Il consumo di omega-3 riduce il rischio di ictus nelle anziane

Le donne anziane che consumano regolarmente alimenti fonte di omega-3, acidi grassi polinsaturi a lunga catena, riducono in modo consistente il rischio di ictus. Al contrario il rischio aumenta con un’assunzione prolungata di colesterolo dietetico. Il dato proviene da un ampio studio effettuato da Susanna C. Larsson del Karolinska Institutet di Stoccolma (Svezia) e collaboratori, su 34.670 donne (età:49-83 anni), senza malattie cardiovascolari, alle quali era stato fatto compilare un questionario, nel 1997, relativo alla frequenza dell’alimentazione. Per calcolare i rischi relativi, si sono usati modelli di regressione di Cox. A un follow-up medio di 10,4 anni, si sono accertati 1.680 eventi ictali, compresi 1.310 infarti cerebrali, 233 ictus emorragici, e 137 ictus non specificati. Dopo aggiustamento per altri fattori di rsichio, l’assunzione di acidi grassi poliinsaturi a lunga catena è risultata inversamente proporzionale al rischio di itcus complessivo. In particolare il rischio relativo di ictus totale del quintile superiore di assunzione di omega-3 rispetto a quello inferiore si è attestato a 0,84. Il colesterolo dietetico, invece, si è associato positivamente con il rischio di ictus totale (1,20) e di infarto cerebrale (1,29). Non si sono infine rilevate associazioni con l’ictus in relazione all’assuzione di grassi totali, saturi, monoinsaturi, poliinsaturi, acido alfa-linolenico, e omega-6.

Atherosclerosis, 2012 Jan 8. [Epub ahead of print]

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Asma pediatrico: nessun vantaggio dal lansoprazolo

16 Feb 2012 Pediatria

Un recente studio su bambini con asma poco controllato, senza sintomi di reflusso gastroesofageo, e che fanno uso di corticosteroidi per via inalatoria, ha dimostrato che l’aggiunta di lansoprazolo non migliora i sintomi né la funzionalità polmonare rispetto al placebo, ma si è associa a un numero maggiore di effetti avversi. Janet T. Holbrook, della Johns Hopkins Bloomberg school of public health di Baltimora, insieme a un gruppo di ricercatori appartenenti agli Asthma Clinical Research Centers dell’American Lung Association, ha realizzato uno studio in cieco, randomizzato e controllato con placebo su un campione di 306 bambini (età media: 11 anni) arruolati in 19 centri clinici accademici statunitensi, inseriti nello studio tra il 2007 e il 2010 e seguiti per un periodo di 24 settimane. Il grado di controllo dell’asma è stato rilevato attraverso un apposito questionario (Acq – Asthma control questionnaire) mentre gli outcome secondari comprendevano misurazioni della funzionalità polmonare, la qualità della vita e frequenza degli episodi di scarso controllo dell’asma. La differenza media nel punteggio Acq tra il gruppo lansoprazolo rispetto al gruppo placebo è stata solo di 0,2 unità, lontana dal valore di 0,5 considerato clinicamente significativo. Anche il confronto rispetto agli outcome secondari non ha mostrato un effetto positivo indotto dal farmaco. Anche nel sottogruppo di pazienti con pH-metria esofagea positiva il trattamento con lansoprazolo non ha modificato gli esiti clinici. Il lansoprazolo si è però associato a una superiore frequenza di infezioni respiratorie con un valore di 1,3 del rischio relativo.

JAMA, 2012;307(4):373-81

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Cancro ovarico, prognosi migliore da Brca1 e Brca2

15 Feb 2012 Oncologia

Tra le pazienti con tumore epiteliale invasivo dell’ovaio, la mutazione germinale dei geni Brca1 e Brca2 (presente solitamente nel 10% dei casi) si associa a una maggiore sopravvivenza complessiva a 5 anni. In particolare, le donne portatrici del Brca2 hanno una prognosi migliore. Lo ha dimostrato Kelly L. Bolton, della divisione di Epidemiologia e genetica del cancro del National cancer institute di Bethesda (Usa), e collaboratori, tramite un’analisi raggruppata di 26 studi osservazionali sulla sopravvivenza di donne con cancro ovarico. I dati si riferivano a 1.213 portatrici di mutazioni germinali in Brca1 (n=909) o Brca2 (n=304) e di 2.666 non carrier, reclutate e seguite in tempi diversificati, tra il 1987 e il 2010. La mortalità generale a 5 anni (principale misura di outcome) è risultata del 36% per le non carrier, del 44% per le portatrici di Brca1, e del 52% per le portatrici di Brca2. Dopo correzioni per studio e anno di diagnosi, le donne con mutazioni Brca1 o Brca2 hanno evidenziato valori di sopravvivenza più favorevoli rispetto alle non portatrici di mutazione (Hr per Brca1: 0,78; Hr per Brca2: 0,61). Queste differenze nei valori di sopravvivenza non sono state modificate in seguito a ulteriori aggiustamenti per stadio, grado, istologia, ed età alla diagnosi (Hr per Brca1: 0,73; Hr per Brca2: 0,49).

