Uso appropriato dei test di diagnosi e screening

La crescita insostenibile dei costi della sanità ha posto come priorità assoluta in molti Paesi la riduzione dei costi sanitari, pur cercando di mantenere una buona qualità della assistenza. Molti sono i fattori che aumentano la spesa sanitaria: nuovi farmaci, devices, procedure varie ed esecuzione di test con tecnologie evolute. Le innovazioni biomediche sono spesso fattori chiave per migliorare gli outcome dei pazienti; tuttavia l’utilizzo di queste tecnologie mediche va effettuato in modo giudizioso valutando se i potenziali benefici giustificano i costi.

Sotto questo aspetto è essenziale operare una distinzione tra costo e valore: un intervento di costo elevato può produrre un buon valore se il beneficio netto (quando cioè il beneficio sopravanza i potenziali danni) è sufficientemente alto da giustificare il costo. Esempi di interventi costosi ma ad elevato valore sono la terapia anti-retrovirale nelle infezioni HIV o l’impianto di un ICD in pazienti ad alto rischio se in valido stato funzionale e con prognosi superiore ad 1 anno. Esempi di interventi poco costosi ma con basso valore sono il PAP test annuale rispetto a controlli ogni 3 anni in donne a basso rischio o l’esame Rx torace pre-operatorio in soggetti asintomatici e sostanzialmente sani. In definitiva occorre riflettere più sul valore degli esami che solo sul costo. Al fine di ridurre la spesa sanitaria ed evitare un sovrautilizzo o un cattivo utilizzo di test e/o trattamenti, l’American College of Physicians ha attivato un working group di internisti (di varie estrazioni specialistiche ed operanti in differenti sedi ospedaliere degli US, espressione del ‘real world‘) con l’obiettivo di identificare i più frequenti test diagnostici o di screening ritenuti sovrautilizzati in quanto di basso valore. I principi in base ai quali veniva ritenuto appropriato o inappropriato un test erano i seguenti
1) un test diagnostico non dovrebbe essere effettuato se si sa già a priori che l’esito non modificherà il trattamento (per esempio un esame Rx torace a 4 settimane dopo la diagnosi di polmonite in un paziente che ha risposto in modo clinicamente favorevole alla terapia, in quanto la risoluzione radiologica del focolaio può richiedere anche 6-8 settimane)
2) quando la probabilità pre-test di malattia è basso, la possibilità di un risultato falso positivo è più elevata di un risultato vero positivo
3) il costo reale di un test non comprende soltanto la spesa per il test stesso, ma anche quella per eventuali ulteriori esami che possono essere richiesti successivamente. 
È stata compilata una lista di ben 37 test ritenuti non in accordo con le raccomandazioni delle principali linee guida disponibili e quindi inappropriati, che tuttavia vengono spesso utilizzati nella pratica clinica. Ecco alcuni esempi di esami inappropriati

  • controlli routinari ripetuti di un ecocardiogramma in pazienti asintomatici con lieve insufficienza mitralica e normale dimensione e funzione ventricolare sinistra
  • test di imaging cerebrale (TC e/o RMN) in pazienti con sincope e regolare esame obiettivo neurologico
  • test sierologici per la malattia di Lyme in assenza di segni/sintomi specifici
  • determinazione degli anticorpi antinucleo in soggetti con sintomi non specifici (mialgie, astenia, fibromialgia)
  • controllo annuale dell’assetto lipidico in pazienti non in terapia ipo-colesterolemizzante, in assenza di possibili cause di modificazione del profilo lipidico
  • BNP nella valutazione iniziale di pazienti con chiari segni/sintomi e referti di altri esami indicativi di scompenso cardiaco.

L’obiettivo da perseguire è di identificare situazioni cliniche frequenti che offrano l’occasione di ridurre i costi (riducendo l’uso di test non necessari) migliorando o comunque non peggiorando la qualità delle cure mediche. Le tecnologie bio-mediche vanno usate se di alto valore, con la piena consapevolezza dei costi. 

