’edema postoperatorio è durato meno di due settimane. «Dei 16 pazienti soggetti a mal di testa prima della chirurgia, la metà ha riferito un miglioramento del disturbo» aggiunge Panella, e conclude: «Il brow-lift endoscopico è ben tollerato e la maggior parte dei pazienti sono soddisfatti del risultato. Il nostro studio dimostra che le informazioni riferite dai pazienti aiutano a comprendere meglio l’esperienza chirurgica, migliorando  la consulenza preoperatoria».

Jama Facial Plast Surg. Published online May 9, 2013

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Epatite C: presto linee guida dai Cdc per rafforzare il follow-up

Negli Stati Uniti solo la metà dei pazienti che sono risultati infetti dal virus dell’epatite C (in base all’esito del test degli anticorpi anti-Hcv) effettua un adeguato esame di follow-up, più sofisticato, per verificare la presenza del virus e il persistere della necessità  di un trattamento. È quanto rivelano, sul loro sito, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta. L’esecuzione completa del test secondo un processo in due fasi è decisiva per assicurare ai pazienti con pregressa infezione l’ottenimento, se necessari, delle cure anti-epatite C, allo scopo di prevenire la cirrosi, il cancro epatico e altre conseguenze gravi e potenzialmente letali per la salute» afferma Thomas Frieden, direttore dei Cdc. Per l’effettuazione dello studio, i ricercatori hanno raccolto dati da 8 aree della nazione. Su tutti i casi di epatite C identificati mediante test per gli anticorpi, solamente il 51% comprendeva anche l’esito di un test di follow-up che ha permesso di identificare uno stato infettivo in corso: ciò significa che questi soggetti erano con tutta probabilità inconsapevoli di essere ancora infettati in modo attivo dal virus. Più in dettaglio, i Cdc stimano che circa 3 milioni di americani convivano con l’epatite C e che fino al 75% di questi non sappia di essere infetto, ponendosi in una condizione di serio rischio per malattie epatiche, cancro e morte. In effetti, sebbene un piccolo numero di persone con test anticorpale positive all’Hcv riesca a eliminare il virus da solo, circa l’80% di chi era positivo resta infetto e può andare incontro a complicanze. Come conseguenza di tali risultati, i Cdc stanno per emanare apposite linee guida che sollecitano i medici a far effettuare ai pazienti i test di follow-up per essere certi che questi ultimi ricevano un trattamento adeguato. L’agenzia era già intervenuta nell’agosto scorso per sottolineare l’attenzione da porre ai ‘baby boomers’, soggetti nati tra il 1945 e il 1965, dove si è rilevato un severo impatto della patologia.

Tom Frieden. Hepatitis C Testing. CDC Vital Signs, May 2013.

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Alto rischio cardiovascolare: nessun beneficio da omega3

Per verificare se l’assunzione giornaliera di un grammo di acidi grassi polinsaturi (Omega-3) potesse prevenire le principali complicanze in una popolazione ad alto rischio cardiovascolare, è stata realizzata la ricerca “Rischio e prevenzione”, da un team multidisciplinare italiano. Lo studio, condotto su più di 12.000 pazienti, con una età media di 64 anni, di cui il 39% donne, seguiti per 5 anni, ha evidenziato che un trattamento farmacologico con Omega-3 non comporta vantaggi specifici in termini di riduzione di mortalità ed ospedalizzazione per motivi cardiovascolari. La ricerca è stata possibile grazie alla partecipazione di 860 medici di medicina generale, distribuiti in tutta Italia, in collaborazione con l’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, il Consorzio Mario Negri sud, il Centro studi e ricerche in Medicina generale e altre associazioni. In pratica la supplementazione di omega 3 in contesti di buona assistenza medica non ha apportato vantaggi clinici. «Con i suoi risultati ed i suoi protagonisti» afferma Carla Roncaglioni dell’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri «lo studio può e deve essere considerato un paradigma provocatorio in questi tempi di crisi: per produrre conoscenze innovative e rilevanti, per ridurre i carichi assistenziali e aumentare l’efficienza economica non sono necessari solo tagli, ma anche progettualità capace di fare della medicina pubblica, anche quella tanto a rischio di impiegatizzazione della medicina generale, la partner ideale di istituzioni indipendenti nel comune laboratorio di ricerca del Servizio sanitario nazionale».