JAMA, 2012; 307(4):382-90

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Warfarin e antibiotici: più rischi di sanguinamento negli anziani

Nei pazienti più anziani che fanno uso continuativo di warfarin, l’esposizione ad antibiotici – e in particolare ad antifungini azolici – si associa a un rischio maggiore di sanguinamento. È quanto deriva da uno studio caso-controllo condotto dal gruppo di Jacques Baillargeon, del dipartimento di Medicina preventiva dell’università del Texas a Galveston (Usa), su una coorte di 38.762 pazienti di età =/>65 anni in trattamento costante con warfarin. I casi sono stati definiti come pazienti immobilizzati per diagnosi primaria di sanguinamento; ognuno di questi è stato confrontato con 3 controlli paragonabili per età, etnia, genere e indicazione al warfarin. Si è poi utilizzata un’analisi di regressione logistica per calcolare gli odds ratio (Or) per il rischio di sanguinamento associato a una pregressa esposizione ad antibiotici. In generale, l’esposizione a qualsiasi antibiotico entro 15 giorni dall’evento/data indice è risultata associata a un maggiore rischio di sanguinamento (Or: 2,01). Tutte le 6 classi di antibiotici esaminate – azoli antifungini (Or: 4,57), macrolidi (Or: 1,86), chinoloni (1,69), cotrimoxazolo (Or: 2,70), penicilline (Or: 1,92) e cefalosporine (Or: 2,45) – sono risultate associate ad aumentato di rischio di sanguinamento.

Am J Med, 2012; 125(2):183-9

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I comportamenti autolesivi dall’adolescenza all’età adulta

13 Feb 2012 Pediatria

«La maggior parte dei comportamenti autolesionisti negli adolescenti si risolve spontaneamente. La rapida individuazione e il trattamento dei più comuni disturbi mentali durante l’adolescenza potrebbero costituire un’importante e finora non abbastanza riconosciuta componente della prevenzione del suicidio nei giovani adulti». Sono le conclusioni di una ricerca finanziata dal National Health and Medical Research Council in Australia. Paul Moran, dell’istituto di Psichiatria del King’s College di Londra, con i suoi colleghi inglesi e australiani, ha preso in considerazione un campione di 1.943 adolescenti scelto in maniera casuale in 44 scuole dello stato di Victoria, tra il 1992 e il 2008. I dati per l’indagine statistica sono stati raccolti attraverso questionari e interviste telefoniche con 7 follow-up successivi, iniziati quando i partecipanti avevano un’età media di circa 16 anni e terminati quando avevano mediamente 29 anni. Sono stati presi in considerazione il consumo di alcool, di cannabis e di fumo da sigaretta, oltre ai sintomi di depressione e di ansia, ai comportamenti antisociali e all’occorrenza di eventi come le separazioni dai genitori o i divorzi. Ne è risultato che circa l’8% degli adolescenti dai 14 ai 19 anni ha avuto comportamenti autolesionisti (la percentuale è al 6% nei ragazzi e sale al 10% tra le ragazze). Gli atti più frequenti sono stati il taglio superficiale della pelle e le bruciature e si sono ridimensionati in modo significativo durante la tarda adolescenza. Gli atti autolesionisti degli adolescenti si sono associati ai sintomi di depressione e di ansia, ai comportamenti antisociali, all’abuso di alcool, all’uso di cannabis e al fumo di sigarette. Inoltre, l’ansia e la depressione durante l’adolescenza si sono associati in modo significativo ai comportamenti autolesionisti e ai tentativi di suicidio negli anni successivi, durante la prima età adulta.