Qaseem A et al. Appropriate Use of Screening and Diagnostic Test to foster High-Value, Cost-Conscious Care. Ann Intern Med 2012; 156: 147-149

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Modificazioni cognitive e cerebrali nello scompenso cardiaco

20 Feb 2012 Neurologia

Lo scompenso cardiaco (Hf) si associa a un declino dei processi mentali e a una perdita di materia grigia cerebrale. Ciò può comportare difficoltà a ricordare le istruzioni sui farmaci da assumere. Lo rivela una ricerca coordinata da Osvaldo P. Almeida, della university of Western Australia di Crawley, Perth. Il team di ricercatori ha effettuato uno studio trasversale su 35 partecipanti con diagnosi accertata di Hf, disfunzione ventricolare sinistra e sintomi clinici compatibili con diagnosi di Hf di almeno 6 mesi di durata. Nello studio sono stati inclusi anche 56 pazienti con ischemia cardiaca (Ihd) e 64 controlli senza alcuna di tali patologie. La misura primaria di outcome considerata è stato il Cambridge cognitive examination of the elderly revised (Camcog): una batteria neuropsicologica  che esamina vari aspetti del funzionamento cognitivo, compreso l’orientamento, il linguaggio, la memoria, l’attenzione, la concentrazione, la percezione e il calcolo; il punteggio totale va da 0 a 105, corrispondente alle migliori performance. Gli score Camcog dei soggetti con Ihd e Hf sono stati di 1,8 e 2,8 punti inferiori, rispettivamente, a confronto di quelli dei soggetti sani. I partecipanti Hf, inoltre, hanno fatto registrare punteggi inferiori nelle misure di richiamo immediato e ritardato al California verbal learning test. Infine, tramite scansione Rm, il team ha evidenziato nel gruppo Hf rispetto ai controlli notevoli perdite di grigia al giro del cingolo a sinistra, al caudato destro, nelle regioni occipito-parietali, e in molte altre zone ritenute vitali per la memoria, il ragionamento e la pianificazione. Nel complesso, gli adulti con Hf hanno un peggioramento della memoria immediata e a lungo-termine e della velocità psicomotoria, e tale condizione si associa modificazioni di regioni cerebrali importanti per le funzioni cognitive e i processi emozionali. 

Eur Heart J, 2012 Jan 31. [Epub ahead of print]

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Dal 27-idrossicolesterolo forse l’origine della Bpco

20 Feb 2012 Pneumologia

La produzione di 27-idrossicolesterolo (27-Ohc) risulta aumentata nelle vie aeree dei pazienti affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) e potrebbe essere coinvolta nella patogenesi della malattia. La scoperta, e l’ipotesi, giungono dal gruppo di Takashi Kikuchi, dell’università di Wakayama (Giappone). In recenti studi il 27-Ohc si era dimostrato in grado di provocare infiammazione e apoptosi in vari tipi cellulari, e ora si voleva verificarne un eventuale coinvolgimento nella fibrosi. L’équipe ha raccolto tessuto polmonare da 6 controlli e da 6 pazienti con Bpco, e campioni di espettorato da 11 soggetti sani e da 15 pazienti con Bpco. L’espressione della sterolo 27-idrossilasi è stata indagata nei tessuti polmonari per via immunoistochimica, mentre la quantità di 27-Ohc nell’espettorato è stata quantificata mediante cromatografia liquida e spettrometria di massa. Inoltre, dato che la fibrosi peribronchiale nelle vie aeree periferiche è coinvolta nella limitazione funzionale della Bpco, sono stati studiati gli effetti pro-fibrotici in vitro del 27-Ohc. L’espressione della sterolo-27-idrossilasi è apparsa significativamente aumentata nei tessuti polmonari dei pazienti con Bpco rispetto ai controlli. Anche la quantità di 27-Ohc nell’espettorato è risultata significativamente aumentata nei pazienti con Bpco e il grado di produzione di 27-Ohc si è rivelata correlata in modo inverso con la funzione polmonare. Il 27-Ohc, infine, ha fatto aumentare la differenziazione di fibroblasti polmonari in miofibroblasti e la produzione di proteine della matrice extracellulare.