N Engl J Med 2013; 368: 1800-8

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Usa, mammografie stabili nonostante nuove raccomandazioni

12 Lug 2013 Ginecologia

Nonostante le controverse raccomandazioni con le quali nel 2009 il governo suggeriva di ridurre i tassi di screening, al momento non è cambiato il numero di donne che si sottopone a mammografia. Lo rivelo uno studio pubblicato su Cancer. La U.S. Preventive services task force, si era incaricata di allertare medici, compagnie assicurative e decisori politici circa l’opportunità di effettuare lo screening mammografico ogni 2 anni nelle donne d’età compresa tra 50 e 74 anni. Per le donne più giovani la raccomandazione era di decidere caso per caso. Ciononostante ad alcuni anni di distanza i ricercatori del Brigham and Women’s Hospital di Boston non hanno riscontrato il calo atteso nel numero di esami, anzi hanno registrato addirittura dei lievi incrementi percentuali. Senza entrare nelle motivazioni alla base di questi riscontri, si possono fare alcune ipotesi, dice Lydia Pace, che ha guidato lo studio: confusione di medici e pazienti in merito alle raccomandazioni della task force; decisioni di alcune organizzazioni, come l’American Cancer Society, di continuare ad attenersi alle precedenti raccomandazioni, copertura assicurativa garantita dalle compagnie per la mammografia annuale. Per esempio l’American Medical Association ha adottato questa politica, in occasione del suo meeting annuale del 2012, stabilendo che le donne oltre i 40 anni che desiderano effettuare una mammografia devono essere in grado di ottenerla e che le assicurazioni devono rimborsarla. «Probabilmente i medici non hanno il tempo, o gli strumenti, o non si sentono preparati per affrontare a fondo il discorso rischio/beneficio con i pazienti» ha commentato Pace.

siste �Zitp& 8>$ miracoloso per il cancro alla prostata» conclude Posadzki, aggiungendo che «nessun supplemento può sostituire il valore di una dieta equilibrata».

Posadzki P, et al. Maturitas, 2013 Apr 5.

 

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Integratori alimentari inefficaci contro ca prostatico

Nonostante gli integratori alimentari siano molto usati dai pazienti affetti da cancro della prostata (si stima che siano assunti in 1 fino a 3 quarti dei casi), una nuova review realizzata da Paolo Posadzki e colleghi dell’Istituto coreano di medicina orientale a Daejeon (Sud Corea) afferma che essi non sono efficaci per tale indicazione. Il team è giunto a queste conclusioni dopo avere confrontato i dati relativi a 478 pazienti affetti da cancro alla prostata di gravità variabile arruolati in 8 studi – randomizzati in doppio cieco placebo-controllati – condotti in Olanda e Usa. Per valutare in modo incontrovertibile se gli integratori fossero in grado di curare il cancro alla prostata, i ricercatori hanno esaminato gli esiti considerando i singoli costituenti dei prodotti: minerali (selenio, zinco, rame e magnesio), vitamine (D, B2, B6, B9, B12, C ed E), antiossidanti e composti vegetali come isoflavoni, carotenoidi, licopene, fitosteroli, fitoestrogeni, e altre sostanze (CoQ10 e n-acetilcisteina). In ogni trial, i pazienti avevano assunto un integratore – diverso a seconda dello studio – e sono stati monitorati per un periodo compreso da poche settimane a 5 anni. Nel complesso, 6 studi hanno dimostrato che gli integratori non hanno portato ai pazienti benefici maggiori rispetto al placebo o ad altro tipo di supplemento. In due studi si è rilevato un calo significativo dei livelli di Psa (indicatore controverso di processo canceroso) tra i pazienti che assumevano una combinazione di integratori, rispetto al gruppo placebo, tuttavia nessuno di questi studi ha coinvolto più di 50 persone e due sono stati sponsorizzati dai produttori dei supplementi. «Il messaggio principale è che non esiste un integratore miracoloso per il cancro alla prostata» conclude Posadzki, aggiungendo che «nessun supplemento può sostituire il valore di una dieta equilibrata».

Posadzki P, et al. Maturitas, 2013 Apr 5.

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