Lancet, 2012; 379(9812):236-243

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Malattia renale, nuove linee guida per medico di famiglia

12 Feb 2012 Nefrologia

Il medico di famiglia sarà sempre più coinvolto in prima linea nella diagnosi precoce della malattia renale cronica, grazie alle nuove Linee guida proposte venerdì a Roma dalla Società Italiana di Nefrologia (Sin), realizzate grazie alla collaborazione di 13 Società scientifiche coordinate dall’Istituto superiore di sanità. «La diagnosi precoce» spiega Rosanna Coppo, Presidente Sin «può infatti ridurre l’evoluzione alla dialisi e il coinvolgimento cardio-vascolare, ma può addirittura arrestare del tutto situazioni iniziali di danno renale e lo sviluppo della malattia renale cronica progressiva». Infatti, come precisa Coppo, si fa riferimento a particolari «esami come quello delle urine e della creatininemia, che sono esami semplici, specifici e poco costosi, ma che danno inizio, se alterati, a una diagnostica ben standardizzata ed efficace». Il documento della Sin costituisce il primo documento tutto italiano a disposizione dello specialista, ma anche del medico di famiglia che avrà così uno strumento pratico aggiuntivo e aggiornato. «Proprio dal medico di famiglia, in particolare, dipende sempre più» per la Sin «l’identificazione precoce della malattia, per evitare o almeno ritardare la dialisi, ma anche la scelta dell’iter diagnostico per pazienti a rischio». Le linee, organizzate in 29 punti, sono state elaborate da un panel multidisciplinare sulla base di prove di efficacia di oltre 1.000 studi scientifici. «Oltre a consentire una gestione più appropriata della malattia renale cronica» afferma Alfonso Mele dell’Istituto Superiore di sanità «saranno uno strumento utile a favorire una pratica clinica più uniforme ed una gestione più razionale delle risorse economiche».

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Allergia crociata betulacee-mele: bene l’assunzione del frutto

In pazienti con rino-congiuntivite dovuta ad allergia al polline della betulla (principale allergene: Bet v 1) associata a sindrome orale allergica alla mela (a causa della cross-reattività con l’allergene Ma d 1), una tolleranza può essere indotta attraverso un lento e progressivo consumo di mela. Tuttavia la tolleranza è solo transitoria e scompare quando il paziente ne interrompe il consumo. Lo dimostrano i risultati di uno studio clinico in aperto, randomizzato e controllato, realizzato da Werner J. Pichler e collaboratori dell’università di Berna (Svizzera), i quali hanno selezionato 40 pazienti con questo tipo di reattività crociata. A 27 di questi è stato chiesto di consumare una precisa e inizialmente piccola quantità di mela (1-128 g) e di raddoppiare il dosaggio ogni due o tre settimane, mentre gli altri 13 soggetti non hanno ricevuto alcun trattamento. I ricercatori hanno inteso verificare l’acquisizione di una tolleranza con l’assunzione di almeno 128 g di mela dopo 8 mesi e il risultato è stato ottenuto in 17 dei 27 pazienti. Nelle analisi di laboratorio non si sono tuttavia registrate differenze significative tra i due gruppi di pazienti nei valori che riflettono una reazione immunologica sistemica. Inoltre, l’interruzione del consumo controllato di mele ha portato a una perdita della tolleranza che, quindi, è stata giudicata transitoria.

Allergy, 2012; 67(2):280-5

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Abilità della mano destra trasferite alla sinistra

10 Feb 2012 Neurologia

Durante l’immobilizzazione del braccio destro, avvengono cambiamenti a livello corticale che si associano a un trasferimento delle abilità dalla mano destra alla mano sinistra. Lo mostra uno studio clinico condotto all’università di Zurigo (Svizzera) su 10 soggetti destrorsi che, in seguito a lesioni, erano stati costretti all’immobilizzazione dell’arto superiore destro per almeno 2 settimane. Gli autori dello studio hanno sottoposto i partecipanti a due esami di risonanza magnetica (Rm) funzionale, il primo entro le prime 48 ore successive al trauma e il secondo dopo un periodo medio di 16 giorni di immobilizzazione. Le immagini fornite dalla Rm hanno permesso di misurare lo spessore corticale dell’area motoria primaria sinistra, delle regioni sensorimotorie e l’anisotropia frazionaria dei tratti corticospinali (ossia le modificazioni plastiche strutturali nella materia grigia e in quella bianca). È stato così che il gruppo di studiosi, coordinato da Nicolas Langer, ha evidenziato alcune modificazioni nelle regioni cerebrali analizzate: lo spessore corticale nell’area motoria primaria e somatosensoriale dell’emisfero sinistro, così come l’anisotropia frazionaria nel tratto corticospinale sinistro (corrispondenti all’arto destro) si sono ridotti. Invece le capacità motorie della mano sinistra non lesa sono migliorate, in corrispondenza a un ispessimento corticale e a un aumento di anisotropia frazionaria nell’emisfero destro. Quindi l’immobilizzazione ha dato origine a una riorganizzazione del sistema sensorimotorio in tempi decisamente rapidi. 