Chest, 2012 Jan 26. [Epub ahead of print]

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Livelli urinari di N-telopeptide ed efficacia di alendronato

Nelle donne con osteoporosi postmenopausale, il trattamento con alendronato, Aln (70 mg/settimana) determina la riduzione dell’escrezione urinaria di N-telopeptide (Ntx), biomarker di turnover osseo e di efficacia della terapia antiosteoporotica. La probabilità di conseguire una riduzione clinicamente significativa è maggiore nelle donne che presentano i più alti livelli basali di Ntx e che hanno la più elevata compliance al trattamento. Sono le conclusioni di uno studio osservazionale prospettico multicentrico spagnolo, coordinato da Santiago Palacios, dell’Instituto Palacios di Madrid, nel quale sono state ammesse donne in postmenopausa osteoporotiche (in base a criteri densitometrici), che avevano iniziato un trattamento con Aln senza pregresse terapie agenti riassorbitivi (da 12 mesi) o calcitonina (da 6 mesi). La valutazione di Ntx nelle urine è stata fatta al basale e dopo un follow-up di 6 mesi. Una variabile dicotomica misurata è stata l'”ottenimento di una riduzione di Ntx urinario di almeno il 30%”, parametro considerato “minimo cambio clinicamente significativo” (Mccs). Tra le altre variabili considerate, la compliance al trattamento è stata valutata come percentuale di giorni di farmaco prescritto in funzione del tempo tra l’inizio e la fine del trattamento (una buona compliance veniva considerata se compresa tra 80% e 120%). Alla fine, le variabili che hanno raggiunto una significatività statistica sono state i valori urinari basali di Ntx (Or: 1,052) e la compliance (Or: 3,9). Pertanto le donne con buona compliance al trattamento avevano probabilità almeno 4 volte maggiori di conseguire il Mcsc a livello ntx; inoltre, si è visto che l’aumento di 1 unità di Ntx urinario basale aumentava del 5% la probabilità di raggiungere il Mcsc.

Menopause, 2012; 19(1):67-74

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Auto-controllo glicemico poco utile se non si usa insulina

L’auto-monitoraggio della glicemia ha dimostrato di essere poco efficace sul controllo glicemico nei pazienti con diabete di tipo 2 che non utilizzano l’insulina. A questa conclusione arriva una revisione pubblicata dalla Cochrane library, su nove studi per un totale di 2.324 partecipanti, che nei primi sei mesi non hanno ottenuto alcun effetto sui livelli di HbA1c, diminuiti dello 0,26%, e la significatività non aumentava neanche dopo 12 mesi. Secondo gli autori, pertanto l’auto-monitoraggio «ha un impatto minimo sul controllo glicemico, non ha alcun impatto sul benessere generale o la qualità della vita, ed è piuttosto costoso». È stato notato che in questi pazienti erano più frequenti, rispetto al gruppo di controllo, gli episodi di ipoglicemia, un dato spiegabile, secondo gli autori, come risultato dell’utilizzo del dispositivo di autocontrollo glicemico per confermare l’ipoglicemia percepita. Inoltre, è emerso che, rispetto al monitoraggio del glucosio nelle urine, il costo era 12 volte più alto, considerando la base di nove misurazioni alla settimana (481 dollari vs 40 dollari).

Cochrane Database Syst Rev. 2012 Jan 18

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Efficacia e sicurezza dell’automonitoraggio della coagulazione

Un’analisi di Carl Heneghan e dei suoi colleghi del Department of primary care health sciences di Oxford (UK) mostra che l’auto-valutazione e auto-gestione del trattamento con anticoagulanti orali costituiscono un’opzione sicura per pazienti di qualunque età. «In accordo con precedenti revisioni sistematiche» spiega Heneghan «i nostri risultati indicano che in questo modo i pazienti possono migliorare la qualità della propria terapia anti-coagulante». Attraverso una ricerca sui principali archivi in cui vengono registrati gli studi medico-scientifici (Embase e Medline) gli autori hanno individuato in prima battuta 1.357 abstract, per poi includere nell’analisi 11 studi, per un totale di 6.417 partecipanti e 12.800 anni-persona di follow-up. Tra le persone inserite nei gruppi di auto-monitoraggio si è riportata una riduzione significativa degli eventi tromboembolici (hazard ratio, Hr: 0,51) ma non degli eventi emorragici maggiori (Hr: 0,88) o dei decessi (Hr: 0,82). Nei partecipanti di età inferiore ai 55 anni la riduzione del rischio di eventi tromboembolici è stata impressionante (Hr: 0,33) ed è stata notevole anche nei gruppi di pazienti con valvole cardiache meccaniche (Hr: 0,52). La pratica si è dimostrata sicura anche tra le persone anziane e nei 99 soggetti con età maggiore di 85 anni non si sono avuti effetti avversi di rilievo. 

Lancet, 2012; 379(9813):322-34

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Epatite B occulta legata a maggiore rischio di Hcc

Una meta-analisi delle evidenze scientifiche pubblicate in letteratura, effettuata da un gruppo di ricercatori cinesi guidati da Yu Shi – dell’università Zhejiang a Hangzhou – avvalora l’ipotesi che l’epatite B (Hbv) occulta si associ a un aumento del rischio di carcinoma epatocellulare. In un contesto in cui questa associazione era considerata controversa, l’approfondimento, pubblicato su Liver International, calcola che i soggetti con epatite C occulta hanno un rischio relativo di contrarre un tumore maligno primitivo del fegato aumentato di oltre il doppio rispetto agli altri individui. Il risultato, in particolare, deriva dall’esame di 16 trial pubblicati sull’argomento, relativi a pazienti ospedalizzati e l’associazione si è mantenuta statisticamente significativa sia negli studi retrospettivi (Or: 6,08) che prospettici (Rischio relativo: 2,86). Inoltre l’Hbv occulto ha incrementato il rischio di Hcc sia nelle popolazioni Hcv-infette (Rischio relativo: 2,83) sia in quelle non infette (Or:10,65). Allo scopo di convalidare l’affidabilità del risultato, i ricercatori cinesi hanno avviato un’ulteriore analisi dei sottogruppi stratificati per evidenziare la presenza di eventuali fattori confondenti. In questo approfondimento, l’associazione si è confermata indipendentemente dall’età, dal sesso, dal test Hbv Dna e anche dalla qualità degli studi esaminati. Gli autori sottolineano infine un’evidenza che trovano particolarmente significativa: gli individui con una concomitante presenza di anticorpi anti-HBs e anti-HBc presentano un accresciuto rischio di infezione occulta da Hbv. 

Liver Int, 2012; 32(2):231-40

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Obesità, infiammazione e sindrome metabolica nei giovani

20 Feb 2012 Pediatria

A differenza dei coetanei in buona salute, gli adolescenti obesi fanno registrare una marcata infiammazione a bassa intensità e valori elevati dei biomarcatori di sindrome metabolica. Le misurazioni sono state effettuate nell’ambito di uno studio danese – diretto da Rikke Juul Gøbel dell’università di Copenhagen – su 51 ragazzi dai 12 ai 15 anni obesi e su 30 di pari età e peso nella norma. I risultati sono in linea con altri studi che avevano rilevato livelli più elevati di pressione sanguigna, insulina, insulinoresistenza, C-peptide, colesterolemia totale, Ldl, trigliceridi, proteina C-reattiva, interleuchina-6, tumor necrosis factor-alfa e livelli inferiori di colesterolo Hdl tra gli adolescenti obesi rispetto ai normopeso, mentre non si sono misurate differenze riguardanti glicemia, acidi grassi o calprotectina fecale. Inoltre, tra gli adolescenti obesi, fattori di rischio quali il colesterolo Ldl e la proteina C-reattiva sono apparsi associati positivamente con gli z- scores del body mass index. È stata anche trovata un’alta prevalenza di sindrome metabolica, pari al 14%, tra gli adolescenti obesi; inoltre, le misure di proteina C-reattiva sono risultate associate in modo positivo alla maggior parte delle misure antropometriche nel gruppo obeso, mentre all’analisi di regressione lineare multipla sia lo z-score Bmi sia la somma delle pliche cutanee hanno permesso di spiegare gran parte delle variazioni della proteina C-reattiva. Secondo i ricercatori, l’elevata percentuale dei casi di sindrome metabolica in questa popolazione sottolinea la necessità di arrivare a una maggiore conoscenza delle cause e dei meccanismi che si associano ai fattori di rischio e di intervenire con programmi specifici per ridurne la prevalenza tra gli adolescenti. 