Neurology, 2012; 78(3):182-8

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Fratture atipiche femore, effetto di classe dei bisfosfonati

9 Feb 2012 Ortopedia

Con una comunicazione diretta agli operatori sanitari, l’Agenzia italiana del farmaco ha diffuso importanti informazioni relative al rischio di fratture atipiche del femore associate all’uso dei bisfosfonati. L’ente ha reso noto che, seppur raramente, sono state segnalate, associate a terapia a lungo termine per l’osteoporosi, fratture atipiche del femore. Queste si verificano spontaneamente o dopo un trauma minimo e alcuni pazienti manifestano dolore alla coscia o all’inguine, spesso associato a evidenze di diagnostica per immagini di fratture da stress, settimane o mesi prima del verificarsi di una frattura femorale completa. Questi eventi sono considerati un effetto di classe dei bisfosfonati ed è stata aggiunta, alle informazioni del prodotto, un’avvertenza relativa a questo rischio. Il bilancio complessivo dei benefici e dei rischi dei singoli bisfosfonati nelle indicazioni terapeutiche autorizzate rimane favorevole, ma ribadisce l’Aifa, durante il trattamento con bisfosfonati i pazienti devono essere informati di segnalare qualsiasi dolore alla coscia, all’anca o all’inguine e qualsiasi paziente che manifesti tali sintomi deve essere valutato per la presenza di un’incompleta frattura del femore. La durata ottimale del trattamento con bisfosfonati, conclude il documento, per l’osteoporosi non è stata ancora stabilita. La necessità di un trattamento continuativo deve essere rivalutata periodicamente in ogni singolo paziente in funzione dei benefici e rischi potenziali della terapia con bisfosfonati, in particolare dopo 5 o più anni d’uso.

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Ictus criptogenici da tachiaritmie atriali subliniche

I pazienti con periodi di tachiaritmia atriale subclinica – senza fibrillazione atriale (Fa) clinica – rilevati frequentemente dai loro pacemaker, sono significativamente associati a un rischio maggiore di ictus ischemico o di embolia sistemica. Questo dato sembra supportare il concetto che la Fa subclinica sia spesso alla base di un ictus criptogenico. È la tesi sostenuta da Jeff S. Healey, della McMaster university di Hamilton (Canada) sulla base dei risultati ottenuti in uno studio condotto – insieme al team internazionale dei ricercatori Assert (Asymptomatic Atrial Fibrillation and Stroke Evaluation in Pacemaker Patients and the Atrial Fibrillation Reduction Atrial Pacing Trial) – su 2.580 pazienti, di età =/>65 anni, con ipertensione e senza storia di Fa, nei quali era stato recentemente impiantato un pacemaker o un defibrillatore. I soggetti sono stati monitorati per 3 mesi allo scopo di rilevare eventuali tachiartmie (episodi di frequenza atriale >190 bpm per più di 6 minuti) e seguiti per una media di 2,5 anni allo scopo di valutare l’outcome primario rappresentato da ictus ischemico o embolia sistemica. Nei primi 3 mesi sono state segnalati dai device tachiaritmie subliniche atriali in 261 pazienti (10,1%), risultate associate a un aumentato rischio di fibrillazione atriale clinica (Hr: 5,56) e di ictus ischemico o embolia sistemica (Hr: 2,49). Dei 51 soggetti che hanno subito un evento primario, 11 avevano avuto una tachiaritmia subclinica atriale entro 3 mesi mentre nessuno aveva avuto una Fa clinica nello stesso periodo. Il rischio di ictus o embolia sistemica attribuibile alla popolazione associata a tachiaritmia atriale subclinica è risultata del 13%. Quest’ultima si è mantenuta predittiva di outcome primario dopo aggiustamento per i fattori predittivi di stroke.

N Engl J Med, 2012; 366(2):120-9

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