Acta Paediatr, 2012; 101(2):192-200

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Ca prostatico: influsso geografico e della storia familiare

19 Feb 2012 Oncologia

Una storia familiare positiva per ca prostatico è fortemente correlata alla diagnosi di ca prostatico, ma solo per uomini non del Nord America. La presenza di una storia familiare positiva sia per ca prostatico sia per ca mammario aumenta in modo significativo rispetto alla storia familiare di solo ca prostatico, indipendentemente dalla regione geografica. Queste osservazioni potrebbero rendere necessaria una revisione degli attuali modi con i quali si utilizzano i dati della storia familiare in termini sia di diagnosi sia di stratificazione del rischio di ca prostatico. È la conclusione di un gruppo di studiosi, guidati da Sthephen J. Freedland, della Duke university school of medicine, di Durham (Usa), giunti a questi risultati mentre erano impegnati nello studio Reduce, il cui scopo era quello di scoprire eventuali bias nelle tecniche di screening che avevano evidenziato tali associazioni tra rischio familiare di ca prostatico e mammario, e in cui, a tal fine, si impiegarono tecniche bioptiche ampiamente indipendenti dal Psa. Ecco quanto emerso dallo studio di 6.415 uomini coinvolti nel protocollo. Una storia familiare di solo ca prostatico risultava associata a un aumento di diagnosi di ca prostatico (Or: 1,47). Nel Nord America, una storia familiare di ca prostatico non era correlata a ca prostatico (Or: 1,02), mentre lo era fortemente al di fuori di tale area geografica (Or: 1,72). Una storia familiare positiva sia per ca prostatico sia per ca mammario (Or: 2,54) ma non solo per ca mammario (Or: 1,04) era associata a un rischio maggiore di ca prostatico rispetto ad assenza di pregressi familiari e indipendentemente da aree geografiche.

J Intern Med, 2011 Dec 28. [Epub ahead of print]

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Diabete e sclerosi multipla: novità in terapia

Si semplifica la terapia dei pazienti che soffrono di diabete o di sclerosi multipla, grazie, rispettivamente, all’approvazione Fda della combinazione linagliptin-metformina e al lancio, in Italia, della formulazione orale di fingolimod. Il nuovo trattamento ipoglicemizzante, ora disponibile negli Usa in un’unica dose da assumersi due volte al giorno, è indicato in pazienti adulti affetti da diabete di tipo 2 che necessitano di un migliore controllo glicemico. Al massimo dosaggio ha dimostrato di ottenere riduzioni dell’emoglobina glicata, rispetto al placebo, sino a 1,7%. Non va invece assunto da pazienti con diabete di tipo 1 né come terapia della chetoacidosi diabetica e non è stato studiato in associazione a insulina. È, invece, già disponibile in molte regioni italiane la formulazione orale in compresse, di fingolimod per il trattamento della sclerosi multipla. I pazienti con indicazione, residenti nelle Regioni in cui il farmaco non è ancora prescrivibile presso i centri specializzati locali, potranno ottenere il farmaco parlando con il proprio clinico e con l’Aism, ma in tutto il territorio sono in corso le procedure di approvazione a livello locale, anche se resta ancora sotto osservazione dell’Ema per i suoi possibili effetti cardiovascolari. In Europa e in Italia, ha due indicazioni: «è di prima linea per pazienti con malattia aggressiva», spiega Giancarlo Comi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano «e di seconda linea per persone che non hanno risposto o non rispondono più adeguatamente all’interferone». Per queste persone sarà più facile aderire alle cure, rispetto a quelle oggi in uso che richiedono una o più iniezioni al giorno.

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